venerdì 26 febbraio 2010

Sopravvivere al troppo: in un saggio di Giorgio Triani le nostre vite ingorgate di "troppo"...


Viviamo in una società di "eccedenze".
Una società in cui vige il principio della velocizzazione estrema, del "nuovo" a tutti i costi, del riempimento degli spazi temporali in un'assillante ricerca dell'occupazione del tempo libero per fare da contraltare al tempo lavorativo.
Se ci si ritrova, in maniera imprevista ad attendere da qualche parte, mal si tollera l'improvviso arresto di ogni attività...
Ciò è evidente quando c'è da fare una fila oppure quando si verifica un improvviso ritardo nei mezzi di comunicazione.
In simili circostanze, i più manifestano palesemente la propria impazienza, rivelando di non essere in grado di stare con se stessi.
Pochi non se ne danno pensiero.
Accettano il momentaneo arresto dell'incessante vettore lineare e si espandono "trasversalmente" nel tempo che, in modo imprevisto, è stato donato loro.
C'è chi si immerge nei propri pensieri, chi prede appunti, chi prende un libro che fa parte della piccola scorta di essenziali oggetti da viaggio, lo apre e si dedica a leggerne qualche pagina.
In fondo, i libri "tascabili" sono stati reinventati proprio a questo scopo: piccoli libri, di modesto ingombro, da poter portare sempre con sé, nella tasca appunto...
Ma queste sono le eccezioni, non la regola.
Esce adesso, per i tipi di Eleuthera, il libro del sociologo Giorgio Triani, L'ingorgo sopravvivere al troppo, che appunto esamina questo male del nostro tempo: il "troppo"di cui le nostre vite sono infarcite ("ingorgate", secondo la felice metafora proposta dal titolo) e sui modi, attraverso cui si possono trovare delle vie di fuga a ciò (volendolo...).

Questa la sintesi dell'opera

Insalatona, tramezzone, regalone, quizzone, allo stesso modo di Mokona e di Illyssimo o dei 2.300 miliardi di sms spediti nel 2008, esprimono bene questa realtà dell'eccesso che ci circonda, dove, in auto o davanti alla tv, a tavola o sulla spiaggia, a una conferenza o a uno snack-bar, in volo o alle prese con il carrello della spesa, ci si trova invariabilmente a fare i conti con un'irreparabile abbondanza.
Ma la cosa più drammatica e preoccupante è che questo ingorgo – sociale ed economico, tecnologico e mediatico, ambientale e domestico – non dà segno di rallentare: il numero di merci continua ad aumentare, insieme alle superfici di vendita, e fare la fila (anche per entrare in teatro o al ristorante) è sempre più comune, così come «affogare» la propria quotidianità in tempi e spazi – di vita, di lavoro, di divertimento – sempre più densi e intensi, veloci e stordenti.
L'ingorgo, raccontando questa realtà con (inevitabile!) abbondanza di dati, esempi e situazioni, ma con stile sempre scorrevole, intende anche indicare alcune vie di fuga e modi di salvarsi.
Offrendo in conclusione un manuale minimo di sopravvivenza, che è un invito a riflettere. A considerare che chi si ferma non è perduto. Ma è sulla buona strada per salvarsi.

Alcuni, leggendo questo libro, hanno osservato "...mi trovo molto d'accordo con questa breve analisi, chi si ferma non è affatto perduto!"
Io mi sento di replicare a questa affermazione che, anzi, chi si ferma ha tantissimo da guadagnare...
Per questo motivo, le panchine - tra tante altre cose - sono un'ottima soluzione... rappresentano un elogio della lentezza e del tempo fermo, potrebbero anche considerarsi un punto di ancoraggio in un flusso continuo e forsennato che crea nel nostro cervello troppo rumore di fondo...
Come anche il camminare a piedi, preferendo ail mezzo motorizzzato i classici "cavalli di San Pietro" per un lento spostamento con una modulazione delle nostre mete sulla base della loro raggiungibilità a piedi.
Come dedicare del tempo alla lettura nei ritagli di tempo, ma prendendola - laddove non venga spontaneo farla - come un salutare esercizio mentale...
L'altro giorno, dopo essere uscito dal cinema, mi sono seduto su di una panchina nella quale mi sono imbattuto lungo la strada verso casa (per il motivo esplicitato sopra, scelgo i film da vedere sulla base della comoda raggiungibilità a piedi della sala cinematografica dove sono in programmazione) e mi sono fermato per un po', prima a pensare al film che avevo appena finito di vedere, poi a leggere alcune pagine del libro che avevo con me...
Poi, del tutto appagato, a passo lento, senza alcuna fretta, mi sono incamminato verso casa...
Credo che potrebbbero essere queste le scelte vincenti
Abbiamo dimenticato che è possibile vivere, facendo cose semplici, a basso costo e a basso impatto ambientale oppure non facendo nulla del tutto.
Ritrovare, in altri termini, la capacità del non fare (che poi significa conquistare per se stessi spazi di riflessione, di desiderio, di sogno)...

"La semplicità è una complessità risolta", dicono alcuni
E, in questo senso, poter vivere di cose semplici potrebbe essere un dono oppure una conquista ottenuto dopo un lungo percorso di elaborazione.
Il fatto è che il troppo da cui le nostre vite sono ingorgate non genera un pensiero creativo (magari fosse quel caos di cui parla Nietzsche!), ma tout court assenza di pensiero e allontanamento siderale da un contatto le noste emozioni e con il nucleo più profondo del nostro essere.

L'autore
Giorgio Triani
(Parma, 1951), sociologo e giornalista, insegna Sociologia della comunicazione a Verona.

Gli altri suoi saggi:
  1. Bar Sport Italia. Quando la politica va nel pallone

  2. Casa e supermercato. Luoghi e comportamenti del consumo

  3. Sedotti e comprati. La pubblicità nella società della comunicazione

Ringrazio per il prezioso contributo di idee DA, AF e MM, mie amiche in Facebook
.

giovedì 25 febbraio 2010

E' uscito il romanzo "Gli archivi di Dracula": un serrato prequel del "Dracula" di Bram Stoker


