domenica 28 dicembre 2008

"Caro, ma come respiri?"


Il respiro è l'elemento più vitale della vita organizzata. Dal respiro dipendono gli scambi gassosi con l'ambiente e dal regolare afflusso di ossigeno ai polmoni dipende la buona funzionalità della respirazione cellulare (in cui, si ricorda pleonasticamente, l'ossigeno viene assunto per lo sviluppo di importanti processi e metabolici e CO2 e CO vengono liberati dal'ambiente interno di ogni unità elementare del nostro corpo.
Per questo, sin dai primordi del genere umano, al respiro è stata associata la vitalità, e anche l'anima.
Ciò che ci rende viventi e pensanti, infatti, è il
"soffio vitale".
Il dio creatore ci ha infuso la vita con un soffio e con un "vento", una leggera brezza, si libererà, quando sarà il momento, la nostra anima dalle nostre spoglie mortali (quando si dice:
"esalare l'ultimo respiro", è sotteso proprio questo distacco dell'anima dal corpo).
Il respiro è ritmo, regolarità.
E' talmente connaturato in noi che nemmeno ci accorgiamo di respirare regolarmente.
Le filosofie orientali, per questo stesso motivo, danno ad esso un'estrema importanza, come base per la meditazione e la realizzazione d'una profonda unità nello psicosoma.
La sillaba sacra del Buddismo
"OM" si produce con una lunghissima e controllata espirazione che coinvolge radicalmente tutti i muscoli preposti all'espirazione.
Tante tecniche di rilassamento occidentali, ispirate alle filosofie orientali, insegnano l'arte del respiro come propedeutica ad esercizi più complessi.
Il respiro è anche alla base della voce, della parola e dell'eloquio, ma anche il fondamento della musicalità e di ogni emissione sonora che, poi, si tramuta in "musica".
Ciascuno ha un proprio modo di respirare, fatta salva regolarità e frequenza degli atti respiratori.
Molte malattie si manifestano con alterazione del respiro, che a volte sono patognomoniche di ciò che sta accadendo.
Alcuni fanno lunghe inspirazioni e altrettanto lunghe espirazioni.
Altri respirano con maggiore frequenza e più superficialmente.
Altri respirano con una respirazione articolata in tre tempi: inspirazione-pausa-espirazione che è applicata, per altro, in alune tecniche di rilassamento.
Dire a qualcuno
"Ma come respiri? Guarda è così che devi respirare!!!", significa attentare ad una funzione vitale dell'altro, che, il più delle volte, nemmeno accoglierà la sottesa critica al suo respirare, talmente questa funzione procede in automatico ed in maniera irriflessiva.
L'effetto potrebbe essere traumatico.
Come potrebbe fare a correggersi il malcapitato se non ha consapevolezza del suo respiro e delle sue supposte idiosincrasie?
Certo, non respirare più non è possibile...
Forse, il tizio in questione potrebbe andare più costruttivamente a scuola di solfeggio, oppure da un logopedista, oppure accostarsi ad una scuola di tecniche yoga.
Ma non vi nascondo, ragazzi, che di primo acchito, uno viene preso dal panico...
"Come respiri?"
Oppure:
"Mannaggia, il tuo modo di respirare, mi fa venire l'ansia"
Oppure:
"Sembri un mostro e un maniaco per come respiri..."
E, pensate, all'angoscia del malcapitato di turno...
"Dio mio, cosa c'è che non va in me!!!"

venerdì 26 dicembre 2008

The way we were: il Natale come momento d'elezione per uno sguardo nostalgico al passato


Natale e Santo Stefano possono anche essere i momenti in cui si aprono i cassetti dei ricordi e si guardano antiche foto di famiglia. Quelle magari di quaranta o cinquant'anni fa, quando c'erano ancora nonni e vecchie prozie, rigorosamente in gramaglie.
S'attiva una contemplazione dal forte sapore di nostalgia che ti invade il cuore d'un filo sottile di melanconia.
Alcuni sorridono da quelle foto: guardando il loro volto, si comprende che ancora, mentre fissavano il fotografo, non c'era nube che ne oscurasse lo sguardo, perchè non potevano vedere nel proprio futuro.
Noi, soggetti di quelle foto, vivevamo pienamente il momento presente che - malgrado le inevitabili ombre - era bello e soddisfacente.
Negli anni della mia infanzia, si viveva bene con poco, anche se gli stipendi dei nostri genitori non erano granché. Avevamo la nostra macchinetta e spesso facevamo le gite domenicali a Piano Zucchi e sulle Madonie, ma anche altrove.
Sino ai 12-13 anni,d'estate,facevo un viaggio di 15 giorni con mia madre, mentre mio padre e mio fratello rimanevano a casa. Poi, partiva mio padre per i suoi giri spesso connessi con le sue attvità giornalistiche, mentre noi stavamo a casa, andando ogni giorno al mare, perchè avevamo la "classica" capanna a Mondello.
Più tardi, arrivava il tempo degli esami di riparazione; mia madre tornava alla sua scuola ed io spesso la accompagnavo, portando con me giochi e letture (allora: solo e rigorosamente Salgàri e Verne). A Natale e a Pasqua formavamo grandi gruppi familiari e ci davamo a festosi banchetti che si prolungavano con interminabili riunioni in cui si alternavano giochi e conversazioni.
Nel 1961, da un suo viaggio di lavoro in Germania ovest mio padre portò una macchina fotografica (una Zeiss reflex, 24 X 36mm, la prima "seria" che ebbi tra le mani: da allora, facevamo foto in tutte le circostanze, foto di documentazione, senza alcuna pretesa, che qualche volta venivano involontariamente buffe.
Ecco là mio padre che mangia dell'uva, serissimo come sempre con il volto austero ma con le guance deformate dal chicco che sta appena iniziando a masticare. E in quell'altra: io, in abiti da neve, come si usavano a quel tempo, e sembro il reduce da una catastrofe (di lì a poco accadeva il terribile terremoto del Belice). Ecco mio fratelo che con la testa fa capolino dal finestrino del passeggero della vecchia Millecento FIAT: sorride e ha il volto disteso, non ancora appesantito dagli anni.
Io che scio, io che con il mio amico Augusto mi accingo ad una discesa in slittino.
Ci sono anche i miei cugini, compreso il piccolo Gabriele che ora non c'è più.
Io sorrido spesso, e lo faccio soprattutto negli anni dell'adolescenza, mentre prima nell'infanzia avevo sempre con un'espressione cupa e buia.


Non sono solo io a sorridere, sorridiamo tutti.
A volte, ridiamo.
I volti sono distesi.
A volte, siamo davvero buffi.
Ancora non se ne era andato nessuno, anche i nonni c'erano tutti (quasi).
Non dico che non ci fossero i problemi: c'erano eccome! Ciascuno aveva i suoi. Eppure quando eravamo assieme ci ritrovavamo allegri e sorridenti.
Niente faccie da lupucuvio.
Poi, le cose sono cambiate.
Sono venute le morti, alcune improvise. Altre, invece, come parte ineludibile del copione della vita.
Le disgrazie hanno creato grandi avvicinamenti, ma poi repentini - e, a volte,
inspiegabili cambiamenti.
Dal nulla sono nati grandi rancori fluttuanti.
Le comitive familiari si sono disgregate.
Alcuni, nel volto, si sono intristiti, appesantiti, incupiti.
Forse perchè il peso del Male che accadeva era troppo da sopportare.
Forse perchè, per alcuni, man mano che si andava avanti, la forza della speranza s'attenuava.
Certo è che in quel periodo era come se tutte le cose belle dovessero ancora accadere ed erano,lì, proprio dentro l'angolo.
C'erano freschezza e slancio.
Tutto appariva roseo e ciascuno di noi aspettava il suo Godot.
Poi, ancora, sono arrivate le disillusioni, i disinvestimenti,la perdita della capacità di giocare e del gioire afinalistico nascente dall'oscura intuizione che, comunque sia, "La vita è bella", la riduzione significativa dello spazio del sogno, l'invasione della mente di seriosità "professionale", irrigidimenti, corazze varie.
Fa bene dunque vedere quello foto fresche e spontanee quando la vita era per tutti un coacervo di potenzialità e, per alcuni, i più giovani di noi, ancora tutta da da vivere...
Come eravamo...!
Mi stupisco nel vedere i nostri volti acerbi di allora.
A volte, poi, succede che il processo della vita non è solo un "levare" e un "perdere" che lasciano soltanto una statua sofferente e scavata, ma accade che improvvisamente si ricominci a "mettere" e a "riempire", come accade nella pittura: allora, la tavolozza della vita si riempie di colori e cromatismi, facendosi piena e rutilante.
Quando questo miracolo accade (solo poche volte, in verità), si torna a sorridere, proprio come in quelle foto, quando ciascuno aveva la certezza - non ancora intaccata - che la vita gli avrebbe dispensato grandi doni.

