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mercoledì 5 gennaio 2011

Nel "concept book" di Susanna Cantore il mistero degli ultimi giorni di Caravaggio


Susanna Cantore, nella sua recente opera narrativa, "All'ombra di Caravaggio. Ipotesi narrativa sugli ultimi giorni di Michelangelo Merisi" (effequ, 2010) intesse liberamente in forma narrativa una sua ipotesi sugli ultimi giorni del Caravaggio, la cui verità storica è rimasta avvolta nel mistero.
Michelangelo Merisi, detto Caravaggio (1571-1610), ebbe una vita breve e tempestosa. Introdusse nella pittura del tempo, retta da alcuni canoni rigidi, una propria cifra personalissima ed autobiografica, anticipando di secoli il libero manifestarsi nelle opere artistiche della soggettività con i turbamenti, i conflitti interiori e le emozioni dell'Autore. In questo senso, Caravaggio è un pittore dell'ombra, poichè nel realizzare qualsiasi opera gli venisse commissionata, egli non poteva fare a meno di travasare se stesso nel soggetto rappresentato, totalmente e in maniera tempestosa, ma lo è anche poichè è come se la luce che illumina le sue scene, accendendole di cromatismi crudi e contrastati, scaturisca dal buio.
Non a caso, il breve romanzo della Cantore è introdotto con un'epigrafe che cita Giordano Bruno: "La natura non tollera un immediato passaggio da un estremo all'altro, ma solo con la mediazione delle ombre. L'ombra prepara la vista alla luce. L'ombra temepera la luce (...). Impara quindi a riconoscere quelle ombre che non dissolvono, ma preservano e custodiscono in noi la luce, e dalle quali siamo sospinti e condotti all'intelligenza e alla memoria".
Secondo quei critici che hanno analizzato la vita e le opere di Caravaggio con l'ausilio di categorie psicologiche, egli viveva e agiva sotto l'egida della violenza e dell'impulso, trovandosi nella sua vita a fronteggiare non pochi problemi soprattuto dopo l'uccisione a Roma, a seguito di un banale litigio, di Ranuccio Tomassoni appartenente ad un'influente famiglia filospagnola.
Condannato a morte, si mise in fuga e, grazie all'appoggio di alcuni potenti (la famiglia Colonna), benché costantemente inseguito da alcuni sicari, risiedette a Napoli, in Sicilia e a Malta, disseminando molte sue opere nei diversi luoghi del suo esilio. Nel 1610 fece ritorno in Italia e, febbricitante forse per la malaria, si ritrovò a sbarcare a Porto Ercole in Toscana, città al tempo situata nello Stato dei Reali Presidi di Spagna. Secondo la storia biografica, il perdono tanto agognato da parte del Pontefice era arrivato ed egli si accingeva a rientrare con piena legittimazione nei territori pontifici.
Erroneamente arrestato, venne abbandonato dalla nave che lo aveva trasportato. Rilasciato, cercò di raggiungere Roma a piedi ma, a poca distanza da Porto Ercole, sulla spiaggia (o nella pineta retrostante) morì.
Il suo corpo non venne più ritrovato.
Non esistono allo stato attuale documenti attendibili sulla sua morte.
Il romanzo della Cantore propone appunto un'ipotesi "narrativa" sugli ultimi giorni di vita di Caravaggio, ipotizzando un incontro timido (fatto più che di altri di silenzi e di non detti) con una suora del Convento di Porto Ercole che si ritrova a curare quest'uomo febbricitante, senza sapere nulla della sua identità e che, essa stessa pittrice in erba, raccoglie alcune briciole del mistero degli ultimi anni della vita tormentata del grande pittore.
L'ipotesi narrativa è centrata su di un personaggio femminile, una donna che - come si usava a quei tempi - aveva dovuto votarsi alla vita in convento, pur mantenendo delle aspirazioni di grande ed intensa vitalità. In questo senso, l'opera della Cantore vuole essere anche un grande tributo anche alla Donna che, nella storia, ha dovuto rassegnarsi spesso al ruolo di "ombra" della creatività maschile.
"Mi capita spesso di pensare - scrive l'Autrice - a quanto le donne siano in genere solo sfiorate dalla storia, a quante donne qualsiasi si siano trovate per caso sulla strada di altrettanti uomini famosi o 'transitate' nel bel mezzo di fatti importanti, senza neppure rendersene conto.
Sono poche le donne ricordate e innumerevoli quelle dimenticate. Mi piaceva rendere un piccolo merito a tutte quelle che non hanno fatto la storia perchè non hanno potuto, e che hanno accettato il ruolo di 'ombre', rispecchiandosi in qualche modo negli uomini casualmente incrociati nella loro vita, uomini che avevano avuto la possibilità di studiare o di agire. Liberamente.
Mi piaceva pensare che, nei suoi ultimi giorni, Caravaggio si fosse trovato ad essere assistito da una donna di cui si è persa la memoria.
E' nata così la suora del convento di Santa maria Ausiliatrice (da "Nota dell'autrice", pp 58-59)
Sempre nell'intendimento d'un omaggio al ruolo misconosciuto della Donna nella storia e nell'arte, alcuni versi di Vittoria Colonna (una delle poche che, nella Poesia del tempo riuscì ad emergere), scandiscono la narrazione.
Porto Ercole, luglio 1610. Michelangelo Merisi sbarca da una feluca. È divorato dalla febbre. Non lo sa ancora, ma morirà qui all'Argentario. Accanto all'ultima delle persone che avrebbe immaginato di frequentare: una donna particolare, sensibile, fragile e forte nello stesso tempo, un'artista come lui, confinata in un convento dalle convenzioni dell'epoca, una "ladra" di esperienze. Che non potrà fare a meno di tenere per sé l'ultimo capolavoro del maestro, neppure di fronte alle pressioni del tribunale dell'inquisizione. Ecco gli ultimi giorni di Caravaggio raccontati da una suora successivamente accusata di eresia.
L'opera di Susanna Cantore è a tutti gli effetti - se così si può definire - un "concept book", dal momento che accanto al contenuto narrativo, nella successiva sezione titolata "contenuti speciali", viene offerta al lettore curioso una veloce, ma esauriente, cronologia delle vita e delle opere di Caravaggio, una esemplificazione (nella prima e nell'ultima di copertina) delle opere di Andrea Angione che ha riprodotto fotograficamente alcune soggetti di Caravaggio, utilizzando come modelli gente della strada, come il clochard Tomo che interpreta San Girolamo, e un breve saggio critico di Ersilia Agnolucci, dal titolo "Dall'artista di ieri all'artista di oggi.L'uso del modello caravaggesco nelle opere di Andrea Angione" che serve a illuminare l'opera di un artista contemporaneo che, con tecniche moderne (la fotografia), ritorna a Caravaggio, sia per l'uso dell'ombra e della luce, sia nei temi rappresentati e nella scelta dei soggetti.

L'autrice

Susanna Cantore, insegnante, si è laureata in lettere moderne con indirizzo di storia del teatro rinascimentale. Ha pubblicato saggi di storia del teatro per Sansoni e una ricerca storico documentaria per la regione Toscana sui teatri storici della provincia di Grosseto.

Si è a lungo occupata di teatro anche nella scuola e negli ultimi dieci anni per la compagnia teatrale di cui fa parte ha scritto e interpretato i due testi: "I labirinti della Grande Madre" e "Un brodo di falco per il Maestro" (Quando Puccini era in Maremma), oltre ad adattamenti teatrali da narratori classici e contemporanei. Con effequ ha pubblicato il racconto lungo All’ombra di Caravaggio (ipotesi narrativa sugli ultimi giorni di Michelangelo Merisi), oltre a due guide d’autore con illustrazioni proprie (Orbetello – Natura e storia della città sull’acqua e Parco naturale della Maremma – Pianta e guida). Ha inoltre curato le illustrazioni per la guida Montare alla maremmana, e ha partecipato alle due raccolte di narrativa La musica del vino e La voce dei matti con i due racconti storici Annata 1859 e I lumi della ragione.

sabato 18 dicembre 2010

Con “I maledetti e gli innocenti”, Francesco Viviano e Alessandra Ziniti firmano un romanzo sulla pedofilia ispirato a una storia vera


Nel diario di un cinquantenne, sequestrato in Sicilia durante un’indagine sulla pedofilia, è documentato l'abuso sessuale sui minori, prima subìto e poi perpetrato nel corso di un’intera vita.
Da questo documento messo agli atti di un processo, Francesco Viviano e Alessandra Ziniti, già noti al grande pubblico per inchieste giornalistiche di grande spessore, hanno tratto spunto per firmare il romanzo ‘I maledetti e gli innocenti’, pubblicato da Aliberti Editore nella collana Yahoopolis diretta da Edoardo Montolli (2010).
E’ un romanzo che, nato come “instant book (ma senza le sciatterie che contraddistinguono, in genere, i libri istantanei), affronta un argomento di scottante attualità, che ha sconvolto e che, purtroppo, continua a sconvolgere la vita di tanti giovani in tutte le parti del mondo, giovani che, a volte, da vittime si trasformano in carnefici, da innocenti in maledetti.

Francesco Viviano e Alessandra Ziniti, noti per le loro ottime prove di giornalismo d'inchiesta, con questo romanzo-verità propongono - a partire da una storia vera e dal diario di un pedofilo messo agli atti d'un procedimento giudiziario - una riflessione sulla pedofilia che, per come è articolata la narrazione, offre al lettore la possibilità di osservare le cose da un duplice vertice. Il punto di vista del pedofilo (l'Enzo Gastaldi del plot narrativo, ex-seminarista e poi insegnante a domicilio per i ragazzini del vicinato e del quartiere) che prima di diventare tale è stato a sua volta una "vittima", cui fa da contraltare lo sguardo d'una vittima di Enzo (Milena che, da ragazzina, era stata oggetto delle attenzioni di Enzo).