La letteratura sul vampiro è di questi tempi assai fiorente, ma come fanno notare alcuni critici (tra i quali Giuseppe Lippi, prefatore de “Il battello del delirio" - Gargoyle, 2010 - con un interessante ed approfondito saggio, intitolato "Il vampiro in America"), vi è una tendenza generalizzata a trasformare i racconti sui vampiri in saghe a puntate e a borghesizzarli, "normalizzandoli", nel senso di farli diventare degli esseri “quasi” comuni che vivono, gioiscono, amano, vanno a scuola, lavorano come tutti gli altri esseri viventi.
L’esempio massimo di questa tendenza sono i romanzi di Stephanie Meyer che, non caso, sono divenuti oggetti di culto tra le più giovani generazioni.
Il vampiro, all’insegna di una buonistica political correctness viene normalizzato, con la precisazione che, come tra gli esseri umani, nella popolazione dei vampiri ci sono i “buoni” che obbediscono a precise regole di comportamento nei confronti degli umani e che cercano di trovare soluzioni alternative alla propria (fisiologica) sete di sangue e i “cattivi” che invece soggiacciono maggiormente alla propria natura ferina, anche se poi – più benignamente - finiscono solo con l’accanirsi in una lotta senza tregua contro la genìa buona della propria specie. Il vampiro, in questo tipo di rivisitazione del tutto proclive al dettato della moda, tende a diventare o un eroe idealizzabile o un borghese stretto tra abitudini piccine ed asfittiche oppure un teppistello da quattro soldi, o bullo o delinquente che dir si voglia, che - a tratti - si trasfigura in personaggio dalle aspirazioni nazi-fasciste, ma certamente ben lontano da una reincarnazione demonica del Male assoluto.
In questo clima culturale, arriva dalla Gargoyle Books un altro pregevole recupero di un testo inedito in Italia, pubblicato in edizione inglese nel lontano 1971, che riprende in pieno gli aspetti più sulfurei della letteratura sui vampiri.
Si tratta di un prequel "postmoderno" del Dracula di Bram Stoker: il racconto degli antefatti della più celebre storia sul Vampiro transilvano.
Raymond Rudorff, giornalista inglese, appassionato di letteratura sui vampiri, scrisse questo romanzo in forma epistolare, in cui - attraverso un contraltare di voci narranti che si intrecciano, fornendo di volta in volta, punti di vista e vertici di osservazione diversi - viene raccontata la storia della "famiglia" di Dracula e delle articolate connessioni con diversi rappresentanti di una stirpe "maledetta", compreso il collegamento con la sanguinaria Erzsébet Báthory - nobildonna realmente esistita tra la seconda metà del 1500 e i primi anni del 1600, soprannominata "la Belva dei Carpazi" per via dell'irrefrenabile ferocia che la spingeva a uccidere in maniera sistematica, tanto che, per sua mano, vennero torturate a morte più di 600 giovani donne - di cui si diceva che, oltre a godere nell’infliggere inenarrabili torture alle sue vittime, facesse il bagno nel loro sangue.
Questa l'ipotesi portante della ricerca negli "archivi" di Dracula: "Tutto il materiale che ho raccolto supporta saldamente le teorie che erano state scambiate per folli esternazioni di uno studioso lunatico; e conferma in pieno il sospetto che Stoker, con il suo Dracula, intendesse denunciare al mondo l'esistenza del vampirismo, sebbene sia stato infine costretto a presentare il libro come un'opera di pura fantasia" (e a parlare è l’oscuro ricercatore che scrive in premessa al carteggio epistolare intercorrente tra i vari personaggi, e alle loro narrazioni diaristiche a cui, di tanto in tanto, è lo stesso ricercatore ad aggiungere alcuni elementi di raccordo).
Rudorff, presentandosi attraverso il suo alter ego narrante come l'artefice d'una dura e faticosa ricerca, si dichiara come colui che si sta assumendo l'onere di denunciare al mondo l'esistenza della progenie dei vampiri, essendosi messo sulle tracce della loro origine attraverso il reperimento di preziosi documenti epistolari, come a lanciare l'avviso: "Essi vivono tra noi e la piaga non potrà mai essere debellata, perché comunque faranno ritorno, in un modo o nell'altro...", il che - tra l'altro - è un assunto profondamente articolato con la visione del mondo visionaria e pessimistica di H. P. Lovecraft, considerato unanimemente uno dei padri della letteratura horror.
Le vicende narrate si snodano dal settembre 1876, in cui si racconta dell’incursione in un antico e lugubre castello transilvano da parte di un gruppetto di giovani spavaldi alla ricerca del fascino di antiche leggende, all’11 novembre 1877, con un estensione temporale in avanti in cui si svela l’esistenza di un carteggio epistolare tra i professori Arminius - che, come sottolinea una nota al testo, adombra uno studioso realmente esistito - e Van Helsing, in cui il primo riceve notizie dell’esito "positivo" della vicenda esposta nel Dracula di Bram Stoker.
La struttura epistolare, molto cara ai narratori dell’Ottocento consente numerosi vantaggi, tra i quali si possono annoverare la possibilità della molteplicità dei punti di vista e l’abbattimento della rigidità di tempo e di luogo.
Attraverso la narrazione diaristica ed epistolare, l’autore può consentirsi di fare incursioni nel passato anche remoto oppure compiere dei cambi repentini di scena, con l'esposizione - quasi in simultanea - di parti dell’azione che si svolgono in luoghi molto distanti l’uno dall’altro, senza assumere la funzione di deus ex machina onnisciente e sviluppando un racconto diacronico, oltre che sincronico.
Nel romanzo epistolare, come fa appunto il personaggio narrante, alter ego di Rudorff ne Gli archivi di Dracula, lo scrittore fa un passo indietro e si pone semplicemente come “ricercatore” che rende noto ai lettori il risultato della sua ricerca e del suo studio.
Così descrive il romanzo di Rudorff, il critico Gianfranco Franchi, postfatore della presente edizione:
Cosa ne è derivato? Tecnicamente, uno stravagante romanzo ibrido, emi-diaristico, emi-epistolare, emi-giornalistico, emi-storico, una sorta di atipico incrocio tra Dracula di Bram Stoker (inevitabile), il Kaspar Hauser di vonFuerbach (curioso) e il Faust (suggestivo)”. (G. Franchi, dalla postfazione intitolata “Lucard” che, se letto al contrario, sta per “Dracul”, p. 250, corsivi nell'originale).
Per quanto concerne le similitudini con Dracula, non c’è bisogno di spendere molte parole: vi sono descrizioni in cui la connessione è facilmente riconoscibile, quasi da manuale. Più interessanti e più sottili sono i riferimenti a Kaspar Hauser e a Faust. Infatti, è il piccolo Stephen, cresciuto come un bimbo ritardato, a scoprire l’intelligenza (e la vita) a circa dieci anni dopo la scomparsa tragica dei suoi genitori, ma a differenza del Kaspar Hauser (personaggio misterioso realmente vissuto di von Feuerbach raccontò magistralmente la storia), riesce a mantenersi in vita e a formarsi una personalità forte, governata dalla volontà di dominio e da una passione smodata, seppur priva di emozioni, mentre successivamente il neo-Kaspar Hauser - travolto dalla suggestione del Male, alimentata dallo studio forsennato di antichi testi e documenti alla ricerca della legacy più profonda della sua stirpe - si tramuta in un neo-Faust asservito ad un malefico patto demonico che lo guida nelle scelte successive, in un delirio di invincibile onnipotenza.
Al di là di questa struttura narrativa si intravede al di là anche una profonda ed articolata ricerca d'archivio e sarebbe davvero iinteressante - come osserva ancora Gianfranco Franchi - andare alla ricerca delle fonti storiografiche utilizzate da Rudorff per dare sostanza e credibilità alla sua narrazione e metterle a confronto con quelle utilizzate da Bram Stoker.
Lo stesso Rudorff, come sottolinea Franchi, è un personaggio di cui si sa molto poco: dopo la sua morte, sembra sia scomparso nel nulla.
Non ci sono sue biografie, non è menzionato nel web, né esiste traccia delle vecchie edizioni in Italiano di altri due suoi romanzi, La dimora dei Branderson (pubblicato in Italia da Sonzogno, nel lontano 1975) e Complotto a Venezia (sempre per i tipi di Sonzogno, nel 1977).
Si sa anche che Rudorff ebbe a tradurre, nel 1975, Il vampiro di Ornella Volta.
Di lui sono note soltanto le date di nascita e di morte (1933-1992) ed inoltre si sa che, per un certo numero di anni, visse probabilmente anche in Italia, forse a Roma..
Un mistero avvolge dunque lo stesso Rudorff, tanto che G. Franchi, autore della postfazione, ventila l'ipotesi provocatoria che lo stesso Rudorff non sia altro che il Vampiro redivivo, quasi facendo sua l’idea ventilata dall’anonimo ricercatore che consegna al lettore il frutto della sua indagine tra archivi e biblioteche (tra i quali reperti hanno funzione fulcro i diari di Andrew Fuller e dii Elizabeth Sandor, asserendo che “i vampiri sono tra noi”).
La sintesi dell'opera nel risguardo di copertina
Per decenni, il pubblico dei lettori e dei cinefili ha rabbrividito al cospetto delle imprese del vampiro più famoso della storia, Dracula. Fino ad oggi, tuttavia, si è sempre saputo molto poco del passato del Conte sanguinario, e in particolare delle circostanze che determinarono la sua trasumanazione verso la diabolica condizione di non-morto.
Dalla parentela con la Contessa Elizabeth Bathory, passando per le guerre contro i Turchi e fino ad arrivare alle indagini su di lui condotte dal Professor Arminius, in questo prequel del "Dracula" di Bram Stoker, la spaventosa saga del casato di Vlad viene finalmente alla luce. I diari e gli scambi epistolari dei protagonisti di quest'avventura occorsa alcuni anni prima delle gesta di Van Helsing e Jonathan Harker, porteranno il lettore a spasso per i secoli, conducendolo infine verso la verità che nessuno ha mai osato rivelare. Ecco che cosa accadde a coloro che si imbatterono nelle vicende del Signore delle Tenebre, e a coloro che si ostinarono a tentare di svelarne il mistero...