domenica 21 dicembre 2008

Il Natale come transito ciclico tra stati diversi della vita


Natale: come ogni anno si avvicina a grandi passi.
Quando ormai la ricorrenza incombe, ti accorgi che non hai fatto nulla per predispoore quei minimi festeggiamenti familiari. Ancora devi acquistare gli ultimi doni e sbrigare faccende che sono rimaste in sospeso.
Nell'attesa del Natale, ci sono due fondamentali diverse attitudini.
Ci sono i previdenti che cominciano a "lavorare" al Natale, annessi e connessi, con molto anticipo e solerzia. Nulla sfugge loro nel corso dei preparativi e tutto è già pronto con molti giorni di anticipo.
Ci sono, invece, gli oziosi che senpre attendono l'ultimo minuto per darsi una smossa.
Non esito ad ammettere di appartenere a questa seconda categoria di individui, così come preparo la valigia la mattina stessa d'una mia partenza con il risultato che, giunto trafelato in aeroporto mi accorgo di avere dimenticato inelluttabilmente qualcosa, più frequentemente le mutande ed altri indispensabili accessori piuttosto che macchina fotografica, libri, PC portatile.
L'essere lenti, poco previdenti o il non essere portati a giocare d'anticipo all'avvicinarsi di importanti scadenze sono tutti tratti distintivi di un attitudine nei confronti della vita, in definitiva.
In realtà, ciò che ci distoglie dal prepararci in anticipo, dal "prevenire" in definitiva, è la paura della ricorrenza in sé (che, nel caso del Natale, possiede alcune delle caratteristiche della partenza o del transito da una condizione umana ad un altra).
Ricorrenze e partenze sono come delle "soglie" che si attraversano, soglie che preludono a trasformazioni esteriori ed interiori.
Non prepararsi in anticipo è un modo per non guardare la soglia che ci aspetta e per non lasciarsi coinvolgere nel cambiamento (per quanto piccolo) che ci troveremo ad affrontare.
Anche il Natale, che pure propone una tradizione ricorrente in maniera costante (con eguale divisione tra presepe, albero di natale, scambio rituale di doni e potlach vari) prelude al transito dall'anno vecchio a quello nuovo e, quindi, al rinnovarsi della vita, dopo la lunga notte dell'inverno.
Bisogna anche pensare, infatti, che ben prima del Natale cristiano questa festività corrispondeva al Solstizio d'Inverno, cioè al giorno con il maggiore numero di ore di buio dell'anno e che l'uomo antico (preistorico) soleva evocare in tale circostanza, in modi apotropaici, il ritorno della luce e, dunque, anche della vita, dopo il freddo e l'assenza di vita dell'inverno.
Quindi il Natale rappresenta la fine di un ciclo e l'approssimarsi dell'inizio del nuovo ciclo.
Un'inizio che può fare paura o ingenerare stanchezza o stimolare inquietanti interrogativi
E se la ruota del mondo dovesse fermarsi?
E se le tenebre del lungo inverno che sta per giungere al termine non fossero più scalzate dal tepore della primavera e dell'estate?
Pur nella ricorrenza di un ciclo c'è un fattore ignoto, l'imprevisto dietro l'angolo, che può rendere pauroso il transito da una condizione all'altra.
E, allora, meglio non prepararsi, e piuttosto fronteggiare il cambiamento, senza averlo prima "contemplato"!

Sogni



I sogni ci visitano ogni notte.
Qualcuno di essi lo ricordiamo e altri - il più delle volte - no.
Il sogno apre nela nostra mente uno scorcio di surreale e ci fa gettare uno sguardo di inquietudine sulle cose, talvolta ci fornisce visioni di grande bellezza.
Dopo più di un secolo di psicoanalisi, parrebbe quasi scontato e banale parlare di sogni.
Eppure, tralasciando tutte le notazioni tecniche ed ermeneneutiche sul sogno, rimane indubbio che, nella vita onirica, ci troviamo a percorrere privatissimi universi fantastici da cui alcuni scrittori traggono poi elementi per il loro scrivere (ricordiamo il caso di "Kubla Khan" di Coleridge).
I sogni ci rendono contenti, a volte.
Altre, invece, ci spaventano e c'incupiscono.
Alcuni di essi vorremmo che si prolungassero ancora a lungo, tanto ci piacciono e ci meravigliano e rimaniamo delusi, quando di colpo ci svegliamo, assaporando ancora i suoni, i colori, gli odori di quello specifico scenario nel quale ci aggiravamo sorpresi o stralunati o inquieti.
Per questo motivo, gli antichi Greci ritenevano che i sogni potessero avere una funzione profondamente terapeutica, portando l'individuo sofferente sulla via della guarigione. Ritenevano, infatti, che i "buoni" sogni potessero essere stimolati da una dieta salubre, dall'aver consumato cibi buoni, ma frugali, dall'essersi esposti al sopraggiungere del sonno in luoghi e scenari che stimolassero il senso del bello.
Sono benvenuti, dunque i sogni, quando ci aiutano a star meglio e ciò senza alcuna connessione con la teoria psicoanalitica sul sogno per la cui efficacia "teraeputica" e euristica ("Il sogno è la via regia per l'inconscio", disse Freud) occorre una ermeneutica del contenuto onirico le cui coordinate siano condivise in uno spazio comune nel quale interagiscono il sognatore ed il suo interprete.
Oggi, purtroppo, la nostra vita è talmente velocizzata e la quotidianità così infarcita di stimoli che assaltano sinergicamente i nostri sensi che spesso, nel sognare, compaiono affastellati i diversi e molteplici residui diurni.
Spesso, i più giovani, la cui mente è intossicata dagli scenari dei diversi videogiochi con i quali trascorrono ore e ore - scenari altrettanto onirici, ma iper-realisti, grazie ai software ad altissima definizione oggi disponibili - si ritrovano a riprodurre in sogno scene quasi del tutto identiche a quelle del videogioco con cui si sono cimentati poco prima. E' come se loro mente, durante la notte, secernesse - attraverso l'attività onirica - una serie di stimoli violenti, cruenti, sanguinosi, crudeli di cui spesso i più comuni giochi sono infarciti.
Anche in questo caso, il sognare potrebbe essere utile a disintossicare la mente da un sovraccarico sensoriale altrimenti non metabolizzabile. C'è da rammaricarsi, però, che il sogno anzichè mantenere la sua funzione primaria di produrre universi fantastici nei quali ci si cimenta in azioni nuove e mai tentate prima o in cui ci ritroviamo ad avere esauditi - in forma simbolica - i nostri desideri più risposti, diventi una sorta di "emuntorio" psichico con la funzione di disintossicare la mente da un eccesso di stimoli.

sabato 20 dicembre 2008

Tenersi per mano



In un giorno di pioggia, due anziani avanzano con passo lento e pacato.
Il marciapiedi è spazzato da folate di vento.
Foglie ingiallite si levano in piccoli mulinelli.
I due camminano, indifferenti alle condizioni inclementi del tempo, riparati come sono dalla bolla protettiva del paracqua.
Indubbiamente, tornano dall'aver fatto la spesa: ciascuno dei due, infatti, regge in mano sporte di plastica, non gigantesche. La loro è stata una spesa frugale.
Eppure, pur avendo entrambi le mani impegnate, con destrezza e levità si tengono per mano.
Con questo gesto semplice (eppure intenso) di intimità, discreto e per nulla esibito, sembra che non abbiano bisogno di niente altro, del tutto autosufficienti rispetto al mondo.
Fanno tenerezza.
Per questo semplice tenersi per mano, i due dimostrano che l'affetto reciproco l'uno per l'altro è ancora un virgulto tenero e verde, malgrado le vicissitudini della vita e gli anni trascorsi (ed lecito immaginare dall'età che dimostrano che abbiano trascorso molto, molto tempo insieme).
E' meraviglioso osservare tutto ciò...
Sono rimasto a lungo ad osservarli, seguendoli sinchè è stato possibile con lo sguardo.
Poi,mi sono girato e mi sono incamminato, con un pizzico di nostalgia.

giovedì 18 dicembre 2008

Litigiosità

All'interno di una coppia, capita di tanto in tanto di litigare per motivi futili. E' una cosa bizzarra e strana quando - in ciò che accade - si ha modo di osservare come il primus movens non abbia consistenza alcuna.
In questi casi le possibilità sono due.
Una è quella del litigio simmetrico in cui la parte "offesa" ci si mette d'impegno con il risentimento e la permalosità, rispondendo a ciò che ritiene una critica o un'attacco al proprio "narcisimo" con puntualità e acredine.
In questo caso, il rischio è che, partendo dal semplice scambio di pizzicotti leggeri e lievemente meno affettuosi del solito, si possa arrivare allo scambio di bombe atomiche sempre più potenti e devastanti.
L'altra è quella del sorriso e dell'ironia o della piena risata. In altri termini, il sapere stemperare le cose con questi mezzi, ridimensionandole a quello che sono: nulla.
Uno sfogo momentaneo, l'espressione di un'idiosincrasia temperamentale, l'emergere di un tratto del carattere: tutte cose che, passando veloci come nubi trasportate dal vento, non lasciano alcun segno visibile e duraturo nella sostanza degli affetti.
La strada da seguire è sempre la seconda. A condizione, naturalmente, che a legare le persone coinvolte nell'occasionale litigiosità ci sia un affetto duraturo e profondo.
Mancando questo, è facile che ogni occasione di dissenso/diverbio possa diventare una molla capace d'innescare derive di pericolosa e dolorosa distruttività.
Questa è una riflessione che è possibile trasferire dal privato delle relazioni di coppia a situazioni sociali ben più allargate.