Il Pedofilo, esecrabile perché miete le sue vittime tra ragazzini innocenti che non hanno possibilità di difendersi, è il parto di un meccanismo senza fine che è molto difficile smontare: il racconto ci mostra come un pedofilo non nasce per caso, ma si configuri attraverso una serie di passaggi che, pur potendo presentarsi con molte varianti, sono in certo modo obbligati. Un soggetto che da adulto diviene pedofilo (e, dunque, un "maledetto" e un "tormentatore" di bambini, di ragazzini/e e, in ogni caso, di minorenni), in tenera età, è stato fatto oggetto, a sua volta, delle concupiscenze d'un adulto pedofilo.

Non tutti i bimbi che hanno subito una tale sorte sono destinati a diventare a loro volta pedofili, ovviamente: altri reagiscono alle forme di abuso patite in altri modi, imparando a sviluppare meccanismi psichici difensivi che metteranno a repentaglio il loro futuro evolutivo oppure semplicemente rimuovendo i ricordi più penosi che potrebbero essere recuperati all'improvviso e traumaticamente, come nel caso della Milena della storia.
Nello stesso tempo, quando si tratta questa materia bisogna rifuggire il rischio di cadere in rappresentazioni stereotipate (e di tipo rigidamente binario), frutto di ignoranza e di pregiudizio.
Ciò che impressiona della storia di Viviano e Ziniti è proprio questo: a differenza dell'adulto violento nei confronti dei minori, il pedofilo immette nella sua vittima un veleno sottile e insidioso che sarà molto difficile da eliminare e che svilupperà in seguito una sua azione specifica.
Il “veleno” instillato nella giovane mente innocente, ancora in fase di latenza dal punto di vista psicosessuale o appena all’esordio dell’esplosione adolescenziale, attiva in maniera anomala livelli di eccitazione scaturenti dalla sovra-stimolazione delle zone erogene, senza che questa tempesta sensoriale possa essere sufficientemente elaborata ed inglobata armonicamente nell’organizzazione della personalità e con la funzione strutturante di educazione e cultura.
Questo è appunto uno dei meccanismi più potenti che porta alla perpetuazione della pedofilia. L’innocente, man mano che si trasforma in adulto, tenderebbe a ricercare attivamente proprio quelle forme di eccitazione sperimentate, quando la sua mente e il suo cervello emozionale erano ancora “vergini”, e – spinto dalla sua pulsione – è capace di coinvolgere abilmente nuove “vittime”, perché – sulla sua pelle – ha imparato come fare, essendo rimasta dentro di lui una memoria potente ed inestinguibile dei meccanismi di seduzione e di “deviazione” da utilizzare in ogni nuovo approccio, con una sostanziale debolezza dei freni morali nel prevalere di un bisogno di soddisfacimento sentito come ego-sintonico.
Il circuito, tuttavia, può essere interrotto, se solo la vittima innocente di ieri, candidata a divenire pedofilo nel suo domani, favorito dalle sue circostanze di vita riesce ad acquisire consapevolezza dell’anomalie delle sue pulsioni, attivando al contempo dei freni morali che lo distolgano dall’ineluttabilità della ripetizione di un’azione complementare rispetto a quella subita nel suo passato.
In alcuni casi l’esposizione al trauma iniziale è stata così massiccia e le circostanze di vita tanto avverse sono state così massicce da impedire lo svilupparsi di un benché minimo barlume di consapevolezza.
In questo senso, il romanzo-inchiesta dei due giornalisti offre una rappresentazione del fenomeno della pedofilia non convenzionale e fuori degli schemi che, in una certa misura, può indubbiamente spiazzare ed inquietare il lettore che viene a trovarsi davanti ad una scrittura in cui la divisione tra “innocenti” e “maledetti” non è così netta come si vorrebbe, a scopo di mera rassicurazione.
Tra le “soglie” del romanzo non è convincente, tuttavia, la sovrascritta nella parte alta della prima di copertina della frase “Nelle pagine di un religioso il più ignobile dei peccati”, inserita per motivi più di tipo commerciale e per attivare la curiosità morbosa del potenziale lettore.
Il protagonista della vicenda, Enzo Gastaldi, infatti, non è né un prete e nemmeno un ex-prete, ma soltanto un ex-seminarista poi tornato alla vita laica senza aver preso i voti, come accade a tanti di essere mandati in seminario dai genitori per risparmiare sulle spese scolastiche. E, in ogni caso, le sue esperienze di iniziazione sessuale omofila da parte di un adulto avvengono ben prima dell’ingresso in seminario.
“I maledetti e gli innocenti” non è di lettura agevole, proprio per la natura dell'argomento e, indubbiamente, si procede a fatica. Non perchè sia scritto male. Tutt’altro. Ma non è bello dovere scendere nel maelstrom dell'anima di un uomo, nel cui percorso di crescita esperienze precoci hanno radicalmente eroso alcuni punti di riferimento fondamentali, impedendo lo strutturarsi di corrette direttive morali.

La storia più nel dettaglio
Il titolo di un giornale, relativo all’arresto del “pedofilo del doposcuola”, risveglia nella protagonista, Milena, felicemente sposata e madre di tre figli con una vita del tutto normale fatti accaduti durante la sua infanzia e che lei sperava, completamente dimenticati. Quella notizia appresa casualmente fa riaffiorare alla sua coscienza un passato del tutto dimenticato e, per l’appunto del tutto “passato”. Quello che riemerge in lei è il trauma rimosso di un’infanzia violata, un segreto mai condiviso con nessun altro.

«Impallidii e chiusi di scatto il giornale scagliandolo con un gesto rabbioso lontano da me. Che diritto aveva, trent’anni dopo, di tornare nella mia vita, adesso che ero una donna serena, sposata con un uomo che mi aveva dato amore e fiducia, con tre figli che erano il mio orgoglio e la mia rivincita?»
«Il pedofilo del doposcuola. Solo il titolo dell’articolo mi causò un violento conato di vomito che mi costrinse a sedermi al tavolo della cucina. Per fortuna che Daniele, mio marito, era uscito per andare in università e che i ragazzi erano tutti fuori, Marco e Andrea alla solita partitella di calcio e Sofia, la piccolina, a giocare da un’amichetta. Mi costrinsi a leggere l’articolo che raccontava dell’arresto di quel mostro che conoscevo così bene».
Enzo Gastaldi, di umili origini, ex-seminarista, impiegato modello, arrotondava lo stipendio dando lezioni ai ragazzini del quartiere. Poi nel corso del tempo, aveva iniziato a servirsi della tecnologia contemporanea: foto, riprese video, internet e, a tradirlo, ormai cinquantenne è stata proprio la rete, dove è stato intercettato dagli investigatori del Nucleo telematico.
Milena , nel leggere l’articolo sul giornale, si trova a rivivere il trauma della sua infanzia violata, ma desiderosa di ricordare tutto, fare finalmente chiarezza, chiudendo definitivamente con una parte dolorosa del suo passato, decide di andare a fondo.
Ritorna nello stabile, dove da piccina abitava con la madre e utilizzando una vecchia chiave di riserva che, secondo le regole del buon vicinato, l’Enzo Gastaldi aveva affidato loro (per eventuali emergenze), entra nell’appartamento che era stato teatro della sua precoce iniziazione e va alla ricerca di una scatole contenente – come sapeva già – i ricordi più preziosi di Enzo e un suo diario.
La scatola custodita nel ripostiglio di una armadio contiene lettere, foto, una ciocca di capelli, una collanina con una croce d’argento, un Vangelo con la dedica di un sacerdote, il campanello arrugginito di una bicicletta, un soldatino di piombo, delle conchiglie e un quaderno, avvolto in carta da pacco dello stesso color legno del mobile.
Il diario di Enzo Gastaldi, in cui è lui in persona a raccontare, capitolo dopo capitolo, le sue esperienze di bambino e di adulto, inclusa l’iniziazione di Milena, illustra il percorso da innocente a maledetto.
Milena legge, a fatica e con dolore, lasciando per ultimo il capitolo che la riguarda. Quello lettura sarà il disvelamento finale di un aspetto perturbante, proprio perché rimosso a lungo della sua storia personale. La lettura del diario e, in retrospettiva, del frammento di storia che la riguarda avrà per Milena una funziona catartica e terapeutica che le consentirà di archiviare il passato una volta per tutte.

Gli autori
Francesco Viviano, inviato di «Repubblica», ha seguito tutti i maxiprocessi di mafia, analizzando l’evoluzione di Cosa nostra dalle stragi a oggi. Inviato in Iraq e in Afghanistan, è stato insignito di numerosi riconoscimenti e nominato “Cronista dell’anno” nel 2004, 2007 e nel 2008. Per Aliberti ha pubblicato Michele Greco, il memoriale (2008), Mauro De Mauro. Una verità scomoda (2009), Morti e silenzi all’università (2010) e I misteri dell’agenda rossa (2010)
Alessandra Ziniti, inviata di «Repubblica», ha seguito tutte le grandi inchieste di mafia e di cronaca in Sicilia. Insieme a Francesco Viviano ha vinto il premio Cronista dell’anno nel 2008 e sempre con lui ha pubblicato per Aliberti Morti e silenzi all’università. Il laboratorio dei veleni (2010) e I misteri dell’agenda rossa (2010).

lunedì 13 dicembre 2010

L'abbraccio, potente antidoto della solitudine


Un abbraccio è un gesto volto ad esprimere affetto o amore, consistente nello stringere le braccia e le mani attorno al corpo di un'altra persona.
Si tratta di una delle forme di effusione più diffuse fra gli umani, insieme al bacio.
Rispetto a quest'ultimo, però, viene di norma considerato un'espressione di generico affetto, tanto è vero che nella maggior parte delle culture e società può essere praticato indifferentemente fra familiari e amici, oltre ovviamente che fra amanti, senza limitazioni di sesso o di età e tanto in pubblico quanto in privato senza incorrere in alcuna forma di stigmatizzazione o riprovazione sociale.
In generale, un abbraccio può rappresentare un'effusione romantica o una generica forma di affetto verso una persona, ad esempio un modo per manifestare gioia o felicità nell'incontrare o salutare qualcuno. Alternativamente, un abbraccio può essere volto a confortare o rincuorare qualcuno.
In definitiva, si tratta di un gesto che esprime affetto in una vasta gamma di gradi.
Esistono evidenze scientifiche secondo le quali gli abbracci avrebbe un effetto benefico a livello fisiologico: alcuni studi avrebbero infatti dimostrato come essere abbracciati aumenti il livello di ossitocina e abbassi contemporaneamente la pressione sanguigna.
Pur essendo particolarmente diffuso fra gli esseri umani, l'atto di abbracciare non è esclusivo di questa specie, in quanto sono state osservate forme equivalenti di questa effusione fra diversi mammiferi, specialmente fra le scimmie antropomorfe, tra le quali è un elemento importante per la coesione sociale, come anche il grooming ampiamente descritto dagli etologi, cioè l'operazione di spulciamento reciproco.
Sul tema dell'abbraccio è uscito di recente il delicato e profondo libretto scritto da David Grossman, corredato dalle splendide ed eteree illustrazioni di Michal Rovner (Mondadori, 2010).
E' un breve, folgorante apologo sulla solitudine e sull'amore, scritto da uno dei più amati autori della grande letteratura contemporanea, e illustrato con i disegni di Michal Rovner, un'artista nota in campo internazionale, che ha esposto anche al Madre di Napoli e di cui è in allestimento una personale al Jeu de Paume di Parigi.
Piccolo libro, elegante e raffinato, L'Abbraccio è quasi un dono di David Grossman ai suoi lettori, perché ne facciano a loro volta dono alle persone che amano.