Per leggere integralmente la postfazione di Gianfranco Franchi, clicca qui.

lunedì 22 febbraio 2010

The wolfman: una bella rivisitazione del fim del 1941 con un pizzico eccedente di effetti splatter


Il licantropo (dal greco λύκος (lýkos), "lupo" e ἄνθρωπος (ànthropos), "uomo"), detto anche uomo-lupo o lupo mannaro, è una delle creature mostruose della mitologia e del folclore poi divenute tipiche della letteratura horror e successivamente del cinema horror.
Secondo la leggenda, il licantropo è un uomo condannato da una maledizione a trasformarsi in una bestia feroce ad ogni plenilunio: la forma di cui si racconta più spesso è quella del lupo, ma in determinate culture prevalgono l'orso o il gatto selvatico.
Nella narrativa e nella cinematografia horror sono stati aggiunti altri elementi che invece mancavano nella tradizione popolare, quali il fatto che lo si può uccidere solo con un'arma d'argento, oppure che il licantropo trasmetta la propria condizione ad un altro essere umano dopo averlo morso. Altre volte, invece, per "licantropo" non si intende il lupo mannaro: quest'ultimo infatti, si trasformerebbe contro la propria volontà, mentre il licantropo si potrebbe trasformare ogni volta che lo desidera e senza perdere la ragione (la componente umana).
Le leggende sul licantropo, presenti in ogni tempo, hanno alimentato - peraltro - la specifica fantasia di potersi trasformarsi in lupo sanguinario (e la relativa fobia): vi è - tra le patologie psichiatriche transculturali, presente anche in alcune enclave dialettofone del nostro territorio nazionale, il cosidetto "mal di luna" che, tra l'altro, è stato oggetto di una specifica novella di Pirandello, sempre interessato ai temi della follia.

Vi era molta attesa per The wolfman (Wolfman) del regista Joe Johnston, non ultimo per il cast di attori coinvolti.
Sono andato a vederlo con quualche resisistenza, poco dopo la sua uscita nelle sale cinematografiche...
Non mi piacciono troppo gli effetti splatter e, qui, erano annunciati a chiare lettere e a profusione.
Ma ci sono andato comunque: si trattava del remake di un film che, nel suo genere, era stato celebre e aveva lasciato una traccia.
Quanto ad atmosfere, comunque ne è valsa la pena.
Una perfetta ambientazione gotica, che rende omaggio in maniera integrale (e quasi letterale quanto a citazioni) alla pellicola hollywoddiana degli anni Quaranta del XX secolo (L'uomo lupo - The Wolf Man - di George Waggner del 1941, con Lon Chaney jr, nella parte di Lord Talbot)
Tra i protagonisti, un Benicio Del Toro che, in un'insolita parte, impersona appunto John Talbot, tormentato da un fato avverso che può soltanto subire, senza poterlo in alcun modo contrastare, e un sulfureo Anthony Hopkins in un ruolo che ricalca (ma è da copione) il cliché di Lecter.
Ci sono proprio tutti i topoi del genere, compresi gli zingari, le pallottole d'argento e, a far da principessa, la luna piena che favorisce la trasformazione degli uomini in licantropi.
Ciò che colpisce nelle tematiche horror che hanno come oggetto i revenant è soprattutto ciò che sta al di là degli aspetti più cruenti e sanguinari: e cioè, il fatto che questi esseri dotati di poteri sovrumani si muovuono - sequendo il loro istinto, ovviamente - animati soprattutto dalla brama di potere, di sopraffazione e dalla furia del cacciatore che, a tutti i costi, vuole sopraffare la sua preda e che trae piacere da questo.
In questo senso, i revenant sanguinari rappresentano il prototipo del serial killer, con diverse gradazioni di "eleganza" e di "stile" derivanti dalla loro specifica natura.
E' chiaro che il vampiro - il succhia-sangue - può consentirsi di essere più raffinato, più dandy e più gentiluomo, considerando anche le implicazioni profondamente erotiche del famoso "bacio sul collo", mentre il licantropo, possiede maggiormente la natura della bestia, poichè quando si trasforma la sua trasformazione è totale ed obbligata, mentre Dracula il Vampiro si trasforma in altro solo se lo vuole...
In ogni caso, la metà umana di questi esseri difficilmente resiste al fascino perverso del male che consiste soprattutto nell'esercio del proprio potere, sugli uomini che sono al confronto inermi e fragili.
E, quindi, tutti gli accorgimenti presi, eleggere qualcuno a proprio guardiano e carceriere quando dovrà manifestarsi ciclicamente il "mal di luna", falliscono miseramente di fronte alle lusinghe del Male e alla potenza belluina della Bestia.
Molteplici nel film gli effetti splatter di frattaglie che fuoriescono, arti e teste mozzate, corpi sbranati, ventri squarciati: su questi aspetti il regista avrebbe potuto compiere delle scelte più severe.
Ma tant'è: la ricaduta nel manierismo dei generi è inevitabile, mentre la severità gotica delle ambientazioni esterne e degli interni brumosi, come anche una quasi costante penombra che attenuava sensibilimente gli effetti cromatici sarebbero stati sufficienti a creare la giusta atmosfera.
Peraltro, gli effetti splatter sono tanti e molteplici che, una volta svanito l'ffetto sorpresa, vengono accettati come un dato di fatto e sottoposti ad un processo di visualizzazione periferica da parte dell'occhio: ci si limita a vedere qualcosa e si passa oltre, seguendo l'intreccio e l'azione.
Quello che sorprende è il fatto che in sala fossero presenti numerosi genitori che accompagnavano dei ragazzetti sicuramente al di sotto dei dieci anni di età, qualcuno sicuramente non più grande di 6 anni (quando, nella scheda del film, è chiaramente indicato che si tratta di pellicola indicata per i i regazzi al di sopra dei 16 anni).
Nella fila di poltrone subito dietro di me, c' erano seduti alcuni ragazzini, in compagnia di adulti - forse i genitori - , ed io, nella concomitanza con le scene più cruente, sentivo una grande agitazione, movimenti a scatti, concitazione, sussurri ed immaginavo che i ragazzetti cercassero in qualche modo di difendersi dalle immagini più disturbanti... I bambini, si sa, hanno meno difese degli adulti, perchè anche quando le immagini più violente sono frutto d'una finzione, essi tendono a considerarle la registrazione puntuale d'un evento reale e perchè, in secondo luogo, si favorisce in essi l'attivazione di meccanismi di dissociazione, al pari di quelli che possono verificarsi quando i minori vengono sottoposti a violenze e ad abusi.
All'ingresso dello spettacolo successivo, c'era anche una giovane donna incinta e i suoi accompagnatori chiedevano ansiosamente agli spettatori in uscita se il film non potesse turbare all'eccesso le emozioni della donna gestante, già in stato avanzato...
Pochi gli effetti speciali in digitale, mentre la maggior parte delle trasformazioni sono state realizzate mediante dal sapiente trucco di Rick Baker, che - da consumato mago nella sua arte - si era già occupato di realizzare le trasformazioni in licantropo del personaggio protagonista in "Un lupo mannaro americano a Londra".