Il messaggio trasmesso dai media peraltro è che, nel breve e nel lungo termine, la proterva litigiosità l'ha vinta su modelli più etici ed misercordiosi di relazione con il nostro prossimo.
Bisogna saper cambiare se stessi per cambiare la società, imparando ad essere giustamente sensibili e consapevoli dei propri punti di criticità, delle proprie debolezze e saperli vedere con il potere trasformativo dell'ironia e d'una sana risata.
Nello stesso tempo,non si può non ricordare qui che la litigiosità, intesa come "conflittualità", può essere funzionale alla crescita delle relazioni interpersonali, in quanto utile - se supportata dall'ironia - a promuovere un miglioramento e la crescita personale. In tal senso, il litigio lieve non va represso, ma deve poter avere la possibilità di dispiegarsi liberamente.
Un neurologo che ebbi moddo di incontrare negli anni della mia formazione professionale, era solito proporre alle coppie in crisi di frequentare dei corsi di arti marziali attraverso i quali potessero - in forma rituale - affrontarsi direttamente, canalizzando in forme più costruttive (ma liberatorie e catartiche) un naturale surplus di aggressività.

Uno strano avvistamento

Oggi, uno strano animale faceva delle evoluzioni nelle acque di Mondello, la nota località balneare di Palermo, proprio al di là del moletto del borgo marinaro.
Nella baia il mare era relativamente tranquillo, appena increspato, ma al largo la linea dll'orizzonte appariva tutta irregolare e rotta da onde, la cui furia non arrivava sino a noi.
Era davvero singolare e mai visto prima, almeno da me. All'inizio c'era quasi da chiedersi se nn fosse una pccola foca...
Si tuffava e, ogni volta dopo circa trenta secondi, riemergeva a una quindicina di metri più distante dal punto in cui s'era immerso. Quando ricompariva, si vedeva soltanto la testina, che poi quando si è avvicinato un po' di più è apparsa dotata d'un grande becco giallo.
Il corpo era a borraccia e lucente. Quando si tuffava il suo slancio era deciso ed balzava del tutto fuori dall'acqua, mostrando di possedere un'inusitata agilità.


All'estremità del corpo, nel tempo di volo, si scorgevano due zampe palmate.
Compulsivamente, s'immergeva e, con tutta evidenza, nella sua permanenza subacquea, "cacciava".
Non ha interrotto questa sequenza un solo istante, nè ha introdotto in essa alcuna variante significativa.
Più o meno, si è mantenuto sempre nello stesso punto, senza mai avvicinarsi alla scogliera, sì da farsi vedere meglio.
Io non sono uno zoologo e, quindi, non sono in condizione di pronunciarmi con certezza di quale animale si trattasse.
Certo è che la sua presenza era un'evenienza davvero insolita. Mai visto prima...
Ma anche, indubbiamente, il fatto che l'esserino fosse assolutamente isolato.
A ben pensarci, potrebbe essere il soggetto per una bella storia di animali.
Forse quella di un piccolo che, allontanato dal suo stormo dalla violenza dei venti e dalle tempeste, adesso, cerca di tirare avanti in solitudine, pieno di nostalgia ed in attesa fiduciosa di potersi ricongiungere con i suoi.
Ma questa è un'interpretazione antropomorfa e letteraria.
Piuttosto: da una ricerca fatta in internet e, osservando alcune immagini reperite nel web (per l'uno e l'altra cosa, tutto merito di Romina), sembrerebbe trattarsi d'un Marangone dal Ciuffo, diffuso in colonie nell'areale del Mediterraneo, presente in Sardegna e ora avvistato anche in Sicilia e a Lampedusa.

lunedì 1 dicembre 2008

Alla ricerca della felicità

Il fragore della risacca

La brezza lieve

Strida di gabbiani

Frullo d'ali

Movimentazione

Dinamismi

Stasi

Silenzi,
silenzi

Ancora pause

Improvvise accelerazioni percettive

Un momento
(quasi) perfetto

Corsi e ricorsi

Estasi e delirio

Felicità e disperazione

La perfezione non esiste

Ogni singolo momento perfetto
è un attimo di magico equilibrio
frammezzo ad un altalenare di disequilibri

Che noia sarebbe, se no
una totale perfezione,
un continuo e costante equilibrio!

Sarebbe l'immobilità della morte,
la fine dell'omeostasi

Nel disequilibrio
invece
c'è la vita

Quando si rinnova,
ogni volta diverso,
quel momento magico
di equilibrio e perfezione,
si può cogliere la differenza

Palermo, il 1.12.2008

lunedì 24 novembre 2008

Dopo il maestrale e l'onda, quel che resta sulla sabbia


Il vento di maestrale
ha imperversato
furioso
tutta notte,
con raffiche e mulinelli
ululando,
fischiando
squassando

Eolo, Nettuno e Odino
se la sono spassata,
sornioni

Grandi onde,
al mattino,
ancora s'infrangono
con furia
sulla spiaggia,
rombando

Il mare è tutto uno spumeggiare bianco
e dalle creste impetuose
si levano cortine di pulviscolo sottile
e mille arcobaleni

Il giorno dopo,
la quiete

Una morbida risacca
s'infrange
sulla battigia

E' tanto strana
questa sospensione
dopo l'ansimare concitato
dei cavalloni!

Dovunque,
si vedono le tracce
della loro irruenza...

Alghe,
rami spezzati
grandi pezzi d'un graticcio di legno,
divelto chissà da dove

Perfino un cassonetto
giace acquattato
tra altre scorie

E poi...
grandi cumuli di posidonie
strappate dal fondale,
pezzi di legno,
secchielli,
palette,
formine dalla foggia bizzarra
(e tutto in plastica
dai vivi colori)


E ancora,
(meraviglia delle meraviglie!)
conchiglie di ogni forma,
ossi di seppia,
gusci di ricci di mare
(quellli senza le spine)

Un letto
fitto fitto
di piccoli trofei marini
che aspettano soltanto di essere raccolti...
da chi soltanto sappia accorgersi di loro

E Momi è lì,
come ogni mattino

Cammina
a testa china,
attenta,
e, ogni tanto, si rannicchia
per esaminare
qualcosa che ha colto
la sua attenzione,
traendo vitalità
da ciò che vede

Talvolta,
si lascia sfuggire
un grido di stupore,
quasi estasiata,
davanti ad un forma più bella
ad un colore insolito,
mai visto prima

Intanto,
il suo cagnolo
dai grandi occhi languidi,
cerchiati di kajal,
corre a perdifiato
avanti ed indietro
(è il puro piacere della corsa)
inebriato di odori e sensazioni
(sente di essere
sui terreni di caccia ancestrali,
come quando sogna...)

Momi e il suo cagnolo:
due esseri puri
che gioiscono di cose semplici
con il dono sublime
di poter sperimentare la meraviglia...