L'individulaità e l'unicità di ciascun individuo presuppongono la solitudine.
Come fare a superare la solitudine indistricabilmente scaturente dalla consapevolezza dell'unicità di se stessi come singolo individuo?
Una madre, camminando con il proprio figlio, gli dice che lui è unico. Il bambino le risponde che questa unicità lo spaventa, perchè lo fa sentire solo e, a sua volta, chiede alla mamma, se anche lei sia unica e se questa consapevolezza non la faccia sentire sola.
Anche le formiche a prima vista così uguali, sono uniche secondo la mamma.

Il bambino con una sua logica stringente ribatte che se tutti sono unici, allora tutti sono soli.
La mamma gli dice che questo è vero: anche lei è unica e sola come lui, ma se si abbracciano non sono più soli.

"Allora abbracciami", dice il bambino. La mamma allora lo stringe a sé, sentendo il cuore del bambino battere forte e lasciando che lui potesse sentire di rimando il suo.
"Adesso non sono più solo"
si disse il bambino.
E così la madre gli spiegò che era per questo che era stato inventato l'abbraccio.

Noi contemporanei ci siamo dimenticati della potenza e dell'intimità di un abbraccio
Un esperto di piscologia della coppia asserisce che, oggi, molti non sono più in grado di abbracciare (e soprattutto di mantenere a lungo l'abbraccio), perchè non riescono a reggere l'intensità della comunicazione non verbale e il grado di intimità che, proprio attraverso l'abbraccio, si realizzano.
L'abbraccio è un modo di stabilire un contatto, consolidando il senso di unione e di appartenenza, a prescindere dalla dimensione dell'Eros (che non ne è l'unica componente, anche se ne costituisce l'humus fertile, considerando l'Eors nel senso più universale possibile).
Il inguaggio dell'abbraccio è veramente universale.
L'apologo di Grossman ci riconduce a questo significato primigenio dell'abbraccio, riallacciandosi senza volerlo al movimento dei "free hugs", inventato dall'australiano Juan Mann che cominciò a mettere in pratica la libertà di ricevere e dispensare abbracci "gratis" (free hugs, appunto).
Chi ha praticato i free hug può testimoniare che si tratta di un'esperienza davvero intensa (ed anche gratificante), sia per chi dispensa gli gli abbracci, sia per chi li riceve, proprio perchè nell'abbraccio c'è una totale reciprocità e si attiva un dono scambievole, se soltanto si riesce a venir fuori dalle interpretazioni monocordi, monolitiche e sostanzialmente prive di fantasie dell'immaginario televisivo, omologante e piatto.


Dal sito Free Hugs. Abbracci liberi. La libertà di regalare abbracci
(liberamente modificato).
A volte ricevere un abbraccio è tutto ciò che ci serve. “Free Hugs” (abbracci gratis. ma anche liberi) è la reale e controversa storia di un ragazzo australiano: Juan Mann, un uomo ed il suo obiettivo, l’unico ed importante, quello di raggiungere una persona sconosciuta ed abbracciarla, illuminando e portando gioia alla vite di entrambi.
In questa epoca di separazioni sociali e di mancanza di contatti umani gli effetti della campagna di abbracci liberi lanciata da Juan Mann sono sensazionali. Mentre Juan Mann, icona di una nuova umanità, spargeva la speranza per la città, la polizia e l’amministrazione pubblica vietarono la campagna per la diffusione degli abbracci.
Quello che successe poi e di cui siamo testimoni rappresenta la vera essenza di una umanità che si unisce, unione che diventa un’onda e che si diffonde per il mondo divenendo fonte di ispirazione e di crescita.
Furono raccolte 10,000 firme per chiedere di annullare i divieti, e il 22 settembre 2006 il filmato sugli abbracci di Juan Mann fu messo on-line su youtube, raggiungendo in un mese il tetto di ben 4 milioni di download.
Tanti presero ad emularlo ed il movimento dell' “abbraccio libero” si diffuse nel il mondo.

Chiunque, volendolo, puà diventare un "freehugger", scendere per strada a liberare abbracci, liberando se stesso abbracciando.
In fondo, se si riuscisse a condividere anche un solo abbraccio, ciò sarebbe un grandissimo dono che si fa e si riceve… e il mondo sarebbe sicuramente migliore.

Il libro di Grossman si innesta proprio in questo filone di pensiero, fornendone una rappresentazione delicata e poetica.

mercoledì 17 novembre 2010

In Bloody Mary la denuncia delle" nuove" schiavitù: lavoranti extracomunicatori dei campi e del sesso,entrambi trattati con metodi inumani


Bloody Mary (di Marco Vichi, Leonardo Gori, Einaudi 2010) era già stato pubblicato nel 2008 per le Edizioni Ambiente, Collana VerdeNero, una collana che una serie di brevi romanzi "concept" o mini-raccolte di racconti "tematici", tratti da spunti relativi ai crimini ambientali perpretati dalle cosiddette ecomafie. Ognuno dei volumi della collana che oggi vanta già una ventina di titoli, per dare al lettore la posibilità di documentarsi, segue a mo' di postfazione un breve scritto intitolato "I fatti" che fornisce una cornice di decodifica sui fatti reali cui nel romanzo o nei racconti ci si riferisce.
Bloody Mary è un breve romanzo, denso e scorrevole al tempo stesso che tratta di due destini apparentemente separati, di due parabole di vita, una originata (è la storia di Aleya) dal profondo Sud (dal Niger, per l'esattezza) e l'altra (con le vicissitudini di Marek) dalla fredda Europa del Nord (la Polonia di Cracovia): per gran parte della narrazione si tratta di due destini separati e di due storie diverse, ma accomunate da molte affinità che, ad un certo punto, per puro caso si intrecciano.
E l'inatteso convergere ad aprire nei due protagonisti degli orizzonti di speranza, lasciando spazio ad un empito di libertà.
Tuttavia, questa volta i “fatti”, relativi alle attività delle “ecomafie”, (l'interramento dei rifiuti tossici non trattati nei campi destinati alle colture), toccano soltanto tangenzialmente il nucleo più profondo della storia che affronta con durezza il tema delle “nuove schiavitù” e del traffco immondo e bieco di esseri umani all’insegna del profitto.
Il polacco Marek con la sua storia rappresenta in maniera emblematica i nuovi schiavi la cui mano d'opera consente ai big della distribuzione commerciale agro-alimentare di tenere bassi i prezzi al consumo, riuscendo comunque ad avere margini di guadagno importanti. Aleya, invece, bellissima e desiderata, dà voce con il suo racconto al corteo di sventurate che vengono tratte in schiavitù per essere immesse nel mercato del sesso a pagamento, tenute in ostaggio e spogliate scientemente e con metodo di qualsiasi dignità umana.
Il romanzo è davvero ben costruito sino all’inaspettato - e tristissimo - finale in “noir”.
Il "bloody mary" del titolo che si riferisce, ovviamente, al noto cocktail a base di superalcoolici e succo di pomodoro, rimanda quindi, al rosso sangue del pomodoro, la cui raccolta viene effettuata nel SUD d'Italia, avvalendosi di mano d'opera straniera il più della volte costituita da extracomunitari (giunti per vie clandestine) e tenuti in ostaggio dai "caporali" quasi fossero schiavi (e pagati a prezzi da fame, con una serie di tangenti espunte dalla paga giornaliera).
Il poco denaro che riescono a prendere da questo improbo lavoro è al prezzo di sudore e sangue...

Sintesi dalla quarta di copertina
Marek arriva da Cracovia. Educato, bravo figliolo, diploma appeso al muro che vorrebbe prendere a sputi, per quanto è inutile. E partito con il miraggio del lavoro sicuro in Italia: poco importa che sia la raccolta di pomodori, non disdegna certo il lavoro dei campi. Non sospetta lo sfruttamento estremo, la fatica che distrugge, i traffici nauseanti. Aleya invece non ha potuto fare nessuna scelta mentre diventava ragazza in un villaggio nigeriano. Troppo bella per passare inosservata, dunque violentata, rapita e scaricata sulle coste italiane come bestiame da piacere. Dai bordelli di lusso giù fino alla strada. Due giovanissimi, due storie opposte. Il loro incontro innescherà un incendio.

sabato 13 novembre 2010

In "Mano Nera", il balcanico turbo-noir di Custerlina, le vicissitudini della Haggadah, il libro della fratellanza tra fedi ed etnie diverse

Mano Nera (Alberto Custerlina, B.C.Dalai, 2010), per definizione data dallo stesso autore (in un post su "turbo folk - "turbo noir", consultabile nel suo sito web), sua opera seconda, è un "turbo noir", un noir cioè ad ambientazione balcanica e impregnato della concitazione e delle tinte forti e sanguigne proprie del genere musicale balcanico, detto appunto "turbo folk", che rappresenta gli umori popolari e i gusti di quelle genti dai tempi del famigerato Arkan in avanti.

