giovedì 30 dicembre 2010

"La Banda dei Babbi Natale": una gustosa commedia degli equivoci che parla "milanese"


Con "La banda dei Babbi Natale" (2010, Italia) Paolo Genovese, già regista di "Incantesimo napoletano" ha prodotto un'equilibrata commedia che parla "milanese".
Aldo, Giovanni e Giacomo che, secondo la precedente tradizione filmica, interpretano se stessi, vengono catturati dalle Forze dell'Ordine, proprio alla vigilia di un nevoso natale, mentre - apparentemente - stanno mettendo in opera un furto in un appartamento.
Il forte sospetto che il trio sia una banda di ladri, a parte l'inequivocabile fragranza di reato, deriva dal fatto che nella stessa zona è in opera una banda di topi da appartamento che operano travestiti, per l'appunto, da Babbo Natale.
I tre, portati in Commissariato vi vengono trattenuti, malgrado le proteste e le dichiarazioni d'innocenza, ed interrogati. Il funzionario di turno è interpretato dalla brava Angela Finocchiaro, oscillante tra simpatia per le prodezze dei tre, incredulità, pregiudizio, irritazione, ira, fastidio per essere stata trattenuta in ufficio a causa dell'emergenza creatasi.
Il racconto delle cose "come stanno veramente" suona come una montagna di scuse e di menzogne, perchè alla fine di ogni narrazione, il ritornello è "Bella la storia, ma non ci crediamo", tanto sono paradossali ed incredibili le vicende che li hanno condotti a travestirsi da Babbo Natale.
Apparentemente, vi è nel film unità di tempo e di azione: in realtà, attraverso una serie di flashback, la vicenda si sposta di continuo al passato recente: Aldo, Giovanni e Giacomo, a turno, per spiegarsi, devono fare numerose premesse e raccontare gli antefatti, ciascuno dei quali assurge al rango di storia a sé.
Emerge così, alla fine, il quadro gustoso delle vita dei tre caratteri, ciascuno con le sue piccole (o grandi magagne), amici legati da un'intensa solidarietà - per quanto profondamente diversi l'uno dall'altro - e accomunati dalla passione per le bocce, tutti e tre parte di una squadra bocciofila "The Charlatans" che da molto tempo ambisce a conquistare un importante trofeo annuale (sia pure provinciale).
Sino al disvelamento finale: non erano andati in quell'appartamento per rubare, ma pe compiere un importante atto d'amore.
E ciò nondimeno non vengono creduti, sino alla risoluzione finale con scagionamento e cenone di Natale improvvisato, proprio nella sede del Commissariato: come dire che la vicenda finisce a "taralluci e vino", con ricomposizione delle storie e delle trame (per Aldo e Giacomo) o con la fuga da situazioni insostenibili (Giovanni).
Con la geniale e gustosa commistione tra presente e passato, l'intreccio narrativo procede agile e spedito, benché - essendo privo di gag clamorose e più centrato sui dialoghi e sui personaggi - è poco adatto ai bambini che pure gremivano la sala.
Insomma, un film godibile che vale pienamente il costo del biglietto.

Scheda film

Un film di Paolo Genovese. Interpreti: Aldo Baglio, Giovanni Storti, Giacomo Poretti, Angela Finocchiaro, Giorgio Colangeli, Sara D'Amario, Giovanni Esposito, Silvana Fallisi, Antonia Liskova, Lucia Ocone, Cochi Ponzoni, Massimo Popolizio, Remo Remotti, Mara Maionchi.
Comico, durata 100 min. - Italia 2010. - Medusa uscita venerdì 17 dicembre 2010.

TRAILER

lunedì 27 dicembre 2010

Un altro mondo è possibile, se siamo noi a cambiare...