domenica 23 novembre 2008

Rosolino il pescatore e del piacere di leggere libri

Viviamo in tempi in cui il piacere intimo della lettura senza finalità, guidata dal puro piacere della conoscenza e dell'intrattenimento, tende a smarrirsi sempre più con l'incalzare dei mezzi di comunicazione della modernità, che presentano - in forme standard - riletture "letterali" della realtà senza che venga più dato alcuno spazio alla fantasia, e che, in qualche misura, possano derivare da un'elaborazione individuale. A causa di ciò, c'è dunque un eccesso di falsi "sogni" pre-confezionati e pre-digeriti, infarciti di elementi iperbolici che, conditi di roboanti colonne sonore e rutilanti stimoli visuali, "dopano" la fantasia dell'individuo e delle masse.
E' sorprendente che in un contesto in cui i giovani (e, con loro, gli adulti) rifuggono dal gusto "lento" della lettura, si possa trovare qualcuno che, invece, proprio di tale attività - solitaria, non rumorosa, intimista - faccia uno dei piaceri più sublimi della sua vita.
Proprio pochi giorni fa ci è capitato di incontrare una persona rustica, un naîf cultore del libro.
Rosolino il pescatore è un personaggio del borgo marinaro di Mondello che tutti ben conoscono.
Dalle prime ore del giorno è sempre là con il suo banchetto a vendere il pesce fresco: poche scelte essenziali che variano di giorno in giorno, ma si tratta sempre di pesci vivi e guizzanti, appena pescati.
Mentre ci decantava i pregi di vope, calamari, triglie e caponi, ho notato un grosso tomo che occhieggiava subito dietro le cassette del pesce.
Incuriosito, gli ho domandato cosa fosse.
Rosolino s'è illuminato in volto, ha subito preso con incredibile delicatezza il volume rilegato - con la sovraccoperta un po' stazzonata e vissuta da macchie e ditate - con quelle sue mani antiche, piene di nodi, umide di pescato e chiazzate di squame argentee, e ce ne ha mostrato la copertina.
Sorpresa! Si trattava del libro di Oriana Fallaci ("Un cappello pieno di ciliegie") che, uscito postumo pochi mesi addietro, racconta in forma un po' romanzata la storia della sua famiglia attraverso numerose generazioni.
Rosolino ci ha parlato con entusiasmo di questo libro, dicendo che lo legge in ogni momento libero tra un cliente e l'altro.
Si immerge nella lettura e, così facendo, sogna e viaggia.
E la stessa cosa gli succede quando se ne torna a casa la sera e siede nella sua poltrona con il libro del momento, poggiato sulle ginocchia. "E così mi passo il tempo", ci dice.
Ci racconta che il suo primo approccio alla lettura avvenne con un grosso volume, "Dinasty", di cui ci racconta per sommi capi la storia, anche questa volta con coinvolgimento. "Era un volume davvero grosso", ci dice, "Eppure, piano piano, pagina dopo pagina me lo sono letto tutto!", concude compiaciuto.
Ci dice anche di aver letto anche un altro romanzo, "Giulia" di cui nè io nè Romina sappiamo parlare. E, per entrambi i volumi citati, le nostre ricerche in internet non hanno sortito alcun risultato. Magari, Rosolino ce ne ha riferito i titoli in maniera imperfetta.
Tutti e due, amanti della lettura come siamo, siamo deliziati da questa conversazione con un personaggio che sinora abbiamo conosciuto come uno dei "venditori" di pesce della piazzetta di Mondello e che ora, inaspettatamente, abbiamo scoperto casualmente nella veste di appassionato lettore.
Rosolino è davvero genuino e vero, immediato di modi e non complicato: tanto fa pensare al protagonista di uno dei romanzi scarni di Sepulveda, "Il vecchio che leggeva romanzi d'amore".
Questa la trama essenziale del piccolo romanzo

Il vecchio Antonio José Bolivar vive ai margini della foresta amazzonica equadoriana. Vi è approdato dopo molte disavventure che non gli hanno lasciato molto: i suoi tanti anni, la fotografia sbiadita di una donna che fu sua moglie, i ricordi di un'esperienza, finita male, di colono bianco e alcuni romanzi d'amore che legge e rilegge nella solitudine della sua capanna sulla riva del grande fiume.

E' stato bello scoprire quest'aspetto inedito di Rosolino che, proprio per il suo amorevole e certosino approccio alla lettura dovrebbe essere citato ad esempio vivente di quanto piacere si possa trarre dalle storie raccontate (e dal raccontar storie) per coloro che, dei libri, non vogliono sentire neppure l'odore, preferendo ad essi la stimolazione fugace ed effimera della televisione, del computer, dei videogiochi e di internet.
La lezione è che, con la lentezza della lettura, si possono costruire nella nostra mente - assieme all'autore - interi mondi e farli vivere, mediandone l'esistenza con il filtro dei nostri "occhialacci di legno".
Ogni libro, ogni storia vive nella mente di chi le lgge, sortendo dei risultati inaspettati ed imprevisti.
L'autore, con ogni suo romanzo, lancia nel mondo una freccia che viaggia da un lettore all'altro provocando in essi degli effetti ed amplificandone di volta in volta l'esistenza che finisce con il diventare autonoma e svincolata dall'intenzionalità originaria del suo creatore.
Proprio per questo, Rosolino meriterebbe di essere visitato dalle scolaresche delle Elementari e delle Medie perchè da lui ascoltino la storia di come egli abbia cominciato a leggere e preso a considerare i libri suoi amici fidati.

venerdì 21 novembre 2008

Cingerti vorrei con le mie braccia

Oro fuso sulla superficie del mare,
nel primo mattino,
scintillii che fanno tremar le palpebre

Orme di uccelli sulla sabbia,
intersecate in molteplici traiettorie

Meduse rattrapppite in gelatina informe,
ammasi di alghe
trascinati dall'onda,
letti di minute conchiglie

Un cagnolo irruento
scorrazza
avanti ed indietro
con una carica di vitalità
che risiede tutta nella magia del suo tartufo,
nero ed umido,
ricettacolo (e sensore)
di infinite tracce olfattive,
e nei suoi occhi languidi
contornati di cajal

Balza, fa le finte,
annusa e poi riparte
in un gioco che non ha fine,

gioioso

Felice di essere,
pur nell'incosapevolezza dell'essere

Sulla battiggia,
una donna se ne sta se seduta,
la testa tra le gambe,
assorta
e lunghi capelli biondi
le nascondono il viso

E' lì,
accanto a lei,
che vorrei essere

Cingerle le spalle con il braccio
carezzarle i capelli
baciarla sulle labbra tumide e volitive,
parlarle.

Questo vorrei nel nuovo giorno,
triste e malinconico
in cui, ad oscurare il sole,
verranno lacrime di pioggia
e freddo vento di tramontana

giovedì 13 novembre 2008

notte di luna, con tristezza



Il pigro sciabordio della risacca

sulla battigia levigata


e accesa di mille luccichii
ingenera serenità e pace,

parlando
con le sue infinite
variazioni fonetiche

di ciò che ritorna in eterno,

in echi di circolarità,

e di ciò che resta


A destra e a sinistra
della lunga
striscia di sabbia,
spoglia,
s'indovinano altre presenze
umane.

Figurette scure,

in piedi o sdraiate


Alcuni sono pescatori a canna, forse.

e, poi, coppie distese, ammantate di buio

Nel silenzio,

rotto solo dal lieve rumore del mare

e dal discontinuo soffio della brezza,

s'odono
bisbiglii complici

e sommesse risate

e qualche esclamazione di giubilo

dei pescatori


Luci
lontane,
riflesse sull'acqua
in lunghe strisce
ondulate,
portano il pensiero a presenze umane
che, nella
quiete della notte,
giacciono immemori

sprofondate

nell'avvolgente abbraccio di Morfeo

Gente
che sogna e che,
forse,desidera

mentre qualcuno, invece,

troppo ricorda

e soffre

e piange accorato


Intanto,

il disco pallido
della luna
gioca a rimpiattino
con nuvole candide,
creando
incantesimi

di luci e ombre
con il suo tenue lucore

Granelli di
sabbia,
umida e fresca,
scivolano, uno a uno,
tra le mie
dita,
segnando il tempo,
secondo dopo secondo,

rincorrendosi leggeri


Ma ogni secondo dura un'eternità


In questo
tempo sospeso,
proprio nel luogo che Momi abita ed ama e

che, ogni giorno, impregna con la sua fulgida presenza
lei è
con me,
pur assente,
e parla al mio cuore,
riscaldandolo


Palermo, il 13.11.2008




mercoledì 5 novembre 2008

L'auto-sommergibile


Sono in un auto, ma non alla guida. Il guidatore mi è sconosciuto. In ogni caso, io sto seduto da passeggero accanto a lui. Procediamo lenti e sicuri, a velocità costante. La strada è stretta, fiancheggiata da alte pareti perpendicolari, lisce.
Si potrebbe quasi pensare che stiamo percorrendo un canyon.  La strada è davvero stretta: le fiancate dell'auto (niente più che una piccola utilitaria)  quasi strisciano sulla roccia levigata. Non solo è angusta, è anche in lieve pendio. Man mano che procediamo le pareti si fanno sempre più alte e da vertigine, mentre il riquadro di cielo in alto si trasforma in una stretta fessura.
Mi accorgo che il fondo della strada si va ricoprendo d'acqua: e, siccome la discesa non si arresta, il suo livello si innalza sempre di più. Arriva prima ai mozzi delle ruote, poi a fari, poi inghiotte anche il cofano. Adesso, il movimento dell'auto è accompagnato da un lieve sciabordio. Poi, l'acqua sale all'altezza dei finestrini: è limpida e trasparente. Mi sembra di essere in un videogioco della Nintendo, calato in una delle avventure mirabolanti di Super-Mario... Per tutto il tempo, né io né il guidatore proferiamo verbo.
Quando l'acqua, tende a superare il vano dei finestrini e a salire oltre il tetto, comincio ad essere ansioso: del panico imminente ci sono già tutti i segni, come la tachicardia, la difficoltà a respirare e la sudorazione.