L'intreccio di Mano Nera è semplice: l'omonima organizzazione criminale decide di trafugare la Haggadah, un antico libro custodito in un Museo di Sarajevo e reputato dai popoli balcanici simbolo della tolleranza religiosa e della fratellanza tra etnie di fedi religiose diverse. Lo scopo di tale "rapimento" è quello di far sì che un gruppo religioso si schieri contro l'altro, ritenendolo responsabile del furto, e che si attivino nuovamente le faide e i conflitti etnici con giovamento dei traffici illeciti della stessa organizzazione.
Forze apparentemente avverse lottano per impedire un simile epilogo e per ricondurre il rispettato e venerato Codice nella sua sede naturale a far da garante, con il suo esserci, della pace tra le diverse genti.
La let­tura del romanzo, con la sua nar­ra­zione ser­rata e avvin­cente con per­so­naggi cre­di­bili e trat­teg­giati impres­sio­ni­sti­ca­mente — quasi a unghiate — ma “tri­di­men­sio­nali” e per­fet­ta­mente calati nel con­te­sto, è godibilissima, anche per un lettore colto, visto lo spessore dei riferimenti storici e culturali (basta cercare in internet la voce "Haggadah", per rendersene conto).

La Hag­ga­dah di Sarajevo, il libro rubato dalla Mano Nera e custo­dito nel Museo nazionale della Bosnia-Erzegovina, è impor­tante per­chè è il sim­bolo della tol­le­ranza e, proprio per questo, ha valore per tutti e non deve essere posseduto da nessuno.

E' un libro ebraico di cerimonie, che contiene una collezione di storie bibliche, di preghiere e di salmi che riguardano la Pesach, la festa che celebra la liberazione degli ebrei dall'Egitto. Al mondo esistono tantissime haggadah, più o meno preziose e conosciute. L'Haggadah di Sarajevo è considerata di valore inestimabile, sia per la sua antichità (oltre 600 anni), sia per la bellezza delle sue immagini, per i colori arricchiti con oro e rame, per il fantastico mondo degli animali che vi sono rapprresentati, per gli ornamenti floreali e geometrici, ma anche perchè possiede la particolarità di mostrare immagini di persone, nonostante la religione ebraica lo vieti. Il manoscritto si distingue anche per alcuni concetti insoliti, come ad esempio, quello di immaginare la terra come rotonda. Ciò accadeva duecento anni prima che Giordano Bruno venisse mandato al rogo perché sosteneva una simile, eretica teoria.
Nel corso dei bombardamenti, durante l'assedio di Sarajevo, furono fatti diversi tentativi di devastare il Museo che la custodisce, per distruggerla proprio perchè la continuità della sua esistenza, pe il suo valore simbolico, rappresentava un ostacolo per i fomentatori di discordie.

La storia si dipana con un ritmo incalzante, che non con­sente al lettore di tirare il respiro, quasi da mon­tag­gio cine­ma­to­gra­fico.
Romanzi come que­sto di Custer­lina aiu­tano a capire la sto­ria e realtà che, pur geo­gra­fi­ca­mente vicine a noi, rimangono lon­tane anni luce.
Sono ancora oggi vera­mente pochi quelli che hanno capito cosa sia veramente acca­duto nei Bal­cani e cosa lì stia con­ti­nuando ad acca­dere, nel riac­cen­dersi e nell’evolversi attuale di anti­che osti­lità tra Serbi, Croati, Bosniaci e tra Cri­stiani cat­to­lici, Cri­stiani orto­dossi e Musul­mani, ostilità che - a tratti sedate, come nel momento attuale - rmangono sotterranee e pronte a riaccendersi.
Mano nera, pur sem­pli­fi­cando la com­ples­sità esistente in quei contesti ai fini nar­ra­tivi, getta una luce di com­pren­sione su con­flitti e con­tra­sti ancora vivi.
La nar­ra­tiva di que­sto tipo è straor­di­na­ria per­chè, se ben costruita e docu­men­tata, con­sente di immer­gersi nella sto­ria e venire fuori da que­sto bagno con cono­scenze e idee in più e soprattutto con una forte curiosità a saperne di più. E lo fa meglio di qual­siasi sag­gio.

Alberto Custerlina (Trieste, 6 ottobre 1965) è un insegnante e scrittore italiano. In passato legato al settore dell'informatica, ora affianca la scrittura di romanzi noir alle attività di insegnante e consulente informatico.
È stato finalista 2009 al Premio Camaiore di Letteratura Gialla con il suo romanzo d'esordio Balkan Bang! I suoi romanzi rappresentano un caso particolare nel panorama italiano (lo stesso Custerlina li definisce "Turbo Noir") e sono apprezzati anche per la dettagliata descrizione dei panorami balcanici, di cui l'autore è profondo conoscitore.
Ha un suo sito web personale: http://custerlina.com/

giovedì 19 agosto 2010

Morte tra i ghiacci: una nuova avventura con il marchio della premiata ditta Preston-Child


Lincoln Child e Douglas Preston sono più conosciuti come coppia di scrittori, esattamente come il duo Fruttero-Lucentini di casa nostra, I due, in tandem perfettamente coordinato, compongono delle belle storie (in genere al ritmo di una all'anno) di marca avventurosa (con una combinazione di elementi diversi horror, mistery, SF), molte delle quali sono state trasposte in film (non si può non citare Relic, perchè è proprio dopo aver visto questo film o al cinema o in repliche TV che molti sono approdati al romanzo omonimo da cui era stato tratto, divenendo dal quel momento fan dei due scrittori statunitensi, alla ricerca di tutto ciò - di loro - già pubblicato o di prossima pubblicazione).
Particolarmente intrigante è la serie di romanzi che hanno come protagonista il bizzarro agente speciale dell'FBI Aloysious Pendergast il quale, per alcuni versi, si presenta come una rivisitazione in chiave moderna e lievemente demonica di Sherlock Holmes, con una propensione a farsi "indagatore" dell'occulto.
Da alcuni anni a questa parte, i due hanno preso l'abitudine di pubblicare anche dei romanzi a firma separata: anche in questo caso, uno all'anno.
I loro fan, possono avere così il piacere di leggere non uno, bensì tre romanzi all'anno, della stessa rinomata ditta.
Infatti, dopo una lunga consuetudine compositiva a quattro mani, le differenze stilistiche tra i due scrittori, quando operano da soli, sono poco rilevanti: la cifra stilistica è identica, anche se è diversa la prevalente polarizzazione di interesse sui contenuti. Douglas Preston sembra puntare maggiormente sulla dimensione avventurosa delle sue trame, mentre Lincoln Child cura maggiormente d'occhio l'estrapolazione scientifica dei suoi testi e l’attendibilità degli elementi scientifici che vengono estrapolati nelle sue trame.
Anche quest'ultimo romanzo di Lincoln Child reca lo stesso imprinting di tutti quelli già usciti (inclusi quelli del collega Douglas Preston da solo): si tratta di una bella storia di avventura e mistero con un pizzico di horror esoterico che poi sfocia in un'ipotesi aliena, appena accennata, ma non sviluppata.
Gli ingredienti perché il romanzo possa piacere ai lettori cui piacciono questi ingredienti fondati su una base di attendibili spiegazioni scientifiche ci sono tutti: c'è la bestia intrappolata nei ghiacci, c'è una concatenazioni di morti atroci ed inspiegabili, c'è un'antica maledizione per difendersi dalla quale gli abitanti del luogo fanno esorcismi, c'è il mistero di ciò che è accaduto decenni prima nella base artica dove si svolgono i fatti odierni e del perché una misteriosa sperimentazione sia stata abbandonata del tutto e poi secretata nei file top-secret, ci sono claustrofobici sotterranei.
Fatte le debite differenze, tuttavia, il romanzo è una ripetizione di altri già letti e non c'è nessuna originalità. Peraltro, i lettori di genere vogliono proprio questo: muoversi in un contesto che è loro familiare nel quale potere cogliere piccole differenze,.avendo a disposizione in altri termini uno scenario in cui il già noto e il conosciuto (e per alcuni versi prevedibile) si mescoli con quel tanto che basti di sorpresa e di novum atti a generare meraviglia e curiosità.
Ma, in ogni caso, anche questo romanzo - per quanto "seriale" è pur sempre una buona porta d'accesso per cominciare ad esplorare l'universo narrativo dei due scrittori statunitensi (che, per inciso, hanno la passione per l'Italia, dove – nel cuore dei colli senesi, risiedono per diversi mesi ogni anno).

Questa la sintesi della storia nel primo risguardo di copertina.

Doveva essere una spedizione di routine, quella dello scienziato Evan Marshall nel cuore dell'Alaska. Il ghiacciaio del Mount Fear, in lento ma inesorabile scioglimento, sembrava l'ideale per le sue ricerche sui cambiamenti climatici. Ma l'imponente montagna, che i nativi Tunit credono abitata da spiriti della natura vendicativi e intoccabili, riserva all'equipe di Marshall una sorpresa di tutt'altro genere: quando una grossa lastra di ghiaccio si stacca da un fianco, un enorme occhio giallo appare a fissarli. È una spaventosa creatura preistorica, quella che Marshall e i suoi hanno scoperto, un animale finora sconosciuto rimasto per millenni prigioniero dei ghiacci. Un ritrovamento senza precedenti, che accende immediatamente l'interesse del rapace network televisivo che finanzia le ricerche di Marshall. Ma quando, nel buio della notte artica, il corpo della bestia scompare, e intanto vengono ritrovati i cadaveri sventrati di tre membri della troupe, il monito dei nativi risuona finalmente in tutta la sua inascoltata e profetica saggezza: la montagna si è ribellata all'avidità degli uomini, risvegliando da un sonno senza tempo un mostro che doveva restare sepolto nelle sue profondità. E che è tornato per spargere terrore, uccidere e, forse, mettere in discussione per sempre le certezze più radicate.

mercoledì 11 agosto 2010

Jack London: uno scrittore tuttora attuale, modello di vita e maestro della narrativa nordamericana


Jack London (1876-1916) è indubbiamente uno dei scrittori della letteratura nordamericana e mondiale, se vogliamo, che – a causa dell’imperante cultura crociana – da noi in Italia è stato confinato quasi esclusivamente al territorio della letteratura per ragazzi.