Clicca qui per vedere il trailer.

Scheda film

Regia: Joe Johnston.
Interpeti principali: Benicio Del Toro, Anthony Hopkins, Emily Blunt, Hugo Weaving, Art Malik, Kiran Shah, Elizabeth Croft, David Sterne, Sam Hazeldine, Olga Fedori, Branko Tomovic, Michael Cronin, Nicholas Day, Bridgette Millar, Richard James, Anthony Debaeck, Emily Parr, Cristina Contes, David Schofield, Roger Frost, Andy Gathergood, Asa Butterfield, Simon Merrells, Dianne Pilkington, Shaun Smith, Mario Marin-Borquez, Gemma Whelan, Geraldine Chaplin
Titolo originale: The Wolfman.
Genere: Horror
Consigliato a spettatori che abbiano più di 16 anni.(+16)
Durata: 102 min.
Origine:USA, Gran Bretagna 2010.
Prodotto da Universal Pictures
In uscita da venerdì 19 febbraio 2010.

mercoledì 17 febbraio 2010

La bellezza dentro: una mostra fotografica sulle donne e le madri nelle carceri italiane


Si è svolta a Ravenna, patrocinata dal Ministero della Giustizia, la mostra fotografica "La bellezza dentro. Donne e madri nelle carceri italiane", che è il risultato di una foto-inchiesta condotta in dieci carceri italiani provviste di Sezione feminile (Urban Center - Chiesa di San Domenico - dal 16.01.2010 al 12.02.2010)
Autore delle foto esposte è il fotoreporter Giampiero Corelli.
La mostra, allestita in un suggestivo spazio espositivo nel cuore di Ravenna (un'antica chiesa momentaneamente adibita a spazio espositivo, nei pressi della porta S. Vitale), ha un grande interesse perchè, in verità, non si occupa delle "recluse", ma del tema più ampio delle "reclusioni" femminili.
In questo senso, l'occhio fotografico di Corelli indugia non solo sulle detenute, ma anche sulle guardie carcerarie, anche'esse donne. Le une e le altre appartengono ad un'unica realtà, le une e le altre - per quanto in una posizione relazionale asimmetrica - sono espressione di un'unica reclusione.
Corelli, con le sue immagini, mostra proprio questo, ma fa anche vedere che - al di là del dramma e della malinconia - possono esservi il sorriso, la gioia di vivere, la speranza.
Sarebbe stato troppo facile e troppo scontato, forse, soffermarsi sui guasti del sistema carcerario italiano: troppe inchieste sono state condotte, troppe denuncie sono state portate avanti. E sarebbe stato fin troppo facile estrapolare dal contesto questo filo conduttore: si sa, per altro che le immagini fotografiche, offrendo all'osservazione un singolo pezzo di realtà, svincolato dal contesto, possono mentire o, in alcuni casi, possono essere utilizzate per fare una facile retorica.
Corelli, che ha dedicato gli anni più recenti del suo lavoro "...a indagare l'identità femminile nei suoi aspetti meno conosciuti e consueti (dalle suore di clausura alle madri assassine)" si è accostato a questa nuova impresa con un grande rigore formale.
Nella maggior parte delle carceri femminii che ha visitato (tra le quali si annoverano Rebibbia, la Giudecca di Venezia, il Carcere di Pozzuoli (per Napoli), il "Pagliarelli" di Palermo, il "Gazzi" di Messina), non si è limitato a scattare delle foto, ma ha svolto un accurato lavoro preliminare (che non sempre è stato possibile portare avanti nella sua integrità), consistente in una riunione di presentazione con gran parte delle recluse e le guardie carcerarie di turno, nel corso della quale egli spiegava gli intendimenti della sua ricerca, passando successivamente ad una serie di interviste, che gli hanno consentito di raccogliere del materiale per la costruzione di un video (solo parlato) di "testimonianze", lasciando solo per ultime le session fotografiche propriamente dette.
Le detenute e le secondine, coinvolte in questo procedimento, non si sono sentite come "oggetti" da osservare, ma come soggetti partecipi di un processo e da ciò scaturisce la grande freschezza e la potenza espressiva di alcune delle immagine che Corelli ha colto.
Quindi, si potrebbe dire che la mostra offre un percorso per immagini attraverso il più ampio mondo carcerario sempre declinato al femminile, visto attraverso tutti gli attori coinvolti e i suoi più diversi aspetti culturali: il personale di sorveglianza, di assistenza sociale, i servizi del volontariato.
E' disponibile un catalogo a stampa, edito per i tipi di Danilo Montanari Ediore, che contiene non solo le foto scelte per la mostra, ma anche altre che - per motivi di spazio - non sono state allocate nello spazio espositivo.
Il volume è corredato di un'introduzione di Donatella Stasio, giornalista parlamentare ed esperta di cronaca giudiziaria e, a conclusione, è corredato di una serie tabelle statistiche che illustrano alcuni aspetti della detenzione femminile nelle carceri italiani.
Sarebbe davvero auspicabile poter vedere questa mostra anche a Palermo.
Corelli afferma che a Palermo ha avuto grandi facilitazioni per lo svolgimento del suo lavoro dall'allora direttrice del Carceri "I Pagliarelli".

Dalla presentazione della mostra
Il fotoreporter Giampiero Corelli ha dedicato gli ultimi anni del suo lavoro a indagare l'identità femminile nei suoi aspetti meno conosciuti e consueti (dalle suore di clausura alle madri assassine). In questo contesto si inserisce questa iniziativa, un lungo reportage nelle carceri femminili italiane (da Rebibbia alla Giudecca, da Pozzuoli al Pagliarelli, al Gozzi, alla Dozza) che lo ha portato a visitare una decina di istituti di pena. Non ci si sofferma solo sulle detenute, che pure costituiscono il momento caratterizzante dell'intervento, ma anche sul personale di sorveglianza, di assistenza sociale, sul servizio di volontariato, sul più ampio mondo carcerario anche nei suoi aspetti culturali. La ricerca di Corelli tende a documentare la bellezza dell'essere umano, in questo caso femminile, che conserva e difende le proprie caratteristiche anche in condizioni di disagio e a volte di degrado. Particolare attenzione è rivolta alle detenute madri, comprese tra la privazione della libertà e l'affettività e la speranza di una nuova vita. Mostra fotografica composta da 40 pannelli 83 x 60 cm Stampa B/N a pigmenti al carbone applicata su alluminio sagomato.

Nota biografica
Nato a Sant'Alberto, paese ai confini della valle di Comacchio sul fiume Reno, Giampiero Corelli è iscritto all'albo dei giornalisti in qualità di fotoreporter. Svolge la professione di fotoreporter da oltre vent'anni, prima con il quotidiano Messaggero, poi con il Resto del Carlino.
Collabora con diverse testate giornalistiche e agenzie fotografiche: Ansa, Sintesi, La Piazza avvenimenti, Ravenna Notizie, Il Risveglio 2000, Qui, Media News.
Ha publicato diversi libri fotografici tra i quali "Ravenna 1990-2000","Alle soglie dell'eterno", "Dentro la luce oltre la luce", "Mestieri e volti di una citta del terzo millenio volume 1-2-3", "Muoio ma non muoio", "Mostrami il tuo cane ti diro chi sei", "Mamma mia", "Cocorico frames", "Tempi diversi voci e volti dalla clausura", "Universalmente", "Babbo mio".
Ha esposto in diverse mostre fotografiche in italia e all'estero.

www.corellifotoreporter.it
info@corellifotoreporter.it

venerdì 12 febbraio 2010

Sono rovinato. Ho fame grande!