Ho l'impressione che lo spazio dell'abitacolo si faccia stretto e che sempre più grande si faccia la difficoltà a respirare. Malgrado ciò, con il guidatore che, imperturbabile, è fermo nella sua mission di far procedere il veicolo, continuiamo a non scambiarci alcuna parola. Mi agito. Cerco di aprire il finestrino: niente. Cerco di spalancare lo sportello: niente da fare! Le maniglie sono bloccate: e, in ogni caso, non ci sarebbe abbastanza spazio per aprirlo. Provo a rompere il parabrezza, ma posso far conto soltanto sulle mie mani nude: quindi, anche in questo caso, niente!
E ancora, non una parola viene pronunciata, per dar corpo e sonorità al panico crescente. L'ansia si fa intollerabile. Di colpo mi sveglio: puff puff pant pant!!!!
Rifletto con sollievo che si trattava solo di un sogno, alla Little Nemo (il famoso Little Nemo in Slumberland di Winsor McCay): che sollievo!!!
Ma accipicchia!
(3.11.2008)


lunedì 3 novembre 2008

Le capre, i gabbiani ed un corvo nero


In un giorno ottobrino, nel tratto di mare compreso tra Mondello e Barcarello, la temperatura è insolitamente mite, il mare è di una calma piatta, olio.
Le canoe, costeggiando, fendono la superficie liscia ed immota con un delicato sciabordio. La parete del monte si erge a picco sul mare, selvaggia ed aspra. Bisogna proprio storcere il collo per guardarne il ciglio che se ne sta almeno un centinaio di metri più su, il bordo di roccia friabile, appena indorato dal sole, mentre tutto il resto è ancora immerso nel cono d'ombra, benchè si sia già a metà mattina.
La parete è scoscesa: in basso, nuda scogliera di massi bianchi accatastati l'uno sull'altro quasi fossero stati lanciati senza un metodo da un ciclope iracondo. Più in alto, un ripido pendio disseminato di rocce affioranti da un terreno ghiaioso e friabile, tenuto assieme dalla crescita disordinata di disi ed altre essenze vegetali.
Il pendio è incastonato di capre che si muovono lente, cercando l'erba più succosa. Ci si chiede, guardando dal basso e sperimentando un lieve senso di vertigine, come abbiano fatto a finire lassù. Eppure, si muovono con agilità e per nulla intimorite, saltando come stambecchi da una pietra all'altra. Il loro forte odore si sente sino alla linea dell'acqua: forse è proprio il lezzo intenso che spinge a guardare verso l'alto.
Più in basso, nell'intrico di massi della scogliera chiazzati di guano, c'è un bianchieggiare di gabbiani che se ne stanno immobili, una colonia di nidificazione, forse.
E c'è anche un corvo nero che si svolazza qua e là, tenendoli d'occhio. Il corvaccio, senza parere, con brevi voli (che intrecciano ghirigori ed arabeschi), fa delle escursioni di esplorazione, cercando di avvicinarsi il più possibile per ghermire dai nidi qualche piccolo o le uova ancora in attesa della schiusa.
Ma i gabbiani sono vigili.
Non si lasciano ingannare dai raggiri dal perfido corvo.
Ogni volta che il corvo vilmente si avvicina loro, stormi di gabbiani-sentinella si levano battendo le ali con vigore e stridendo per poi prendere la via del mare, volando radenti sulla sua superficie plumbea e tornando, infine, alle loro postazioni.
Non a caso il termine "mobbing" con la sua acccezione moderna, è stato utilizzato proprio per descrivere questo comportamento cooperativo e schiamazzante dei gabbiani nella difesa dei propri terreni di cova, nei confronti di ogni malcapitato (uomo o animale che sia) che si sia avvicinato troppo a loro. Semplicemente per un fattore numerico, loro l'hanno sempre vinta sui predatori isolati.
E fu così che, anche questa volta, il malcapitato corvo se ne restò a bocca asciutta.



domenica 26 ottobre 2008

Panchine



Ieri sono andato per panchine.
Non volevo starmene chiuso a casa nel primo pomeriggio.
La mia prima sosta è stata Piazza Castelnuovo, dove - attorno al palchetto della musica - sono allocate ce ne sono alcune di pietra, fatte d'una specie di granigliato che - con i suoi cromatismi - mima il porfido.
E' incredibile come cambi la prospettiva sulla vita quando si abbandona il flusso del movimento e ci si siede su di una panchina: prendono il sopravvento il tempo dei propri pensieri e quello della memoria, dissociati dal flusso temporale in cui tutti gli altri si muovono.
Una silenziosa, condivisione è soltanto possibile con chi, in quello stesso momento, se ne sta seduto pure su d'una panchina.
Poco più in là, un signore anziano (ma nemmeno tanto: forse più dimesso che anziano) nutre i piccioni con delle briciole di pane. Attorno a lui si accalca una miriade becchettante che, a tratti e per motivi imperscrutabili, prende il volo a stormo con frulli d'ali, passando radente sulle teste di altri frequentatori di panchine che guardano con meraviglia oppure scansano le

Cicaleccio di conversazioni sommesse.
loro teste da traiettorie troppo basse.
Fidanzati intrecciati che si baciano.
Altri, in attesa nervosa, compulsano di continuo il telefonino oppure rispondono a chiamate o ne ricevono, dando istruzioni a chi, forse, deve raggiungerli per un appuntamento. Ma questi non sono degli utilizzatori DOC di panchine, poichè rimangono ancorati al flusso della vita veloce e non si rilassano nell'attesa senza tempo e senza strumentalità cui la panchina dovrebbe indurre.
Poco più in là, mi sposto verso un'altra piazza della memoria, a Piazza Lolli. Qui la piazza-giardino che prima si presentava come un'arida spianata di terra rossa da cui sorgevano palme
svettanti che a me piccino (poco più che un "soldo di cacio", come usava dire mio padre) parevano gigantesche ed incombenti, è stata sistemata da pochi anni con aiuole e vialetti dal bel selciato di grandi lastre di pietra grezze e con tante panchine comode, con la seduta di assi di legno e fornite di spalliera.
Sono tutte stranamente in ottime condizioni e non vandalizzate, salvo una o due.
L'atmosfera è quella di un'autentica oasi di pace.
Sarebbe tutto perfetto, se la grande fontana al centro del giardino fosse piena d'acqua e i suoi zampilli in funzione. Il chiocchiolare dell'acqua sui sassi che contornano gli ugelli accrescerebbe per certo la magia del luogo e indurrebbe ad arabiche fantasticherie...
Mi accomodo su di una panchina che guarda verso il cinema Dante, mentre alla mia sinistra rimane l'edificio dell'antica stazione, oggi soppiantata dalla stazione Notarbartolo.
Anche qui, fidanzati che si baciano.
Gente che sta, contemplando, guardandosi attorno o semplicemente immersa nei propri pensieri.
Qualcuno fuma una sigaretta con indolenti boccate o è intento nella lettura di un libro.
Qui, non solo la panchina è uno spazio magico e senza tempo, ma l'intera piazza lo è, tagliata fuori com'è dalla direttive del grande traffico convulso e caotico della città.

domenica 12 ottobre 2008

Ombre lunghe sulla via, in un giorno d'autunno



Giorno d'autunno

strade deserte

al tramonto, ombre s'allungano
sulla terra

un vento incessante
spazza via foglie cadute,
il fruscio della loro danza
unico suono percettibile,
e, infine, trascina
con sè
anche quelle ombre

Dove, non si sa

Dicono che nell'ombra
ci sia l'anima di un uomo

giovedì 2 ottobre 2008

Un mattino d'autunno, il tempo fermo



Il mattino è fresco,
nel borgo marinaro,
appena scosso da una leggera brezza

Il mare è illuminato di oro fuso
e un nuotatore, nera sagoma, ne fende lento
la superfice scintillante

Strida di gabbiani,
frulli d'ali
attorno agli scarti di pesce

Sulle panchine su cui qualcuno si siede,
il tempo è fermo...

Bisogna perder tempo,
per guadagnare tempo.

E la panchina è il luogo ideale
per stare
al margine d'un mondo che corre,
senza sosta,
da cui contemplare
i piccoli misteri della vita

E' un momento perfetto,
la magia di secondi e minuti
rubati alla frenesia della modernità
e fissati in un'eternità immota,
in cui pensieri ed emozioni possono dilatarsi
all'infinito

Non c'è altro al posto al mondo
dove vorrei essere,
accanto alla donna che amo,
adesso.

mercoledì 13 agosto 2008

Oggetti che raccontano una storia - III


Sarà un novello ET? oppure è un antecedente di Alien che plana minaccioso sui nostri cieli estivi?


Oppure è l'inerme vittima di un imprecisato culto che richiede sacrifici di interesse entomologico?