Invece, lo si deve considerare un autore capostipite di tutto un filone di percorsi culturali propri della modernità.

Da piccolo e, poi, da adolescente, mio padre - sempre con l'idea di stimolare le mie curiosità e di trasmettermi le sue passioni, mi andava passando i romanzi di Jack London,. Si trattava di edizioni povere del dopoguerra della casa editrice Bietti, in pagine pesanti e ingiallite, come Il lupo dei mari, Radiosa aurora, Jerry delle isole, Il richiamo della foresta, Zanna bianca, La piccola signora della grande casa (questo romanzo era stato suo da giovane e me lo fece anche rilegare, perché lo potessi leggere senza che le pagine sciolte si disperdessero da tutte le parti). Altri li comprai io: vecchi residui remainder di una collana storica della Sonzogno: piccoli volumi brossurati con una robusta copertina di cartoncino rosso e sovraccoperta in quadricromia.

Innanzitutto, Jack London fu uno che non scrisse di avventura e di viaggi stando confinato nella calma ovattata del proprio studio di scrittore, ma fu uomo d'azione, della strada e dei grandi spazi aperti, per alcuni versi un uomo della "frontiera" (nel senso molto americano del termine), proteso alla sua esplorazione e conquista.

Visse molto sulla strada, spostandosi di continuo ed accettando di fare i mestieri più strani e disparati. Per un breve periodo di tempo fece anche il pugile, esperienza di cui poi scrisse in numerosi racconti. (La sfida e altre storie di boxe, Newton Compton o del recente La classica faccia da pugile, 2010 Mattioli 1885).

Ma fece anche il mestiere del marinaio, fu contadino, visitò il Grande Nord e lì lavorò a lungo (Yukon, Klondike) come cercatore d’oro, viaggio in lungo in largo e in largo per gli States, diventò socialista e si batté attivamente per questa causa, ebbe un’esperienza di dedizione all’alcool: ogni sua esperienza si tramutò in racconto, romanzo, saggio, memoria diaristica.

Jack London si pose come punto di riferimento delle generazioni successive sia come modello di vita - quello stile del vivere “pericolosamente” (“strenously”) e “al limite” sposato ed amplificato al massimo da Theodore Roosevelt, 26° Presidente degli Stati Uniti) con il suo anticonformismo, per la sua passione per la caccia e per la sua vocazione a essere sempre in prima linea nelle situazioni difficili e pericolose - sia come modello da emulare di scrittore e giornalista (visto che molte delle sue esperienze sono appunto sovrapponibili a quelle dell’”inviato speciale” come è possibile intenderlo nel senso più moderno.

Ha lasciato un solco profondo nella successiva letteratura nordamericana. Ernest Hemingway lo prese a modello, nella sua passione per le esperienze pericolose, la caccia, la corrida, muoversi in giro per il mondo sui più disparati teatri di guerra, per non parlare di John Steinbeck con il suo grande affresco sui diseredati d’America in viaggio alla ricerca di lavoro, mentre Jack Kerouac lo emulò per quanto concerne la realizzazione di un vita in continuo movimento sulla strada, “on the road”.

Ma seguendo le tracce di London si può arrivare sino agli autori più attuali e, perfino in Cormac McCarthy con la sua vocazione a descrivere i grandi spazi aperti e i maestosi scenari naturali degli stati USA al confine con il Messico, in cui si svolgono vicende di uomini piccoli ed insignificanti; oppure nella narrativa d’anticipazione moderna e soprattutto in quel filone definito utopico e/o sociologico, per non parlare poi dell’influenza straordinaria di alcune opere non catalogabili eppure di grande impatto e ricche di intuizioni come l’affascinante “Il vagabondo delle stelle” e altri in cui, sviluppando quasi da “precursore” alcuni temi propri della narrativa d’anticipazione, riversa le sue convinzioni in un mondo migliore e più giusto permeate della sua fede nel socialismo.

E’ stato uno dei gli autori americani più tradotti all’estero: da noi un po’ meno, perché, come dicevo prima sino ad un certo punto, le scelte editoriali si limitavano a quelle opere che venissero ritenute più idonee all’infanzia e all’adolescenza, il più delle volte in versione ridotta.

Facendo un giro in internet si nota che, oggi, invece c’è un grande revival di proposte editoriali (il più delle volte promosse dalla piccola editoria indipendente) di testi brevi ancora poco conosciuti in nuove traduzioni.

Tra le ultime cose di Jack London esce La strada. Diari di un vagabondo (per i tipi di Castelvecchi, 2010), grazie ancora una volta a Davide Sapienza che con la sua passione per Jack London ci sta facendo riscoprire ed amare questo geniale scrittore. Questa volta tocca alle avventure di Jack London da giovane, quando da vagabondo (hobo, più che homeless) saltava sui treni per vivere l'avventura di attraversare gli Stati Uniti da est a ovest e viceversa, con l'unico obiettivo di non essere "affossato", cioè fatto scendere dai treni da frenatori, macchinisti, vigilantes o poliziotti.

Più che una storia di cammino, questi Diari sono una storia di folli corse per salire sui treni, per buttarcisi giù, per scappare, ma anche una storia di pasti elemosinati, di un esercito straccione di vagabondi che attraversa l'America, di giorni in carcere.

Il testo principale contenuto nel libro è un scritto elaborato da London per Cosmopolitan molti anni dopo aver fatto il vagabondo e pubblicato a puntate.

Ma il libro contiene anche altro: gli appunti grezzi del London vagabondo (inediti: Il vagabondo), utili per capire il passaggio dalla realtà alla scrittura.

Questa parte in particolare è di grande interesse storico e sociologico.

Mentre gli Stati Uniti della rivoluzione industriale e del nascente imperialismo costruivano l'immagine patinata e vincente del "sogno americano", uno scrittore dava voce agli angoli più bui del nuovo continente, mettendo nero su bianco - accanto alla vita dei barboni, dei disoccupati e dei diseredati - le contraddizioni di un sistema in cui il benessere di pochi veniva pagato con la povertà di molti.

È in questo modo che, tra il 1906 e il 1907, Jack London scrive "La Strada": nove capitoli di una saga a cui il padre di capolavori come Zanna Bianca e Martin Eden dava il nome di "vagabonlandia".

La Strada non è soltanto il libro che anticipa di mezzo secolo On the Road di Kerouac e che, con il passare del tempo, alimenterà la poetica di scrittori come Steinbeck (Furore) e Orwell, ma, nella versione curata da Davide Sapienza, fornisce le coordinate di un percorso artistico ed esistenziale ancora poco conosciuto.

Per completare la "vagabonlandia" di London, infatti, questa edizione raccoglie oltre all'inedito "Il diario del vagabondo" anchei due racconti Come sono diventato socialista e Principessa, quest’ultimo una vera e propria “chicca”: uno degli ultimi racconti, scritto da London poco prima di morire (a 40 anni!) e pubblicato postumo.

Nel complesso, il volume rappresenta il tributo di un grande viaggiatore all'arte di (soprav)vivere alla giornata.

L’interesse per Jack London si evidenzia anche nel fatto che proprio in questi Marco Paolini sta dando una rilettura di alcuni testi londoniani, nello spettacolo Uomini e cani che narra di uomini e di cani alle prese con il freddo dello Yukon, del rapporto tra uomini e natura, di senso del limite e di lotta per la sopravvivenza, ispirandosi al racconto di Jack London "To build a fire", nell’originale traduzione dello scrittore Davide Sapienza (Mattioli 1881).

Si tratta di un testo che gli amanti della montagna dovrebbero conoscere, nelle due versioni, quella con finale ottimista, e quella scritta molti anni dopo, più matura, con finale più tragico.

Per riflettere sui pericoli della montagna, vale più di mille raccomandazioni o di manuali di sicurezza in montagna, perché parla al nostro istinto di sopravvivenza. Per ora Paolini ha rappresentato solo due volte lo spettacolo, una volta in Val di Fassa per i Suoni delle Dolomiti, un'altra in Val Clusone. In entrambe le sedi, lo spettacolo, molto in linea con la poetica di Jack London prevedeva un avvicinamento a piedi. E c’è da sperare che il progetto giri l'Italia!

venerdì 16 luglio 2010

In un romanzo l’inferno di Ciudad Juarez: vampiri o setta satanica?