Uno strumento del mestiere...
Una volta, un questuante "del semaforo" esibiva un cartello del tutto simile nel quale aveva aggiunto, a beneficio di chi non avesse compreso la parola "fame" l'equivalente idioma siciliano "pitittu" (termine evidentemente ritenuto dall'ignoto estensore di più universale comprensione)...



Lo stesso cartello é stato predisposto in versione "double face", per poter essere uno strumento duttile e buono per tutte le stagioni.
In questa seconda versione, il messaggio é un filino più drammatico, visto che esordisce con un "Sono rovinato!"...

Ogni strumento è buono per captare l'attenzione dei possibili elargitori di oboli.

E così prospera una fitta schiera di dickensiani mendicanti, alla quale ormai siamo ben adusi: tipologie di accattoni ben diversi da quelli stanziali davanti ai portoni delle chiese e strettamente connessi con la necessità di poter praticare forme di buonismo (ipocrita) di stampo cattolico.

Anche dare dei piccoli oboli a questi "nuovi" mendicanti è una forma di piccolo "ammortizatore" sociale, in fondo.

Per esempio, davanti al supermercato dove faccio abitualmente la spesa c'è una signora zingara, sempre gentile e sorridente.

Chiede, ma con dignità, senza mai pressare i clienti che escono i sacchetti della spesa, senza molestare.

Io arrivo sempre con la mia cagnetta al guinzaglio e la signora è prodiga di festeggiamenti. Poi, si offre di tenerla lei al guinzaglio, mentre io sono all'interno.

Quando ho finito, le do sempre volentieri qualcosa, senza lesinare, perchè mi fa simpatia con questo modo di sorridere non ipocritamente e di essere sempre di buon umore.

Cortesia e gentilezza mi mandano letteralmente in estasi, come pure la dignità di chiedere senza chiedere e quella, preziosa, di sorridere sempre, anche quando non riceve neppure una monetina.

L'esposizione d'un cartello come quello di cui parlo è invece meno "dignitosa", ma è pur sempre uno strumento, perchè in fondo allude ad una dimensione di vita condotta quasi sempre al limite della sussistenza.

Il problema, invece, può sorgere quando donne e bambini vengono inviati a battere le strade per fare la questua e poi, se non portano a casa un "raccolto" sufficiente, vengono puniti con le percosse dagli uomini che, nel frattempo, se ne sono stati molto comodamente al coperto a bere e a fumare.

Lì si tratta di abuso, violenza, sfruttamento.

E allora non si può più essere in alcun modo solidali con la miseria esibita.


Morgan e la cocaina. E' lecito parlare di uso terapeutico o antidepressivo della cocaina?


Morgan, il noto cantante, nel corso di un'intervista rilasciata ai media (in particolare a Max) ha dichiarato di aver fatto uso di cocaina e di avere contratto nei suoi confronti una forma di dipendenza. Ha aggiunto successvamente che ne ha fatto uso pechè, per lui, la cocaina aveva una valenza anti-depressiva, esplicitamente affermando che, dunque, aveva utilizzato la cocaina in modo "terapeutico".
A proprio favore, ha ricordato che lo stesso Freud, nei primi anni della sua attività professionale, avesse fatto uso della cocaina per le sue proprietà antidepressive, sia per trattare dei suoi pazienti sia per se stesso.
Questo il nucleo centrale delle sue dichiarazioni: "Io sono trasparente. La gente parla di me perché sono aperto, e così si sentono in diritto di non rispettare la mia privacy". Di solito succede proprio per via della coca. "La droga - precisa - apre i sensi a chi li ha già sviluppati, e li chiude agli altri. Io non uso la cocaina per lo sballo, a me lo sballo non interessa. Lo uso come antidepressivo. Gli psichiatri mi hanno sempre prescritto medicine potenti, che mi facevano star male. Avercene invece di antidepressivi come la cocaina. Fa bene. E Freud la prescriveva. Io la fumo in basi [modalità di assunzione nota come crack], perché non ho voglia di tirare su l'intonaco dalle narici. Me ne faccio di meno, ma almeno è pura".
Salvo, poi, a fare marcia indietro a frittata fatta...: "La droga fa male, le mie parole sono state travisate, sono vittima di una trappola"
Pur non accettando il seguito di prese di posizioni ipocritamente moralistiche nei suoi confronti, sino all'espulsione dal Festival di Sanremo, poichè - nelle alte sfere - si è ritenuto che la sua dichiarazione non fosse consona al personaggio pubblico, non mi sento di poter accettare a cuor leggero le giustificazioni di Morgan.
Vediamo perchè.
La cocaina, dal punto di vista farmacologico, non è assolutamente un farmaco antidepressivo, bensì un farmaco stimolante tale da produrre non una "normalizzazione" dell'umore, ma degli effetti fortemente euforizzanti, del pari con un incremento - puramente soggettivo - della fiducia nella propria forza e nelle proprie capacità, sino ad indurre in taluni casi dei vistosi errori di giudizio. Viene considerata una droga del "piacere", poichè rispetto a tutte le altre sostanze psio-attive disponibili agisce direttamente - e senza mediazioni - sul reward system del SNC (Sistema nervoso centrale), procurando ogni volta una intensa scarica del mediatore chimico dopamina nello spazio neuronale intesinaptico nei centri nervosi preposti. La scarica di dopamina, in forma discreta, è peraltro responsabile del rinforzo neurochimico dei processi di apprendimento e ha la funzione di attivare dei circuiti virtuosi che rendono più efficace l'azione.
L'assunzione di cocaina, svincolata da qualsiasi contesto e da qualsiasi sequenza gestuale, provoca il rinforzo di un apprendimento unicamente sugli effetti della stessa sostanza assunta e questo spiega il perchè scatti la trappola insidiosa dell'iterazione delle assunzioni finalizzate alla ricerca proprio di quegli effetti.
La cocaina è dunque una "droga" del cervello e, stante la brevità dei suoi effetti in funzione di un'emivita non lunga, non è idonea per un'azione antidepressiva prolungata: viceversa, il suo utilizzo procurando una deplezione delle riserve di dopamina nelle vescicole pre-sinaptiche predispone l'individuo ad un crollo depressivo dopo una session di utilizzo di cocaina.
Ai primordi dell'era farmacologica della Psichiatria si era tentato di trattare gli stati depressivi con le anfetamine, che sono un altro potente stimolante, con effetti assolutamente nefasti.
L'assuntore di anfetamine, infatti, oscillava tra stati euforici e di eccitamento difficilmente manovrabili (poichè rapidamente sconfinavano nell'azione violenta e nella paranoia) e crolli depressivi che portavano alla ripetizione dell'uso proprio per uscire dalla condizione depressiva indotta dal "manque" della stimolazione farmacologica.
Il consumatore di cocaina che afferma di farne uso per via della sua azione antidepressiva, infatti, elide una parte fondamentale del processo del suo consumo:che è quella del primo approccio con essa che ha avviato la circolarità del consumo in un'alternanza di stati euforici e cadute depressive.
L'uso anti-depressivo può essere soltanto in funzione della necessità di porre rimedio alla caduta del tono dell'umore e dal senso di inerzia e di svuotamento conseguenti ad un uso pregresso.
Vi è dunque in una simile affermazione il bisogno di costruire una "propria" verità, in forma autogiustificatoria (o assolutoria).
Il farmaco antidepressivo, invece, agisce su altre strutture neuronali, modificandone al biochimica e correggendo alcuni difetti delle neurochimica cerebrale che sono sottesi al manifestarsi dei sintomi depressivi. I farmaci antidepressivi, proprio per questi motivi, sono lenti nella loro azione e richiedono, perchè si manifesti l'efficacia antidepressiva, dei tempi lunghi (da una settimana ad almeno 15 giorni).
Non forniscono risultati "miracolosi" ed immediati.
Le dichiarazioni di Morgan sono fuorvianti: sarebbe stato interessante e fruttuoso, se egli - nel dichiararsi - avesse affermato che era caduto nell'uso della cocaina per debolezza, divenendone dipendente.
La sua sarebbe stato una testimonianza onesta e utile - eventualmente - a chi si trova a ricevere le prime suggestione verso l'uso di cocaina o di altri stimolanti.
Invece, ha dichiarato pubblicamente il suo alibi alquanto pietistico, richiamando - in maniera erronea peraltro - quello che fu il rapporto di Sigmund freud con la cocaina.
Un capitolo oscuro, per la verità, nella biografia del grande pensatore, dal momento che i suoi scritti giovanili sulla cocaina furono esclusi dalla sue Opere complete.
Freud, a quanto risulta, trattò con la cocaina un suo collega medico che era divenuto dipendente dalla morfina, ottenendo sì una risoluzione di quella dipendenza, ma provocando per contro - come si vide nell'evoluzione successiva del caso clinico - una forte compulsione all'uso di cocaina.
Lo stesso Freud a quanto sembra utilizzò la cocaina, ma mai come antidepressivo, semmmai per la sua intensa azione stimolante e favorente il lavoro intellettuale, in accordo con quelle che furono le sue sporadiche riflessioni in materia. ma quelli erano tempi diversi: la cocaina era liberamente accessibile a tutti coloro che esercitavano la professione medica e non aveva ancora lo statuto giuridico di sostanza stupefacente.
Altri tempi, in cui il Papa era consumatore di una bevanda alcolica contenente un estratto della foglia di Coca, il Vin Coca Mariani, e la stessa formula originaria dell'odierna Coca Cola conteneva, del pari, un estratto di foglie di Erytroxilon Coca.
A parte l'inappropriatezza dell'uso anti-depressivo, oggi la cocaina è anche una sostanza stupefacente ed è fuori dalla Farmacopeia ufficiale di tutti gli Stati, in accordo con le normative internazionali.
Insomma, ci sarebbe piaciuto di più che Morgan avesse dichiarato, in tutta sincerità: "Ho fatto uso di cocaina, perchè sono stato debole, l'ho provata, mi è piaciuta, e ne sono divenuto dipendente. Oggi, ne sono uscito e vi racconto come ho fatto. Ragazzi, non cadete nel mio stesso errore".
Invece, con una confessione puramente esibizionista ci ha dato soltanto un alibi "patogenetico" difficile da digerire che confonde pericolosamente le carte.
E quanto detto da lui comporta che tanti, seguendo il suo esempio, potrebbero trovare delle pseudo-razionalizzazioni al proprio approccio con la cocaina e con altre droghe.
Insomma, in questo senso, Morgan è stato davvero un cattivo maestro!
Un personaggio pubblico che voglia dichiarare i propri errori deve parlare con la verità, se parlando di essi voglia trasmettere un esempio positivo...
In assenza di questa volontà, allora è meglio il silenzio