O, infine, il vettore di una pericolosa infezione che stravolgerà le sorti dell'umanità, facendo rapidamente piazza pulita del 95% della popolazione del mondo?
Quanto mi piace questa terza ipotesi! Ovviamente, a condizione che io faccia parte del 5% dei sopravvissuti...
Tutto questo e molto di più: molti altri sviluppi potrebbero essere formulati, compresi gli antecedenti, costruendo quindi anche un prequel, come si dice nel linguaggio cinematografico per indicare il nuovo film di una fortunata serie che ci racconta in maniera minuziosa la storia dei personaggi-chiave prima della loro entrata in scena e che ci dice perchè sono diventati quelli che sono.
Ogni oggetto, di cui ignoriamo la storia, ci porta a fare delle ipotesi intriganti ed ad attivare flussi associativi ed eidetici e, in alcuni casi, anche all'attivazione di floride fantasie ad occhi aperti.
Ciò è tanto più accentuato, quanto magggiore è la nostra consuetudine con i testi letterari (o cinematografici).
Chi legge molto e chi vede molti film viaggia su di un crinale scivoloso e tende ad attivare con una certa facilità delle derive fantastiche.
Ciò lo si può considerare un pregio (una marcia in più e una strumentazione preziosa per uscire dai limiti che ci sono imposti), anche se a tale tendenza non mancano contrappunti critici.
Come, ad esempio, questo.
"Quanto più frequentiamo i testi [sia letterari, sia cinematografici], tanto più questi ipotecano la nostra esperienza, procurandoci un sapere e delle conoscenze fittizi, destinati a condizionare il nostro futuro: avremo già appreso tutto prima di aver sperimentato qualsiasi cosa, e quanto più saputo, tanto meno potremo sperimentare in modo autonomo, consegnati per sempre all'inautentico." (Alberto Castoldi, Bibliofollia, Bruno Mondadori Editori, 2004).

giovedì 7 agosto 2008

Anch'io voglio essere "mangiathleta"!!! Il “Mangiathlon”, uno sport estremo davvero particolare...


Nel variegato mondo dello sport ne possono succedere di tutti i colori.
Prendono piede le discipline sportive più diversificate, da quelle che richiedono l'apprendimento di abilità tecniche particolarissime, a quelle in cui prevale la dura fatica o il confronto con difficoltà estreme (come, ad esempio, correre nel deserto in condizioni di autosufficienza, oppure scalare una montagna altissima, sapendo bene che la posta in gioco potrebbe essere molto elevata). Ma anche le più strane e, a volte, a dir poco, stravaganti.
Di tutto e di più.
Sembra che il motto che si cerca di seguire sia "Estremo e rischioso è bello". Sarebbe molto interessante approfondire un'indagine sociologica sui motivi più profondi che spingono molti ad intraprendere attività fatiganti o rischiose, in cui ci si muove davvero sul filo del rasoio.
A dire il vero, alcuni lo hanno già fatto come il sociologo francese Le Breton.
In ogni caso, uno degli elementi portanti dello sport è il confronto: o quello diretto con l'avversario, oppure quello "in differita" in cui l'impresa si tenta in solitaria ma dove, comunque, si cerca di superare un record, un primato, una migliore prestazione stabilita in precedenza da qualcun altro.
Per contro, se c'è il confronto con gli avversari, c'è sport e c'è agonismo (inteso nel senso di "lotta"): ed è così che attività apparentemente "statiche" possono anche loro essere rubricate come sport. Per esempio, in una vecchia "Enciclopedia dello Sport" pubblicata nei tardi anni Sessanta, tra gli sport trattati con singole voci monografiche (molto ben fatte, a dire il vero) figuravano anche il gioco degli scacchi o il bridge.
Per capire il perché di ciò, non bisogna dimenticare, peraltro, che una delle più forti radici dello sport è il gioco, mentre l'altra – altrettanto forte - è la guerra.
Tutto questo preambolo spiega i motivi per cui una società sportiva rinomata per le sue intense attività organizzative nel territorio di Rimini e provincia (il Golden Club), promuova da anni una singolare competizione denominata "Mangiathlon" in cui i partecipanti alla tenzone (grandi mangiatori di base) si confrontano sulla quantità di cibo che riescono ad ingurgitare in un tempo limite dato.
Nella nominata enciclopedia della sport, questo tipo di competizione non era contemplato: ma, in fondo, per definire cosa sia una competizione “sportiva” occorrono alcuni elementi base che sono
  • Il confronto con uno o più avversari
  • Un sistema di regole
  • Un dispositivo di gara
  • Un sistema di misurazione (che stabilisca cosa si debba misurare e come)
  • Un sistema di controlli
  • La presenza di Giudici di gara titolati (per il controllo del rispetto del regolamento, dell'aderenza ad un codice di lealtà tra avversari, per comminare eventuali sanzioni)
A condizione che tutte queste fattori siano rispettati, ecco che si può realizzare una competizione sportiva con tutti i crismi dell'agonismo.
Qualcuno di mia conoscenza ha anche dato vita ad una competizione internazionale di rutti (sì, davvero, avete sentito bene: a Reggiolo, nell’Emilia. Esiste persino un sito internet dedicato a questo evento annuale).
E non importa che la manifestazione sportiva cui si dà vita contravvenga ai più elementari criteri dell’estetica e della ricerca del bello, che da sempre si considerano qualità fondamentali del gesto sportivo.
Detto questo, in una competizione incentrate sull’abbuffata, cioè sulla quantità di cibo ingurgitato come si fa a stabilire chi sia il vincitore?
Non è sufficiente effettuare misurazioni sulla quantità di cibo ingurgitato, sulle portate che sono state servite oppure sulla velocità con cui sono state "spazzolate" (anche se il cronometraggio di ogni singola prova è di prammatica, perchè anche il tempo di consumo riveste una sua importanza), ma ci si riferisce al dato più inoppugnabile che è quello dell'incremento ponderale subito da ciascun concorrente dall'inizio della gara alla sua conclusione, quando si sente il suono rituale del fischietto del giudice di gara.
Ciò presuppone che gli avversari effettuino una pesata pre-gara, per stabilirne in modo inoppugnabile le condizioni ponderali base.
E' chiaro che qui non c'è alcuna gioia (o piacere) nel mangiare, né alcuna regola del galateo da seguire.
Gli avversari sono obbligati per regolamento a mettere in mostra un'ancestrale natura ferina ed animalesca.
Infatti, sono bandite le posate ed è appena consentito l'uso delle mani: in sostanza, bisogna mangiare, usando prevalentemente la bocca, quindi grufolando direttamente nel piatto e, dunque, mettendo in mostra una foga suina (con tutto il rispetto per i maiali)...
La capacità di sopportare di insozzarsi il volto e gli abiti di cibo fa parte delle qualità richieste ai partecipanti.
Questo tipo di competizione dimostra in modo esemplare che - come dicevo prima - nel campo dello sport, ce ne è davvero per tutti i gusti.
L'importante che chi pratica lo sport più bizzarro e i suoi fan siano contenti!!!
Ecco di seguito la notizia che riguarda lo svolgimento del recentissimo Mangiathlon riminese, svoltosi solo pochi giorni fa (il 31 luglio, per l'esattezza).
Un ultimo punto che qualifica un sport (le competizioni sportie in quella disciplina) è un cronista che lo racconti. In questo caso, è Gionni Schiaratura, presidente del riminese Golden Club, a farci un’appassionante cronaca dell’evento.
Dall'elencazione (e descrizione) delle diverse prove che i concorrenti si sono trovati ad affrontare si comprende bene che la sfida a colpi di salsicce, di uova sode, di tagliolini e quant’altro è stata degna dei classici banchetti dei Romani, ma anche – se vogliamo – quelli della tradizione rabelaisiana di Gargantua e Pantagruel. In ogni caso, vi si riconosce un sapore tipicamente romagnolo (e forse anche felliniano).
Le super-mangiate, trasformate in gara, fanno parte anche del repertorio filmico. Lasciando da parte “La grande abbuffata” in cui l’ingurgitazione di cibo da parte dei protagonisti assume un significato quasi metafisico come declinazione di un lucido “cupio dissolvi”, vi è una bella sequenza in un indimenticabile e malinconico film di Bob Reiner, Stand by me, tratto dall’omonimo romanzo breve di Stephen King.
Guardando alle descrizione delle diverse "prove", si può ben dire: "Non importa quello che mangi, ma quanto mangi!".
In internet, è visionabile un video sulla manifestazione riminese:

MANGIATHLON: PIÙ SI MANGIA, PIÙ SI VINCE - Video cultura LA7.it

(A Rimini un'incredibile abbuffata al limite della sopravvivenza...)