Dal 1993 ad oggi 5000 donne sono state rapite, stuprate, seviziate e infine uccise, a Ciudad Juarez (Mexico, Stato di Chihuahua) a breve distanza dal confine con gli USA: i brutali assassini si presentano tutti con un modus operandi che li riporta ad una comune matrice. È una cifra davvero enorme, quasi irrappresentabile: nemmeno il più feroce dei serial killer, operando da solo, potrebbe arrivare a collazionare nel corso della sua carriera criminale un tale numero di vittime.
Quello di Ciudad Juarez è un autentico rompicapo: investigatori messicani ed esperti di criminal profiling inviati dagli USA ancora non sono riusciti a risolverlo, e a niente è valsa la forte mobilitazione popolare promossa dalle famiglie delle vittime costituitesi in associazione.
Si sospetta che, ad alto livello, vi possano essere delle connivenze politiche che pongono divieti e zone d’ombre a indagini a tutto campo, mantenendo le coperture di insospettabili.
Certo è che una sequenza omicidi di tale entità che hanno come unico oggetto d’interesse donne di tutte le età esprime non soltanto la generica ferocia di uno (o parecchi) serial killer, ma un forte e selettivo odio nei confronti delle donne: in genere nei confronti delle donne, il cui prototipo nell’immaginario dell’uomo messicano è la MALINCHE (la donna azteca che fece da interprete a Cortez e che entrò nel suo letto e che quindi fu doppiamente traditrice perché fu l’origine di una popolazione di mestizos. E occorre anche tener conto che la donna traditrice è anche quella che lavora, emancipandosi dai legami di sottomissione tradizionale: e molte delle vittime sono tutte lavoranti nelle maquilladoras (le grandi fabbriche semiclandestine che le multinazionali USA hanno collocato proprio a Ciudad Juarez per avere a disposizione una manovalanza vasta e ricattabile, a costi di gestione bassissimi per attività di lavoro quasi da schiavi).
Tre i libri disponibili sull’argomento: Ossa nel deserto (Sergio Gonzàlez Rodriguez, Adelphi, 2006 per l’edizione italiana), L’inferno di Ciudad Juarez. La strage centinaia di donne al confine Messico-Usa (Victor Ronquillo, Baldini&Castoldi Dalai, 2006), La città che uccide le donne. Inchiesta a Ciudad Juarez (Marc Fernandez e Jean-Christophe Rampal, Fandango, 2007).
Si aggiunge adesso a questi testi documentari, il romanzo di Clanash Farjeon (I vampiri di Ciudad Juarez, Gargoyle Books, 2010) che utilizza la cupa realtà dei fatti di cronaca per dar corpo ad una fiction influenzata da una tecnica narrativa cinematografica (con azioni decentrate e frequenti cambi di personaggi e vertici di osservazione), ma tuttavia godibile anche per lo stile ironico e leggero della sua prosa che, a tratti, si distende in un tono quasi da commedia horror-surreale, fortemente evocativa di alcuni personaggi del cult The rocky horror picture show.
Ma non poteva che essere così, visto che l’autore ALAN JOHN SCARFE (dl cui il nome d’arte, Clanash Farjeon, è l’anagramma) ha interpretato da attori ruoli di primo piano del teatro classico, che è stato anche regista di numerosissimi lavori teatrali, oltre che attore e regista cinematografico.
L’autore, prendendo spunto dalla cornice di cronaca nera, dà corpo ad un arazzo narrativo dominato da una potente famiglia messicana, in sospetto di pratiche vampiresche, anche se non verrà chiarito se i suoi rappresentanti siano veramente dei vampiri nel senso “classico” della tradizione letteraria, né in che modo lo siano diventati.
Tutto l’impianto narrativo ruota attorno a Michael Davenport, attore e aspirante regista, che – in turismo cinematografico nel Sud degli Stati Uniti e in Messico – s’imbatte, a partire dal furto di alcuni nastri con le sue riprese di una stupefacente tigre bianca colta dall’occhio della sua telecamera, mentre vaga libera negli squallidi sobborghi di Ciudad Juarez, nella famiglia dei Portillo Perez e nelle loro strane pratiche.
Ne verrà fuori illeso dopo alcune vicissitudini che assumono un sapore quasi picaresco, ma alla fine della storia al lettore sorge il sospetto che, dietro gli omicidi, ci possa essere una setta satanica fondata sul patto del seme e del sangue e una never ending story, in cui, scomparsi dalla scena alcuni attori, subito altri adepti possono farsi avanti a rimpiazzarli. E questo implicitamente potrebbe dare una risposta sia all’enorme numero di donne uccise, sia all’impossibilità per gli inquirenti di venire a capo del bandolo della matassa.
Come già la sua riscrittura della storia di Jack lo Squartatore (pure pubblicata per i tipi di Gargoyle Books con il titolo Le memorie di Jack lo Squartatore (2008), anche questo suo secondo romanzo lo si potrebbe ascrivere al genere “horror sociale”.


Dal risguardo di copertina

Ciudad Juarez, città messicana di confine che conta più di un milione di abitanti, è da anni devastata dalla guerra tra i cartelli della droga per il controllo del traffico di cocaina verso gli Stati Uniti. Dal 1993, Juarez è altresì tristemente famosa a causa degli innumerevoli omicidi perpetrati ai danni di giovani donne, generalmente di umile estrazione sociale. A oggi si contano oltre 5000 omicidi, tra cadaveri rinvenuti nel deserto e ragazze scomparse e mai più ritrovate. Le vittime sono quasi tutte di età compresa tra i 10 e i 40 anni, e subiscono sempre lo stesso trattamento: rapite, mentre vanno al lavoro o, sulla strada del ritorno a casa, violentate, torturate, mutilate e uccise. È proprio in questo crogiuolo di corruzione, violenza e morte che, durante un viaggio da Miami a Los Angeles, finisce casualmente Michael, eccentrico freelance di una rivista inglese che si propone di "esaminare razionalmente i fenomeni irrazionali". Una tigre siberiana bianca gli aprirà la strada verso un mondo di tenebra, dove l'orrore è ancora più terrificante di quello offerto quotidianamente dalla cronaca...

martedì 6 luglio 2010

Liberaci dagli sbirri: un noir in un profondo Sud d'Italia dimenticato dagli uomini e da Dio


Liberaci dagli sbirri, opera narrativa prima di Gabriele Reggi (Isbn Edizioni, 2010) si presenta come una lettura interessante ed insolita nel panorama della narrativa italiana odierna, fuori dai canoni (tra gli scrittori che ho praticato, mi farebbe pensare un po' allo stile di Eraldo Baldini, molto attento all'ambientazione territoriale, "romagnola" delle sue storie che diviene protagonista grazie anche alla forte preparazione etno-antropologica dell'autore).
Reggi ci offre una raprresentazione - forse non tanto lontana dall vero - su come sono le cose nel profondo Sud dell'Italia contemporanea che, per come è rappresentata, parrebbe ferma all'età della pietra (i fatti di Rosarno, relativamente recenti, dimostrano che Reggi non si discosta poi tanto dalla realtà nel rappresentare una simile feroce distorsione della civiltà contadina e della magia rituale-religiosa che la pervade (si pensi a "Cristo si è fermato ad Eboli") in cui i rituali imposti dal Cattolicesimo sono soltanto la verniciatura più recente.

E' un romanzo che si può leggere come una fiction (che, come dicono le note di presentazione del volume, possiede qualche coloritura horror in stile kinghiano nella rappresentazione di un "borgo" maledetto i cui abitanti sono tutti vincolati da un patto scellerato) oppure come un documento di denuncia mascherato da fiction.

D'altra parte l'horror vero è quello he si nasconde negli angoli riposti della nostra quotidianità e che permea le relazioni con il nostro prossimo (fatte di violenza, prevaricazione, crudeltà).

E' anche molto accurato lo studio antropologico della comunità di Stimmate (inventata, ma sicuramente ricalcante qualche luogo della realtà del Sud ben conosciuto dall'autore) che Reggi riesce a costruire in modo sintetico, ma incisivo: anche la Religione (anche se poi, a ben vedere, nella sua cornice codificata, si inseriscono e trovano una loro rispettabilità condivisa dei rituali radicalmente pagani) qui è asservita ad un sistema di potere che deve essere mantenuto a tutti i costi.

La scuola, come istituzione educativa dello Stato è sentita come un'ingerenza in questo sistema, così come le istituzioni dello Stato tendenti a mantenere l'Ordine costituito, e le è consentito solo di avere un ruolo educativo del tutto secondario e di scarsissima incisività: fondamentalmente rimane collusa e non riesce a portare alcun messaggio innovativo. Gli insegnanti in quanto rappresentanti di uno stato alieno sono assimilitati agli "sbirri".
Potrebbe venirne fuori uno straordinario film, se diretto da un regista sufficientemente visionario...
Questa in breve la sintesi della storia, come viene presentata dalla stessa casa editrice.
Spedito a far supplenze in una scuola del Sud più profondo, il protagonista di questo romanzo si accorge ben presto di essere finito in un villaggio dei dannati partorito dalla mente di Stephen King o da un B-movie italiano, più ancora che da Ignazio Silone o da Ernesto De Martino. Non solo per il tasso di mafiosità che spinge ogni giorno grandi e piccini a pregare "liberaci dagli sbirri", e neppure per il caporalato che costringe tutte le donne del paese a lavorare nei campi guardate a vista da feroci kapò, ma soprattutto per il rito tribale che sembra tenere insieme la comunità: un cruento remake della crocefissione che ogni anno segna il destino del paese. Il destino del protagonista, invece, è segnato fin dal primo momento: innamorato perdutamente della donna sbagliata, la ragazza del Capo, picchiato e malconcio, progetta la grande fuga

giovedì 1 luglio 2010

L'inferno di Treblinka nel reportàge di Vasilij Grossman


Anche chi abbia avuto occasione di leggere molte testimonianze e saggi sulle devastanti azioni perpretate all'interno dei campi di concentramento nazisti, proverà sgomento nello sfogliare le pagine del reportàge di Vasilij Grossman su Treblika (L'inferno di Treblinka, Adelphi, 2010).
Nelle sue pagine che costituiscono un
folgorante, esemplare, reportage - fondato su testimonianze di prima mano, raccolte subito dopo l'ingresso delle truppe russe nel campo di Treblinka - e scritto, quindi, subito dopo la liberazione del campo, nell'autunno 1944 -, viene rappresentata da Vasilij Grossman, inviato di guerra d'eccezione, la più terribile fabbrica della morte nazista Il resoconto breve, ma denso e impressionante nella csua essenziale crudezza, venne inizialmente pubblicato sulla rivista "Znamja" (Bandiera).
Per iniziativa del procuratore militare sovietico, in occasione del processo di Norimberga, ne venne data lettura davanti al collegio d'accusa.
Soprattutto a Treblinka, le SS cercarono di cancellare ogni traccia dei loro misfatti, ma non poterono portare a termine la loro opera, poichè - negli ultimi giorni prima della liberazione - si sviluppò proprio qui un'insurrezione armata da parte dei deportati.
Il caso di Treblinka è meno conosciuto ed inflazionato nei media, forse, rispetto a quello di altri campi della morte: Grossman nella sua cronaca enfatizza due elementi, in partiolar modo. Uno era che molti dei deportati (compresi anche gruppi di non ebrei) erano persuasi con l'inganno a fare questo trasferimento. L'altro è che, qui, la fabbrica della morte fu più rozza di quanto non accade ad Auschwitz: basta leggere il racconto di Grossman per capire perchè. Forse, perchè qui - a differenza di Auschwitz non vi era nessun impianto industriale da alimentare con manovalenza di schiavi a bassissimo costo.
A Treblinka la catena di montaggio di morte era indistintamente per tutti coloro che arrivavano con i convogli plurigiornalieri: non veniva operata alcuna selezione, poichè tutti dovevano essere soppressi non appena fossero arrivati, secondo una procedura che, con precisione meccanica, si ripeteva più volte al giorno.