mercoledì 10 febbraio 2010

Berlusconeide: negli endecasillabi di Carlo Laganà , un'enciclopedia ragionata sul Berlusconismo in chiave eroicomica


Mi sono ritrovato a sfogliare e a leggere con immenso piacere Berlusconeide,. Poema cavalieresco (Carlo Cornaglia, con Elio Laganà e con Vauro per le illustrazioni, Aliberti Editore, 2009.
Se volete divertirvi, prendetelo e sfogliatelo.
Veramente spassoso...
Da leggere a voce alta con gli amici, come passatempo "sociale" che, indubbiamente, potrebbe risultare molto meglio e ben più accattivante di un'insulsa serata davanti alla tivvù...

L'incipit (Canto I, 1)
Nel millenovecentotrentasei,
nel mese di settembre, il ventinove,

per la benevolenza degli dei
il mondo, tutto intero, si commuove


Grazie all'amore fatto col marito

dopo un breve travaglio, mamma Rosa

il primo figlioletto ha partorito,

prodigio per il quale andrà orgogliosa.


Quel giorno nasce Silvio Berlusconi,

uscito dalla pancia della mamma
con tre televisioni, sei mattoni

e due canzoni già sul pentagramma


Il frugolo è da subito speciale:

mentre la gente nasce in nove mesi,

questo predestinato eccezionale
per nascere metà solo ne ha spesi.

Per chi sarà poi l'Unto del Signore

con compiti di somma qualità,
dentro la mamma fare il corridore

e uscirne fuori a gran velocità


è certamente un segno del destino.


(....)
"Berlusconeide" è un poema comico, tragico, "cavalieresco" che, in forma di satira amara e spesso indignata, racconta la vita e le gesta del più grande eroe di tutti i tempi: Silvio Berlusconi.
La narrazione epica parte dalla nascita nella sua Milano nel 1936 e arriva fino ai giorni nostri, per concludersi in un futuribile e apocalittico 2013, anno della tanto agognata scalata alla Presidenza della Repubblica.

Conquistata attraverso il superamento di numerose e terribili prove e la sconfitta di temibili nemici, l'ascesa al Quirinale viene raccontata come una visione onirica del protagonista, una sorta di viaggio dantesco in un mondo immaginifico, ma non impossibile.

Il "poema" è costituito da ventitré "canti" nei quali si raccontano, in distici molto elegiaci, tutte le memorabili imprese del Cavaliere, a partire dalla sua nascita "meravigliosa" e dall'avere evidenziato sin da subito doti di grande portento, gli avvenimenti che l'hanno coinvolto, le trasgressioni, le offese alle leggi, al buon gusto e al vivere civile, le armi con cui colpire e gli strumenti di difesa dietro cui nascondersi.

Non si possono poi trascurare i consigli di ars amatoria elargiti in tanti decenni di glorioso cursus honorum.
Partendo dalle vicende di ogni anno, vengono anticipati, con una serie di rimandi al futuro, gli avvenimenti che accadranno negli anni successivi, in una sorta di flashforward che rende il racconto di viva attualità in ogni canto-capitolo.
Cosa che non guasta, alla fine del poema, è stato collocato un indice analitico dei personaggi, in modo tale che ogni lettore possa andare alla ricerca dei suoi preferiti e facilmente trovarli...

Il poema è preceduto da una bella prefazione di Filippo Ceccarelli che contestualizza il lavoro di Carlo Cornaglia, collocandolo nel filone dei poemi eroicomici, che prese piede nella Letteratura italiana a partire dall'inizio del XVII secolo, dopo il tramonto definitivo dei poemi epici e cavallereschi di cui "La Gerusalemme liberata" fu l'ultimo rappresentante significativo e di ampio respiro: la Berlusconeide è dunque poema eroicomico, burlesco e satirico, assieme.
I versi, suddivisinei 23 canti di cui si è detto, preceduti da un Proemio e conclusi da un Epilogo, come si conviene ad un poema rispettoso dei canoni, danno una copertura minuziosa ed enciclopedica delle imprese del Cavaliere Berlusconi, compresa la sua "vision" che è quella di vedere coronata la sua scalata alla Presidenza della Repubblica.
Elio Laganà, che Carlo Cornaglia ha incontrato nelle sue peregrinazioni in rete, ha strettamente collaborato nel migliorare la qualità degli endecasillabi, suggerendo di volta addolcimenti e limature sia dei contenuti sia dei versi, ma è anche autore di alcune note in rima che integrano il testo poetico.