La grande notte
del Mangiathlon Tricolore:
un trionfo per Frenkybello

(Gionni Schiaratura, Golden Club Rimini)


Nella notte di venerdì 31 luglio s'è consumata un’altra “Mangia-impresa”, l’ennesima in questi dodici anni in cui il Golden Club Rimini raggruppa attorno ai tavoli del ristorante "La Casa Colonica" di via della Fiera a Rimini i più voraci mangiatori in circolazione.
Il campione assoluto del Mangiathlon Tricolore 2008 è il ravennate Franco Camerini detto "Frenkybello" che ha sbaragliato al fotofinish l’agguerrita concorrenza ingrassando la bellezza di 7,300 chilogrammi dall’inizio alla fine delle ardue prove di questa competizione che meriterebbe, senza tema di smentita, di finire nel programma olimpico degli imminenti Giochi di Pechino.
Fatta questa premessa ricordiamo che la gara ha visto sfidarsi 8 super mangiathleti e che, sul podio, sono finiti anche "Il Duca", alias Glauco Natali, e Davide Faenza, in arte e di fatto "Bagoin", cresciuti rispettivamente di 7,2 e 4,4 chilogrammi.
Fasi della gara:
  • Riscaldamento - Ogni concorrente, ciascuno con il suo numeroso seguito di tifosi, ha rapidamente trasformato il ristorante "Casa Colonica" in una arena di mangiatori. I mangiathleti, dopo la pesatura, si sono preparati alle tremende prove speciali che li attendevano di lì a poco con un riscaldamento a base di profumati crostini.
  • 1 fiamminga di Tagliatelle al ragù - Sin dalla prima prova speciale, si è capito subito che si sarebbe trattato di un confronto spettacolare ed equilibrato all’ultimo boccone. Nella fiamminga di tagliatelle al ragù” si è registrato un ex-equo fra il Duca e Frenkybello che hanno stabilito il nuovo record gara in 35”68, polverizzando quello precedente di 41”65 che apparteneva al toscano Manuele Pupilli detto "Pupo" e che resisteva dal lontano 2002. Alle loro spalle, chiudeva "Giangibar" (al secolo Gianluca Bortolucci) in 1’40”15.
  • 10 Salsicce bollenti - Passando alle salsicce, il più vorace è stato Frenkybello che si è sparato giù 10 morelli in 1’21”02 davanti al Duca che le spazzolava via in 1’57”71 e a Giangibar in 3’39”92. Sulle salsicce si registravano gli abbandoni di “Dinosauro” Dino Nicoletti e “Ultrarun” Bruno Tacchi.
  • 5 uova sode - Nel terzo tempo della gara, con la prova delle “5 uova sode”, ancora un alloro per Frenkybello che le strozzava in 29”04 alla media di 6” a uovo davanti al Duca che chiudeva in 34”74 e a Giangibar 1’ 30’20”. Sulle uova, invece, cadeva “Mastrolindo” Andrea Casotti.
  • 1 Filone di Ciambella - All’ultima prova, approdavano in cinque: Frenkybello, Duca, Giangibar, Bagoin e Ruspa “Davide Migani”. Sulla ciambella, il Duca (Campione in carica del Mangiathlon) sfoderava tutte le sue doti mangiatorie, spazzolando via il filone di dolce in 2’03” migliorando il record che già gli apparteneva davanti al tosto e agguerrito rivale Frenkybello che chiudeva in 2’19”. Alle loro spalle, Bagoin, con una “tecnica puramente suina”, ingurgitava il suo filone in 13’19”15”. Nonostante i massaggi addominali, si arrendevano Giangibar e Ruspa.
  • Verdetto - La bilancia decretava, a sorpresa, per appena 100 grammi il successo del ravennate Frenkybello212 kg (Franco Camerini) davanti al cesenatese “il Duca” (Glauco Natali) e al riminese “Bagoin” (Davide Faenza). Frenkybello sulla bilancia faceva registrare un peso finale di kg 180,300 con un incremento di kg 7,300 davanti al Duca (con un aumento di 7,200 chilogrammi) e a Bagoin (82,200 kg più 4,4 kg). Lo scettro d’incremento di peso rimane nelle mani del Duca con kg 7,9 stabilito nella scorsa edizione.
Per tutti gli altri, per i “mangiathleti” non competitivi, è stata una piacevole serata nel corso della quale hanno potuto ammirare all’opera degli autentici campioni. E l’appuntamento è già stato lanciato, per il 13° Mangiathlon, nell’estate 2009.

mercoledì 6 agosto 2008

Ricorrenze 1

Oggi ricorreva l'onomastico di mio fratello il cui nome fa Salvatore e questo è quello che abbiamo mangiato a pranzo:
  • pasta con i tenerumi
  • occhigrossi al cartoccio (l'occhiogrosso, per chi non lo sapesse, è una varietà di sgombro) con contorno di patate lesse, condite con olio e prezemolino tritato
  • macedonia di frutta (pesca e ananas)
  • tanti dolcetti mignon tra i quali facevano la parte del leone le pasterelle con il gelo di mellone
L'unica differenza rispetto agli altri giorni "ordinari" sono stati i dolcetti alla fine.
Mi sono alzato da tavola con la panza piena e la mente annebiata per il gran mangiare.

E' stato giocoforza sdraiarmi sul divano per cadere immediatamente in un profondo deliquio post-prandiale.
Ma ora sono tornato vispo.
Mi piacciono questi momenti in cui, rispetto alla velocità e alla frenesia, domina la lentezza e il piacere di poter degustare con intensità ogni singolo istante.

venerdì 1 agosto 2008

Tempo d'estate, tempo di "Mellone" e di "Gelo"...


Il gelo di mellone è un "classico" della gastronomia palermitana, ma per molti è anche legato a memorie infantili di tempi in cui nelle stesse pasticcerie della città era difficile da trovare perchè era considerato un dolce "semplice" da farsi in casa.
Secondo alcuni, il gelo di mellone, una volta veniva preparato in occasione della festa di Santa Rosalia, la Santa patrona della città: ma questa affermazione non collima con i miei ricordi d'infanzia e con le tradizioni familiari nelle quali sono cresciuto.
Per me era lo specialissimo dolce che, a casa mia, si preparava d'estate, sì, ma nella ricorrenza della festa d'onomastico di mio fratello e del mio compleanno, a pochi giorni di distanza l'uno dall'altro, (rispettivamente il 6 e il 9 agosto).

Prima di procedere, comunque, va chiarita una peculiarità linguistica che, a volte, quando si parla con i foresti può essere causa di qualche incomprensione.
Dalle nostre parti, quando si parla di "mellone",
ci si riferisce all’anguria (come ribadisce l'estensore di un post sul "gelo" in www.cuochidicarta.blogspot.com, in cui si parla appunto del gelo di mellone e precisando che la persistenza delle due "elle" nella parola "mellone" - rispetto al puro italico - è di fondamentale importanza). A ben guardare, così recitano i cartelli scritti a mano in rozze lettere diseguali a stampatello (e di un bel colore rosso, ovviamente) dei numerosi venditori ambulanti che, per strada e sino a notte fonda, espongono grosse angurie di tutte le dimensione, da quelle con la buccia verde scura e tondi come un pallone da football a quelli ovoidali con la scorza screziata a strisce verticali di due diverse tonalità di verde (che talvolta sono davvero giganteschi).
Alcuni di essi, con un modico supplemento di prezzo, vendono anche i "Melloni agghiacciati" (l’alfa, in questo caso, non è privativa ma rafforzativa…) che dai passanti in cerca di refrigerio vanno consumati sul posto, secondo un'usanza tipicamente mediterranea,
tramandata - con dispiacere di Bossi e dei suoi seguaci - direttamente dagli Arabi che, a lungo hanno abitato in Sicilia, godendo dei suoi giardini irrigui e delle sue acque (a loro, si deve la costruzione di splendidi acquedotti sotterranei - i Qanat -, di cui oggi si possono visitare alcune vestigia, proprio qui a Palermo).


Non è inusuale, in quei paesi del Mediterraneo che tuttora mantengono forti collegamenti con il mondo musulmano, vedere gruppetti di tre o quattro persone che, avendo acquistato un anguria al mercato, si appartano in un luogo ombreggiato per consumarla e poi distendersi per una siesta ristoratrice. Anni fa, nel corso di un viaggio nella penisola balcanica, proprio nel cuore dela Macedonia, mi è capitato di osservare questo rituale senza tempo: ed era ben visibile il piacere dei quattro Macedoni nel consumare all'ombra fresca d'un albero il mellone che si erano appena procurato.
In questi paesi consumare il mellone all'aperto è come per i Francesi portarsi a casa una baguette appena sfornata, sotto l'ascella.
Da noi, si dice ancora - perdonatemi se non ricordo esattamente la versione dialettale del detto - che "con mille lire di mellone magi bevi e ti lavi la faccia" (una versione più antica, diceva, in verità: "Con due soldi..."): la fetta d'anguria acquistata dal venditore ambulante, secondo tradizione, andrebbe consumata direttamente a morsi procedendo dal cuore del polpa verso l'esterno, che poi va ripulito con attenzione, lasciando da parte il bianco della buccia con quella parte di rosso che ha una consistenza troppo zuccosa. Quest'operazione comporta che ci si spalmi una parte del viso con il succo dell'anguria e che una parte di esso scoli anche per terra: da qui, la caratteristica postura che s'è costretti ad assumere mentre se ne mangia una porzione l'anguria, con il busto livemente proteso in avanti per evitare di macchiarsi camicia, pantaloni e scarpe.
Per questo motivo,
da piccoli, la festa maggiore poteva essere consumare la fetta di mellone agghiacciato, quando si era in spiaggia ed in costume da bagno: allora sì che ci si poteva sbrodolare senza alcun ritegno...!
Il mellone (soprattutto quello rosso) racchiude l'essenza del Mediterraneo perchè all'interno della sua scorza dura - eppure così fragile: basta un urto da niente perchè si frantumi - racchiude una polpa dolcissima ricchissima d'acqua e con pochi residui fibrosi. Chi sputa i semini del mellone uno ad uno mentre mangia la sua polpa, non ha capito nulla del piacere intrinseco del divorare l'anguria: sarebbe come sputare, uno ad uno, i semini contenuti all'interno degli acini d'uva e mondarli anche della loro buccia.
E dell'anguria si possono fare autentiche scorpacciate: specie quando è buono, dolcissimo e sugoso come si deve.
Alcuni dicono: "Tanto è solo acqua! Che male mi può fare?".
Questi piaceri d'un tempo tendono a perdersi: adesso alcuni "mellonari" si sono raffinati e, accanto alle loro bancarelle, hanno predisposto - per i consumatori più pretenziosi - dei tavoli da degustazione, dove servono la fetta d'anguria "al piatto" assieme ad un coltello e, in alcuni casi, anche alla forchetta.