Infine, un terzo aspetto significativo è che Treblinka fu il luogo di morte non solo di ebrei, ma anche di rappresentanti di altri gruppi etnici e di molti internati politici.
Leggendo alcuni dettagli, quali la gratuita crudeltà delle SS, il modo di spogliare i deportati di qualsiasi traccia della loro umanità e della individualità di ciascuno, l'uso di strumenti di intimidazione, saltano immediatamente all'occhio alcuni elementi che lasciano suppore che l'orrere di quei campi non sia mai finito e che, piuttosto, venga perpetuato in molti modi e in molti scenari diversi - anche contemporanei.
Viene naturale pensare a ciò che è accaduto nellla base-prigione di Guantanamo, sino alla sua chiusura, e a ciò che è stato perpetuato ad Abu Graib, con una ferocia inaudita, analoga e sovrapponibile a quella della SS a Treblinka.
Ci sono delle barriere e delle inibizioni ad agire che non bisognerebbe mai abbattere e, soprattutto, bisogna ricordarsi che qualsiasi azione volta a spogliare un essere umano della sua "umanità" e della sua specificità di individuo porta immediatamente a conseguenze nefaste, poichè un essere "reificato" e "amorfizzato" può ricevere qualsiasi trattamento senza che si attivino blocchi comportamentali fondati sull'empatia.

giovedì 17 giugno 2010

Gianfranco Manfredi e i vampiri illuministi tra superstizione e ragione


Confesso: non avevo ancora letto un solo romanzo di Gianfranco Manfredi!
Una grave mancanza, a conti fatti, devo ammetterlo alla luce delle mie impressioni al termine della lettura del suo Ho freddo (ww.hofreddo.it).
Un po’ ritardo, ma – alla fine – ci sono arrivato.
L’approccio iniziale non è stato facile, ma è ciò che capita quando ci si accosta per la prima volta a un autore nuovo e mai frequentato prima.
La prosa di Manfredi è densa, con un incedere lento e solenne, eppure se ci si abbandona al ritmo della sua scrittura, dopo un po’ il gioco è fatto.

Il romanzo, collocato all’interno d’una collana della Gargoyle Books, specializzata nell’edizione di preziosi testi horror, sfugge tuttavia ad una precisa catalogazione.
Non è un horror nel senso stretto del termine, né tanto meno lo si può considerare una storia di vampiri.
Propenderei piuttosto nel rubricarlo come “romanzo filosofico” che pone una serie di interessanti questioni, essendo collocata la sua vicenda in un cruciale punto di svincolo tra epoche passate della storia, dominate da oscurantismo e pregiudizio, e quella svolta cognitiva e scientista impressa dai più illustri rappresentanti del “secolo dei lumi”.
Siamo nel Nuovo Mondo, dove l’arrivo di fermenti e idee nuove si trova a cozzare con forza con il forte radicamento di quei pregiudizi religiosi che condussero, per esempio, al paradigmatico caso delle streghe di Salem, cronologicamente collocabile solo pochi decenni prima rispetto alle vicende narrate.
Una parte della storia ruota attorno ad alcuni casi “misteriosi” che rappresentano appunto paradigmaticamente gli errori cognitivi indotti dal pregiudizio, come la storia della misteriosa e tragica fine del gruppo di emigranti guidati da Hans Hermann, su cui la comunità di Cumberland aveva deciso di attuare una sorta di rimozione collettiva; oppure quello di altrettanto misteriosi revenant che, con le loro inquietanti e impalpabili presenze, ritornano a turbare i vivi; oppure, ancora quello della nave maledetta che – come quella dell’Olandese Volante – si aggira davanti alle coste dell’isola nelle notti tempestose, in una ripetizione ossessiva dell’incendio che aveva devastato una nave di migranti alcuni anni prima.
C’è ovviamente un riferimento alle credenze sui vampiri, ma in connessione – molto originale – con focolai epidemici di tisi e di consunzione polmonare, particolarmente diffusa in quegli anni, ma anche con il comparire di episodi endemici di rabbia. I personaggi-chiave che rappresentano l’antitesi tra due mentalità diverse sono Jan Vos, il predicatore battista, e i due gemelli Aline e Valcour, sbarcati nel Nuovo Mondo con l’obiettivo di portare innovazione e progresso, abbattendo al tempo stesso pregiudizi e false credenze e, in particolare, con il desiderio di introdurre nuovi metodi di cura alle malattie infettive (e, qui vi è un riferimento molto cogente e preciso sulla storia delle vaccinazioni).

Una battaglia che si annuncia dura e faticosa e dagli esiti incerti.
Gianfranco Manfredi sembra propendere verso un esito fondamentalmente pessimista rispetto alle ragioni dello scientismo.

Pregiudizio, superstizioni, false credenze sembrano avere la meglio rispetto alle spiegazioni razionali e all'applicazioni di strumenti che dall'applicazione di un approccio epistemologico corretto alla realtà discendono.

Come mostra l'antropologo-psichiatra-psicoterapeuta Tobie Nathan (che è considerato uno dei pilastri della moderna psichiatria transculturale), le credenze - per quanto ritenute "false" da chi detiene strumenti di decodifica della realtà più attuali e moderni - rappresentano per chi le pratica un potente strumento di approccio e conoscenza del mondo ed è, quindi, molto difficile combatterle con un semplice invito a mantenersi aderente alla lettura razionale delle cose.

Nel lavoro di Manfredi, personaggio eclettico e colto, nonché profondo conoscitore della storia delle idee e della filosofia, si coglie un lavoro appassionato di ricerca e di raccolta di fonti documentarie che lo stesso autore non manca di offrire al lettore esigente e curioso al termine dell’opera in una preziosa postfazione, mentre – secondo le consuetudini della Gargoyle – in apertura il romanzo è presentato da una bella introduzione di Loredana Lipperini.
La postfazione di Manfredi, tra l’altro, rende un omaggio a Bram Stoker, facendo intravedere al lettore delle connessione tra una delle location in cui ha scelto di ambientare la sua storia e uno dei tre luoghi cardine in cui si sviluppa la parte inglese della vicenda di Dracula il Vampiro. In più, stabilisce una connessione interessante tra le credenze (irrazionali) sui vampiri e le epidemie di “peste vampirica” che imperversarono in Europa in epoca pre-illuministica, da addebitare probabilmente a raggruppamenti endemici di casi di rabbia. Mi è piaciuto davvero molto: un’autentica sorpresa, anche se, per capire quanto valesse, ci ho messo un po’ di tempo. È una scrittura che richiede all’inizio applicazione e fiducia. Un atto di fede, si potrebbe dire dire: “Conoscimi, non rifiutarmi subito e non ti deluderò”, sembra dirti.
Come epigrafe io ci avrei messo la famosa frase goyesca: “Il sonno della ragione genera mostri”.
Dove si amplia la conoscenza scientifica dei fatti e si costruiscono delle teorie che consentano una spiegazione degli eventi, là il pregiudizio, la superstizione, l’ocurantismo dovrebbero dileguarsi. Ma non è cosa semplice...

Nella prefazione, Loredana Lipperini cita ampiamente l’importante saggio di Paul Barber, Vampiri sepoltura e morte (1988, 1994), il cui sottotitolo Folklore e realtà dà la misura del progetto di Barber, docente a Princeton di Letteratura tedesca e storia del folklore: un progetto che fu quello di riportare le credenze sui vampiri a ciò che sono, senza nulla di soprannaturale, ma fondate su fatti spiegabili di cui nei “secoli bui” non si conoscevano le basi razionali e scientifici.
Ed è indubbiamente agli studi di Barber e alla larga messe di episodi storicamente documentati citati nel suo saggio a cui si riferisce Gianfranco Manfredi in Ho freddo.

Citando Barber:
Gli Europei del primo Settecento mostrarono un grande interesse per il vampiro: La parola stessa, secondo l’Oxford English Dictionnary, entrò nella lingua inglese nel 1734, in un periodo in cui, specialmente in Germania, si scrivevano molti libri sull’argomento. Retrospettivamente, appare chiaro che una ragione di tutto questo entusiasmo sta nella Pace di Passarowitz (1718) con la quale alcune parti della Serbia e della Valacchia erano passate all’Austria: Da quel momento le forze occupanti, che rimasero in quelle regioni sino al 1730, cominciarono a notare e a riportare una pratica locale molto peculiare: quella di esumare cadaveri e di “ucciderli”. Forestieri in possesso di un certo grado di istruzione iniziarono ad assistere a queste esumazioni: La moda del vampiro, in altre parole, fu ante litteram un evento “creato dai media”, con il quale alcuni europei colti fecero la scoperta di pratiche che non avevano affatto un’origine recente, ma che per la prima venivano pubblicizzate efficacemente.

Valcour e Aline potrebbero essere stati benissimo tra questi Europei colti a fungere da osservatori e a fare da testimonial di tali eventi, ma essendo rappresentanti del fermento delle nuove idee, i due cercano di dare la spiegazione razionale e scientifica di eventi apparentemente sovrannaturali, senza subirne il fascino perturbante.

Cosa rappresentavano queste pratiche? Indubbiamente alla loro radice vi erano delle credenze profondamente radicate sul fatto che i morti possano ritornare a insidiare i vivi se prima non siano stati opportunamente pacificati. credenze antichissime dunque, alla base di complicati rituali della sepoltura e della sua ripartizione in due tempi successivi, come è diffuse in molte civiltà e come hanno mostrato gli antropologi. In sintonia con tali credenze venivano poi interpretati una serie di fenomeni naturali legati alla trasformazione del corpo post-mortem o al suo permanere apparentemente intatto. Trasformazioni che, peraltro, oggi vengono studiate scientificamente per potere perfezionare sempre di più la possibilità di decodificare il modo in cui una persona è morta (o è stata uccisa) e quali vicissitudini abbia subito il cadavere nel post-mortem.
Oggi, alcune cose sono di pubblico dominio: sappiamo che esistono delle vere e proprie “officine dei corpi” dove si studiano in maniera scientifica tutte le modifiche cui vanno incontro i corpi sottoposti alle più diverse condizioni ambientali, conoscenze che assumono una importanza crescente per i medici forensi.
Tali luoghi e pratiche sono ampiamente descritti in un paio di libri in circolazione a uso e consumo degli appassionati di medicina legale divulgativa e crime stories alla maniera di Patricia Cornwell, per citare uno degli esempi più conosciuti.
Allora, di questi fenomeni e della loro variabilità, nulla si sapeva: è chiaro quindi che alcuni di essi potessero essere interpretati come legati a forze sopranaturali in azione. In contemporanea, proprio in quel periodo nella transizione tra il secolo dei lumi e l’Ottocento prende piede una pratica pià moderna della Medicina, con lo studio ancora embrionario delle malattie infettive e l’affacciarsi della teoria fondante della pratica delle vaccinazioni, con lo scaturire di alcuni accorgimenti che, pur andando contro precedenti superstizioni, in alcune circostanze ed in alcuni contesti, sembrano colludere proprio con quei sistemi di pensiero e con il corpus preesistente di credenze e false convinzioni.