Afferma Ceccarelli:
"La rivincita della parola. In rima, per giunta. Anzi di più: la nemesi dell'endecasillabo, il verso più nobile, Dante, Ariosto, Leopardi. La vendetta della poesia contro la civiltà dell'immagine, sonante trionfo sulle smargiassate retoriche e sul servilismo encomiastico che di norma accompagnano il Potere".
Il testo è ulteriormente arricchito dalle graffianti vignette di Vauro.

lunedì 8 febbraio 2010

Nel film di Verdone un missionario con crisi vocazionale alle prese con le follie della sua famiglia squinternata


Lascia un po' perplessi l'ultimo film di Carlo Verdone, Io, loro e Lara. Un po' lento nella prima metá, si vivacizza nel finale con una serie di spunti da commedia degli errori. Divertente ed originale l'idea di Verdone missionario in Africa con crisi vocazionale, anche se poi i soliti stilemi "alla Verdone" finiscono con il rendere il personaggio poco credibile e autentico.
Peraltro, la crisi vocazionale è solo il pretesto narrativo che fa sì che padre Carlo riallacci i rapporti con la sua famiglia dopo anni di assenza e di confrontarsi con situazioni del tutto "folli" che gli fanno desiderare di essere di nuovo in Africa tra le sue pecorelle.
Alcuni - molti - dei personaggi sono impigliati negli stilemi iperbolici della macchietta tragicomica (il padre ex-generale preda di un ringionavimento sensuale, il fratello cocainomane, la nipote e l'amica del cuore seguaci di mode insulse, i condomini benpensanti, i magnaccia) e si ride per le loro boutade, mentre i veri problemi rimangono appena accennati e sono ridotti a puro pretesto.
Il film é decisamente buonista nelle sue conclusioni, mentre la colonna sonora offre almeno due brani di sicuro effetto, perché - da soli - infondono pathos alla narrazione.
Tutto sommato, se se ne accettano i limiti, si tratta di un buon intrattenimento con un Verdone, ancora una volta valido interprete di se stesso, ma di cui - in filigrana - si intravede la stanchezza.

mercoledì 3 febbraio 2010

Tra breve, vedrà la luce in veste rinnovata "Il battello del delirio", un esempio singolare di narrativa horror-vampiresca


E’ in uscita, per i tipi della Gargoyle books il romanzo horror di George R. R. Martin, Il Battello del delirio (titolo originale: Fevre Dream, 1982), a suo tempo pubblicato in Italia da Fanucci (1994) e ormai da tempo introvabile in quell'edizione.
George Martin è stato un autore relativamente poco prolifico che si è incentrato soprattutto nella scrittura di una saga fantasy, Cronache del ghiaccio e del fuoco (“A song of Ice and Fire”), i cui primi quattro romanzi (diventati poi nove nell'edizione italiana) si sono imposti nel panorama letterario mondiale come best-seller.
Proprio il successo e la fama scaturenti dall’apprezzamento per questa saga hanno assicurato a Martin una posizione di rilievo e lo hanno consacrato come uno degli autori più apprezzati nell'ambito della letteratura fantastica.
Nella sua produzione essenzialmente di matrice fantasy, Il Battello del delirio si presenta in verità come un’anomalia, sia perché raprresenta un’incursione nella letteratura horror-vampiresca, sia per la sua contestualizzazione spazio-temporale decisamente insolita rispetto al genere: si svolge infatti sul Missisippi, attorno alla seconda metà del XIX secolo.
Si potrebbe quasi dire che, pur nel rispetto di alcuni stilemi del genere, il romanzo di Martin contenga un omaggio a Mark Twain, che - nei suoi scritti maggiori (basti pensare a Tom Sawyer e ad Huckleberry Finn) - ha dato ampio spazio al “grande fiume”, cioè al Missisippi), ma anche a Philip José Farmer, un autore che - pur considerato di science fiction - ha impresso un segno profondo nel fantasy con i romanzi che fanno capo alla saga del Mondo del fiume. Il battello del delirio risulta, peraltro sorprendentemente moderno se si pensa alla più recente saga di Pantera, frutto della fantasia di Valerio Evangelisti, anche lui un grande e prolifico contamininatore di generi.
La trama in breve
Siamo nella seconda metà del 19° secolo, il fiume Mississippi è solcato dagli “steamer”, le celebri navi a vapore caratteristiche dell’epoca (quelle che si muovono grazie a enormi ruote simili a quelle di un mulino ad acqua).
Abner Marsh è il proprietario di una compagnia navale, ma la sorte gli è decisamente avversa, poiché in seguito a numerosi incidenti si ritrova ad avere a disposizione un solo steamer, piuttosto malandato, di cui riveste anche il ruolo di capitano.
La fortuna sembra finalmente girare dalla sua parte quando fa la conoscenza con il misterioso Joshua York, ricco gentiluomo straniero che gli propone di entrare in affari con lui. York è infatti disposto a sborsare un ingente capitale per costruire il miglior steamer di tutto il Mississippi e metterlo a disposizione di Abner per i suoi affari; in cambio chiede solo di avere un posto a bordo e di poter effettuare qualche deviazione dalle rotte commerciali ogni qualvolta lo richieda, e senza dover dare spiegazioni di alcun tipo.
Abner è insospettito dalle condizioni poste da York, ma l’offerta è talmente buona che decide di accettare; sotto la sua supervisione viene costruita la “Fevre Dream”, la nave che Abner ha sempre sognato di avere ai suoi comandi, ed i due soci iniziano così la loro attività commerciale.
I sospetti di Abner verso il suo nuovo socio aumentano a causa di alcune insolite abitudini di York; egli infatti si fa vedere soltanto di notte, sostenendo di avere una rara malattia che non gli consente di esporsi al sole (e qui è facile capire dove si andrà a parare); York inizierà poi a chiedere ad Abner di effettuare delle deviazioni di percorso, a volte causando ritardi di interi giorni, a scapito dei profitti della società.
La situazione precipita quando Abner si accorge che in tutti i luoghi in cui York richiede di attraccare vengono commessi efferati omicidi, le cui vittime sembrano essere state dilaniate da una belva feroce. Abner si convince allora che, per quanto folle possa sembrare, il suo socio è in realtà un vampiro, e che sta sfruttando la Fevre Dream per compiere le sue malefatte notturne.
Martin ci propone un romanzo dalle tinte horror, raccontandoci una storia di vampiri piuttosto insolita, che si discosta completamente dai canoni "classici" del genere.
Il vampiro sui generis di Martin non è un non-morto incarnazione del male assoluto, ma semplicemente l’appartenente ad una razza che s’è evoluta parallelamente a quella degli esseri umani: secondo Martin vampiri si nasce, non si diventa.
Del resto, tuttavia, anche nelle storie tradizionali sui vampiri in cui "nuovi" vampiri vengono continuamente reclutati attraverso la contaminazione del morso attraverso cui il vampiro si nutre, esiste da qualche parte un "ur-vampiro", un vampiro capostipite, de,l quale nulla mai viene detto ma di cui si può intuire l'esistenza: e alcuni degli scirttori che si sono cimentati nel genere hanno tentato di tracciare, in taluni casi, il mistero delle origini del primo vampiro.
Per esempio, una "razza" di vampiri, esistente da sempre e di cui alcuni romanzieri - come Bram Stoker - non hanno fatto altro che rivelare la presenza nel mondo, senza nulla inventare, viene ventilata nel romanzo epistolare (in questo pienamente in linea con il canone) di Raymond Rudorff, Gli archivi di Dracula, in uscita nelle librerie per i tipi della Gargoyle Books il prossimo 11 febbraio.
In Martin, viene quindi a mancare tutta la componente "mitica" delle classiche storie di vampiri: niente croci o acqua santa, né tanto meno aglio a profusione per contrastare le creature notturne, o paletti di frassino o pallottole d'argento. Nel caso di questi vampiri "fluviali", solo la luce del sole ha effetto letale (oppure una salutare frantumazione della scatola cranica).
Tuttavia, non si sente affatto la mancanza di questi aspetti “folkloristici” della figura del vampiro, compensati ampiamente da una trama che giustifica in modo credibile e convincente l’esistenza di queste creature.
Peraltro, riveste delle caratterische interessanti la figura di Joshua York, insolito vampiro che cerca la convivenza pacifica con gli esseri umani, e la sua travagliata quanto profonda amicizia con Abner.
Con questo romanzo, scritto in una prosa ampia e scorrevole, così come è vasto il fiume in cui si sviluppa la perigliosa navigazione del Fevre Dream, Martin ci dimostra (come se ce ne fosse bisogno) di sapersi muovere egregiamente anche al di fuori dal contesto della fantasy più classica, mostrando anche di possedere una conoscenza sorprendente del background della sua storia.
Infatti, lo vediamo descrivere con grande precisione e credibilità la vita a bordo di una nave fluviale a vapore del 19° secolo.
I grandi autori si riconoscono anche da questo.