Ma torniamo al gelo di mellone, da cui è partita questa prima nostalgica escursione.

Tecnicamente, si tratta di un dolce al cucchiaio "...molto semplice da realizzare a patto di avere dell’ottima materia prima", dicono alcuni prontuari.
Se poi viene servito con una spruzzata di briciole di pistacchio e un paio di fiori di gelsomino sopra, si realizza una perfetta combinazione di odori, colori e stimolazioni ineffabili sulle papille gustative.
Con il gelo di mellone, poi, si possono confezionare anche ottime crostate, oppure delle paste ripiene.
Però, vi avverto: è difficile degustare un buon gelo di mellone.
Il migliore, però, - credetemi - è quello fatto in casa, seguendo modalità di preparazione che vengono tramandate da una generazione all'altra.
Questa - rinvenuta in internet - è una delle possibili procedure per ottenere un buon gelo di mellone
Eliminate la scorza all’anguria, togliete i semi e tagliatela a cubetti che passerete al passaverdura. In una pentola miscelate l’amido, lo zucchero e una presa di sale. Aggiungete a filo il succo d’anguria aiutandovi con una frusta al fine di evitare la formazione di grumi. Quando il composto sarà ben omogeneo mettetelo sul fuoco a fiamma bassa e continuate a mescolare con un cucchiaio di legno finchè non si vedono le prime bolle. Continuate a far cuocere per un paio di minuti, togliete dal fuoco e aggiungete la vanillina e 3 o 4 fiori di gelsomino. Incorporate ora della zuccata tagliata a dadini. Versate la crema in un contenitore o in stampi monoporzione bagnati o spennellati con olio di mandorla. Lasciate raffreddare e mettete in frigo per almeno 24 ore. Sformate e, prima di servire, guarnite con cioccolato grattugiato, granella di pistacchio e qualche fiore di gelsomino. Ottimo anche per farcire una crostata... (www.cuochidicarta.blogspot.com)
Però, ricetta o non ricetta, quello di cui volevo parlare io era il mio ricordo dei giorni del gelo di mellone.
Per noi piccoli, la cosa veramente speciale non era tanto il gelo di mellone già pronto, ma il fatto di assistere all'intera procedura della sua preparazione che, di norma, avveniva uno o due giorni prima della ricorrenza che richiedeva come dolce il "Gelo" (consentitemi di chiamarlo così: il "Gelo" senza nessun'altra specificazione).
Prima della mia mamma, era la nonna a prepararlo in grandi quantità, perchè poi oltre a quello che si consumava tutti assieme ne mandava anche ai suoi figli.
Mia madre ha continuato la tradizione e, quindi, da un certo punto in poi è stata lei a prepararlo, seguendo la ricetta tradizionale di famiglia.
La vera festa - dicevo - era la preparazione del gelo.
Perchè?

E' presto detto:
innanzitutto, noi ragazzini facevamo da "aiutanti" e, in secondo luogo, ce ne stavamo lì come tanti cagnolini in attesa del boccone-premio.
Come avveniva ciò?
Ve lo spiego in poche parole.
Mia madre era l'operatrice principale e la regista dell'intera operazione
Nella prima fase di trattava di passare il mellone e produrre il succo filtrato. Mia mamma anziché passarlo nel passaverdura, lo "grattuggiava" in una specie di passa-pomodoro dalla superficie lievemente rugosa (questo metodo aveva il vantaggio di prendere in piccoli frammenti anche la componete fibrosa, così da assicurare alla fine un gelo più denso). Lo trattava a pezzi tenendolo ogni frammento dalla scorza, come si farebbe per grattuggiare un pezzo di parmigiano. A noi era concesso di "grattuggiare", quando c'era ancora tanta polpa. Lei faceva la parte più delicata per evitare che, nella foga, si macinassero anche parti di bianco fibroso ed insipido. Però, in base alla conformazione della fetta, rimanevano sempre frustoli di "rosso" che non potevano essere "trattati": quelli toccavano a noi che, in quattro e quattr'otto, li ripulivamo in attesa dei prossimi scarti.
Poi, passata la fase del filtraggio che portava alla raccolta d'una grossa quantità di un bel succo rosso e denso, veniva la fase della cottura in una grande pentola, assieme all'amido e allo zucchero (poco, a dire il vero).
Qui, si trattava soltanto di attendere il premio più ambito: a procedimento ultimato, dopo qualche minuto di attesa, la mamma aggiungeva la zuccata a cubetti ed il cioccolato fondente tagliato a scaglie per simulare i semini neri disseminati nella polpa dell'anguria. Quindi, cominciava a versarlo nelle ciotole che intanto aveva predisposto, di varia foggia e dimensione (alcune piccole, in cui sarebbe stato servito direttamente agli ospiti, altre più grandi da cui il gelo, una volta rappreso, sarebbe stato scodellato per essere servito come un grosso budino). Quando anche questo passaggio era ultimato,
per noi piccini, arrivava la parte più bella (finalmente!!!): rimaneva tutto per noi un pentolone tutto incrostato di buon gelo ancora caldo e, a questo punto, avevamo il permesso di scatenarci a raschiarne il fondo e la pareti con il cucchiaio.
Mmmmmmm!!!
Come era buono!
Me lo ricordo ancora adesso, proprio sulla punta della lingua e nel naso (la componente olfattiva era importantissima), se soltanto ci penso. Poi, siccome la produzione del gelo era sovrabbondante, per molti giorni dopo i festeggiamenti, a casa si continuava a mangiarne a colazione, a pranzo e a cena. E vi posso assicurare che le mie incursioni clandestine nel frigorifero erano davvero molto frequenti!!!

Oggi, la mia mamma, il gelo di mellone non lo fa più, ma una mia cugina ha raccolto il testimone, perfezionandosi di anno in anno e raggiungendo risultati sempre più di eccellenza.
Quel gelo di mellone della mia infanzia non tornerà più: il suo gusto, il suo odore, il suo aspetto erano resi particolarissimi dal rituale della preparazione, da quello stato mentale eccitato dell'attesa.
E' proprio vero che il "buono" da mangiare deriva dalle tradizioni del nucleo familiare e del gruppo umano in cui si cresce, prima ancora che dalle qualità organolettiche del cibo, in una felcie sintesi tra ciò che viene trasmesso culturalmente all'interno del proprio gruppo di riferimento (la cellula familiare, innanzitutto) e una specialisima componente di coloriture affettive e memorie d'infanzia.
Ciò che è più buono è strettamente legato con i ricordi più felici della nostra infanzia: come mostra - con fine intuito psicologico - il recente cartoon della Disney "Ratatouille", in cui la feroce misantropia del "critico" gastronomico, propenso a livide stroncature, viene spezzata, allorchè la pietanza allestita dal piccolo topo che voleva essere Chef, accende in lui memorie d'infanzia dimenticate, che lo portano ad immergersi in un'ineffabile sensazione di felicità mai più sperimentata dopo e dimenticata. E' proprio vero che quando ci si imbatte fortunosamente in pietanze cucinate in un certo modo (in cui ricorre una particolare ed unica combinazione di sapori, odori e colori) si viene prepotentemente trascinati nel proprio passato, con il risveglio di affetti sopiti e di ricordi gioiosi. Ed è soprattutto questa dimensione affettiva che rivive a rendere un certo cibo sublime.
La ricerca di piatti gustosi, che piacciano intimamente, non è altro, in fondo, che espressione del desiderio di ritrovare un ponte di collegamento con il nostro tempo perduto.
D'altra parte, proprio su questo tema, è proverbiale la famosa madeleine di Proust da cui prende le mosse il suo monumentale lavoro sulla memoria del suo "tempo perduto".

Proprio queste connessioni tra cibo e cultura ha cercato di spiegarci Marvin Harris, nel suo "Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari" (Einaudi, 1992), un vero classico dell'antropologia delle abitudini alimentari, con il supporto di molteplici, documentati (e a volte singolari) esempi.
 
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