A scopo di approfondimento, non si può non citare qui questo lungo passaggio tratto da un saggio su La non-nascita dei vampiri reperibile nella rete
VAMPIRI ILLUMINISTI
Il maggior numero di leggende sui vampiri le troviamo nell’Europa Orientale, soprattutto per il gran numero di resoconti scritti nel settecento in concomitanza all’epidemia vampirica che si sviluppo proprio in quelle terre e che rese il vampirismo un fenomeno sociale da estirpare con ogni mezzo possibile in quanto rappresentava un pericolo reale per le popolazioni. Paradossalmente nel secolo dei Lumi si è avuto il trionfo delle creature della notte, infatti, il Dictionnaire Infernal alla voce Vampiri si esprime affermando che essi hanno terrorizzato l’Europa orientale, mentre gli altri spaventavano gli occidentali ribaltando le loro antiche convinzioni con le quali avevano convissuto per secoli. Dal XV secolo chi moriva nell’area geografica compresa fra la Jugoslavia e la Russia era soggetto a ritornare, in particolare se aveva mancato ai suoi doveri di buon cristiano perché era ancor più facile preda del demonio, anche lui in grado di far risorgere i suoi figli imprigionando la loro anima dentro il corpo. Ne derivò una serie di misure preventive e cautelative per riconoscere il potenziale vampiro (si stillarono elenchi di persone predisposte a diventare vampiro che comprendevano dai criminali ai morti suicidi, alle persone coi capelli rossi o quelli nati in determinati periodi dell’anno) e per far si che il suo corpo non fosse in grado di uscire dalla tomba (dagli impedimenti fisici come mutilazioni a procedure volte ad accelerare i processi di decomposizione della salma), un atteggiamento completamente diverso da quello della cristianità occidentale che assicurava che i cadaveri dalla “carne impassibile” erano quelli dei santi. Le cause sono da ricercarsi nella difficile situazione politica di queste terre soggette al dominio degli Asburgo e a quello della chiesa, e che, però, venivano da anni di dominazione cristiana ortodossa e da assedi operati dai musulmani quindi esisteva una certa confusione fra i popoli stessi se accettare l’origine demoniaca del vampirismo (come sosteneva la chiesa ortodossa) o se accontentarsi di essere ridotti a superstiziosi ignoranti come proponeva l’illuminata chiesa occidentale. Il clero locale era accusato al pari dei villici di diffondere la diceria del ritorno dei morti dietro influsso Satanico, confortati da testi scritti secoli prima e tenuti in gran considerazione come il Malleus Maleficarum di Sprenger e Kramer (Norimberga 1494), la Demonomania di Bodin (Parigi 1580) Il Compendium Maleficarum di Guaccio ecc., tanto che il Cardinale Prospero Lambertini, quando l’arcivescovo polacco gli chiese l’autorizzazione per praticare gli esorcismi sui cadaveri rispose in questi termini: Certamente dev’essere la grande libertà di cui Godete in Polonia che vi consente di andarvene a spasso anche dopo morti. Qui da noi, glie l’assicuro, i morti sono tranquilli e silenziosi, e se non avessimo che loro da temere, non avremmo bisogno né di sbirri né di bargello. Si cominciarono a scrivere numerose dissertazioni riguardo i vampiri, che cercavano di fornire una spiegazione razionale al fenomeno al fine di far smettere le brutali pratiche di esumazione e trattamento dei cadaveri sospetti che certo non si confacevano alla società illuminata che si stava preparando. Se escludiamo la maggioranza di pubblicazioni minori, provenienti prevalentemente da Lipsia, Norimberga e Jena, i trattati più famosi e giunti fino a noi sono quelli di Dom Calmet (ai tempi canzonato da Voltaire per l’accurata documentazione di casi di vampirismo che apportava e per la sua mancanza di presa di posizione a questo riguardo), quello di Davanzati (un religioso italiano che cercava di dare spiegazioni, il più possibile scientifiche, agli episodi di vampirismo e di relegarli all’ambito del disordine immaginativo di queste popolazioni biasimando i riti apotropaici che considerava abominevoli) e quello di Van Swieten il medico di corte della regina Maria Teresa d’Austria che fece si che la regina stessa emanasse un decreto che vietava il ritorno in vita di persone già morte sia per loro opera che per opera del demonio ponendo fine all’epidemia. Negli ultimi anni Paul Barber, nel suo Vampiri Sepoltura e Morte (Pratiche 1994), riesaminerà minuziosamente le testimonianze rese in queste trattazioni e avvalendosi delle moderne scoperte scientifiche e medico-legali ne darà una spiegazione razionale ammettendo come plausibili le osservazioni delle vittime dell’epidemia ma l’etiologia non è affatto satanica bensì legata ai normali processi di corruzione dei corpi post-mortem e agli effetti di sepolture premature e frettolose. Col decreto della Regina Maria Teresa i sepolcri, almeno apparentemente, sono sigillati e non vi saranno più apparizioni vampiriche presso le case degli abitanti del suo impero; ma la mole di scritti darà luogo ad un’altra epidemia che tuttora non si è riuscita ad estirpare: il vampiro diventerà un’icona dell’immaginario collettivo, a cominciare dagli scritti dei poeti romantici fino ad arrivare ai moderni splatterpunk diffondendo il suo contagio subdolamente ma con ben più successo. Per quest’opera si è reso necessario che si spogliasse del sudario masticato per indossare completi alla moda, rinunciasse al gonfiore del ventre e all’incarnato rubizzo per un più discreto pallore e, soprattutto, riuscisse ad infilarsi nei salotti dei circoli colti seducendo gli astanti proponendosi e non facendo loro richieste come usavano i suoi antenati folclorici, negli ultimi anni qualcuno ha anche rinunciato alla bara, evitando il fastidio di uno scomodo trasloco magari da un vetusto castello ad un appartamentino in centro.


Una nota bio-bibliografica su Gianfranco Manfredi

Gianfranco Manfredi è nato a Senigallia nel 1948. Sfuggito a Milano, vive e scrive in montagna a Gordona (Sondrio). Cantautore nella seconda metà degli anni settanta, si è poi dedicato a una multiforme attività di scrittore: dalla saggistica alla narrativa, dal cinema ai fumetti. Tra i suoi altri romanzi: Cromantica, Ultimi vampiri, Trainspotter, Il peggio deve venire, Il piccolo diavolo nero, Nelle Tenebre Mi Apparve Gesù. È autore per la Sergio Bonelli Editore del popolare fumetto Magico Vento, e della premiatissima miniserie Volto Nascosto, oltre che di alcuni episodi di Tex e Dylan Dog. Di Gianfranco Manfredi Gargoyle ha già ripubblicato il romanzo Magia Rossa (Feltrinelli, 1987) e l’antologia Ultimi vampiri-extended version, arricchita di due nuovi racconti e saggi, suggestivamente introdotta da Tullio Avoledo, a settembre (2010) è prevista l’uscita del suo ultimo nuovo romanzo Tecniche di resurrezione in cui ritroviamo i gemelli Aline e Valcour de Valmont, già protagonisti di Ho freddo.
www.gianfrancomanfredi.com



Una scheda su Vampiri, sepoltura e morte

«Se un tipico vampiro dovesse presentarsi a casa vostra, è probabile che vi ritrovereste sulla soglia di casa uno slavo grassoccio con le unghie lunghe e la barba ispida, gli occhi e la bocca spalancati, la faccia gonfia e rubizza. Abbigliato in maniera informale – per la precisione indossa un sudario di lino – apparirebbe agli occhi di tutti come un contadino
lacero. Se non l’avete riconosciuto è perché vi aspettavate un gentiluomo alto ed elegante con un mantello nero. Ma questo sarebbe il vampiro della letteratura e del cinema...» E il vampiro della letteratura e del cinema non è che un derivato del vampiro del folclore di cui si occupa questo libro. Paul Barber presenta varie testimonianze su questa creatura soprannaturale, tratte dalle credenze popolari, dai racconti folcloristici e dalla letteratura. Prende in esame numerosi resoconti sull’esumazione di presunti revenant, registra che cosa viene detto del loro aspetto, delle loro origini e del modo di sconfiggerli e ucciderli, poi confronta queste informazioni con ciò che oggi si conosce sulla morte e la decomposizione per concludere che la credenza nel vampiro si rivela un’elaborata ipotesi popolare destinata a spiegare eventi in apparenza inesplicabili. Alla base della fortuna, anche letteraria, di questo essere inquietante e tenebroso, presente nelle tradizioni di tutto il mondo, ci sarebbe dunque la paura dei morti, la paura che nasce alla vista della “vitalità” dei cadaveri, delle trasformazioni a cui i corpi sono soggetti dopo la morte, prima di ridursi a puri scheletri «inoffensivi» di natura quasi minerale. Collegando i tratti comuni alle diverse credenze nei non-morti, Barber offre ai lettori un esauriente studio scientifico sul vampiro, il primo che si pubblica in Italia, corredato di ampie note esplicative e di una aggiornata bibliografia sull’argomento. Paul Barber, al momento della pubblicazione del volume, insegnava Letteratura tedesca e Storia del folclore a Princeton.
 
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