Nota biografica sull'autore
George Raymond Richard Martin (Bayonne, 20 settembre 1948) è un autore di fantascienza e di fantasy statunitense.
È famoso soprattutto per il ciclo Cronache del ghiaccio e del fuoco; inoltre ha lavorato come sceneggiatore e produttore.
Attualmente Martin vive a Santa Fé (Nuovo Messico). È membro del Science Fiction and Fantasy Writers of America (di cui è stato Direttore Regionale dal 1977 al 1979 e Vice Presidente dal 1996 al 1998) e del Writer's Guild of America.
Le sue opere sono state tradotte in tedesco, francese, italiano, spagnolo, svedese, olandese, giapponese, portoghese, croato, russo, polacco, ungherese, finlandese ed esperanto.

lunedì 1 febbraio 2010

Qui giace uno il cui nome fu scritto sull'acqua

La pietra tombale di John Keats
(Londra, 31 ottobre 1795 – Roma, 23 febbraio 1821)
a Roma.

Il grande poeta romantico John Keats, autore di poemi quali Endymion o The fall of Hyperion: a dream, morì di consunzione (come veniva indicata, a quei tempi, la tisi) il 23 febbraio 1821 a Roma alle 18.00 e venne sepolto nel Cimitero protestante di Roma. La sua ultima richiesta, espressa agli amici che lo assistettero sino al trapasso, venne rispettata ed è così che sulla sua lapide si legge solo il seguente epitaffio, commissionato dai suoi amici Joseph Severn e Charles Brown:
«This grave contains all that was mortal, of a YOUNG ENGLISH POET, who on his death bed, in the bitterness of his heart, at the malicious power of his enemies, desired these words to be engraven on his tombstone: Here lies one whose name was writ in water»
che tradotta in Italiano suona così
«Questa tomba contiene i resti mortali di un GIOVANE POETA INGLESE che, sul letto di morte, nell’amarezza del suo cuore, di fronte al potere maligno dei suoi nemici, volle che fossero incise queste parole sulla sua lapide: “Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua”»
John Keats nasce il 31 ottobre del 1795 nello Swan and Hoop Inn a Moorgate, sobborgo londinese figlio di Thomas e di Frances Jennings, primo di 5 figli: George Keats (28 febbraio 1797 - 24 dicembre 1841), Thomas Keats (18 novembre 1799 - 1° Dicembre 1818) , Edward Keats (28 aprile 1801 - 10 ottobre 1802), Frances Keats (3 giugno 1803 - 7 febbraio 1889).
Il locale si trova oggi a pochi metri dalla stazione ferroviaria e viene chiamato The John Keats. I primi sette anni di vita furono felici.
Il 16 aprile 1804, a soli 8 anni, cominciano le sue sventure con la morte del padre per un trauma cranico, dovuto ad una caduta da cavallo.
Sua madre si risposa subito con William Rawlings, ma abbandona velocemente il nuovo marito per trasferirsi con i figli presso sua madre Alice (morta il 19 dicembre 1814 )e il padre John (morto l'8 marzo 1805). Lì Keats frequenta la scuola che per la prima volta instilla l'amore per la letteratura. Il 10 marzo 1810 sua madre muore di tubercolosi e lo lascia con i suoi fratelli in custodia alla nonna.
Questa incarica due tutori di prendersi cura dei ragazzi che ritirano Keats dalla scuola, avviandolo all'apprendistato di chirurgia.
Nel 1814 a seguito di una lite con il suo maestro, lascia il suo apprendistato e diviene studente presso l'ospedale locale.
Durante quell'anno dedica sempre più tempo allo studio della letteratura. La sua introduzione alle opere di Edmund Spenser, in particolare The Faerie Queene, è il punto di svolta nello sviluppo poetico di Keats e gli ispira la sua prima poesia: Imitation of Spenser. Stringe amicizia con Leigh Hunt, poeta ed editore che gli pubblica il poema nel 1816. Nel 1817 Keats pubblica il suo primo volume di poesie, intitolato semplicemente Poems, che non riscuote particolare successo, principalmente per il collegamento del nome di Keats con quello controverso di Hunt.
Nell'estate del 1817 Keats si trasferisce sull'Isola di Wight per lavorare alle sue opere. Gli viene affidato suo fratello Thomas che soffre anche lui di tubercolosi. Terminato il suo poema epico Endymion Keats parte per un'escursione in Scozia ed in Irlanda accompagnato dal suo amico Charles Brown. Durante il viaggio presenta i segni dell'infezione da tubercolosi e deve rientrare in anticipo. Al suo ritorno trova le condizioni del fratello aggravate. Inoltre Endymion al pari di Poems è stato stroncato dalla critica. Il 1° Dicembre 1818 Tom Keats muore di tubercolosi e John si trasferisce nella casa di Brown a Londra.
Là incontra Fanny Brawne, che era ospitata insieme alla madre dai Brown. Keats si innamora rapidamente di Fanny, che però non sposa a causa delle sue condizioni economiche poco agiate e della sua salute precaria. La pubblicazione postuma della loro corrispondenza scandalizzerà la società vittoriana.
La sua relazione viene troncata quando nel 1820 la salute di Keats peggiora. Su suggerimento dei suoi medici si lascia alle spalle la fredda aria di Londra e si trasferisce in Italia, invitato da Percy Bysshe Shelley, con il suo amico Joseph Severn.
Per un anno le sue condizioni sembrano migliorare, ma la sua salute alla fine peggiora.La più valida produzione poetica di Keats si situa tra la primavera e l'estate del 1818 ed include Ode to Psyche, Ode on a Grecian Urn e Ode to a Nightingale.

« Non ebbi una disputa, ma una disquisizione con Dilke su vari soggetti; parecchie cose si sono biforcate nella mia mente e all'improvviso compresi quali qualità vadano a formare un Uomo di Successo, particolarmente in letteratura, e che Shakespeare le possedette così largamente - intendo la "Capacità Negativa", cioè quando un uomo sia capace di rimanere in incertezze, Misteri, dubbi senza alcun irritante raggiungimento a seguito di fatti e raziocinio.
(Lettera a George e Thomas Keats)

Keats credeva che i grandi uomini (specialmente i poeti, che egli considerava quasi su un altro livello rispetto al resto dell'umanità) avessero l'abilità di accettare il fatto che non ogni cosa potesse essere risolta - essendo in grado di mantenere un atteggiamento negativo e credeva che la verità non risiedesse nella scienza o nel ragionamento filosofico, ma nell'arte.

Nell'arte lo scopo non è, come nella scienza, risolvere problemi, ma piuttosto esplorarli. Di lì, l'accettare che possa non esserci una soluzione a problemi Keats espresse quest'idea in diverse sue poesie: La Belle Dame sans Merci: A Ballad (1819), Ode to a Nightingale (1819), The Fall of Hyperion: A Dream (1819)

 
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