(Maurizio Crispi) "Un altro mondo" (per la regia di Silvio Muccino, 2010) è tratto dall'omonimo romanzo di Carla Vangelista (Feltrinelli, 2009) e, essendo sia soggetto sia sceneggiatura della stessa autrice, del romanzo conserva quasi intatta la cifra e la profondità. Il tandem Muccino-Vangelista dopo la scritura a quattro mani di "Parlami d'amore" e la realizzazione dell'omonimo film (Muccino per la regia, Vangelista per la sceneggiatura), mostra di possedere ben più d'una risorsa, con la rappresentazione di una storia che, per quanto a lieto fine e forse un po' buonista, è complessa ed articolata, puntando il dito su alcuni mali del nostro tempo.
E' una storia di formazione e di crescita a partire dalle infanzie e dalle adolescenze disastrate di Andrea e Livia che, per rimediare alle ferite profonde e mai sanate che portano dentro di sé, decidono di vivere in coppia, ma rinunciando all'espressione dei sentimenti e alla consapevolezza dell'amore come legame profondo, fertile e generativo. Vivono entrambi alla giornata e all'insegna dell'eccesso, senza preoccuparsi del dopo.
Il bimbo meticcio di otto anni, che irrompe sulla scena e di cui Andrea scopre di essere fratello rappresenta per ambedue un piccolo messia che porta con sé la Buona novella della trasformazione e della crescita interiore, comprensa l'assunzione della responsabilità degli affetti e della loro esplicitazione, che dovranno vincere la freddezza e la grettezza che gli sono stati inculcati attraversol'effetto isterilente dei soldi (dati a profusione ad Andrea da una madre sostanzialmente anaffettiva) e delle cose (i doni, i vestiti, i gioielli, i pacchetti-vacanze di cui è stata ricoperta Livia da un padre rimasto precocemente vedovo ed incapace di occuparsi affettivamente della figlia).
Un altro mondo, un altro modo sono possibili: il cambiamento e la trasformazione sono però difficili ed implicano un percorso arduo e pieno di errori, di soste e di ripartenze, dal viaggio che Andrea deve compiere per arrivare in Kenya, convocato dal padre morente a quello, formativo, che compie assieme al fratellino sulle strade del Kenya, sino alle difficile prove di convivenza assieme nei primi passi di una famiglia neo-costituita grazie al casuale ritrovarsi assieme di Andrea, Livia e Charlie.
La difficoltà del cambiamento risiede tutta - ed è questa la chiave di volta dell'intera vicenda - nella frase apodittica "Le cose non cambiano mai, cambiamo noi" che pronuncia la stessa Livia, nelle sue riflessioni mute a cui il regista dà voce.
Una frase semplice che, tuttavia, apre la porta ad un mondo di complessità, dal momento che i percorsi trasformativi del proprio Sè sono lunghi, complessi e dolorosi, sia che si compiano con l'ausilio delle psicoterapie, sia che vengano catalizzati dagli eventi di vita.
Questa è la sfida del film (come del romanzo): raccontare un percorso di trasformazione gruppale ed individuale al tempo stesso, un percorso che porta individui che vivono nella sofferenza come monadi separate, fingendo che tutto vada bene, alla riscoperta degli affetti, alla loro libera espressione senza timore di delusione e di tradimenti e, infine, allo strutturarsi di una famiglia vera con la possibilità, infine, donata (e, per alcuni versi, faticosamente conquistata) di lasciarsi alle spalle le brume di un passato doloroso e di riprendere un cammino interrotto.
Il film ha dei momenti toccanti, senza tuttavia indulgere al facile sentimentalismo e senza ricorrere a mezzucci per strappare al pubblico qualche lacrima in più.

Il film è espressione di un "buonismo" intelligente e colto: ma indubbiamente non si tratta di un "cinepattone".

IL TRAILER UFFICIALE

Carla Vangelista e Silvio Muccino hanno un sito web, costruito proprio in occasione della realizzazione del film: Un altro mondo

Scheda film
Un film di Silvio Muccino. Interpreti: Silvio Muccino, Isabella Ragonese, Michael Rainey Jr., Maya Sansa, Flavio Parenti, Greta Scacchi
Drammatico, durata 110 min. - Italia, Gran Bretagna 2010. - Universal Pictures uscita mercoledì 22 dicembre 2010.

sabato 18 dicembre 2010

Con “I maledetti e gli innocenti”, Francesco Viviano e Alessandra Ziniti firmano un romanzo sulla pedofilia ispirato a una storia vera


Nel diario di un cinquantenne, sequestrato in Sicilia durante un’indagine sulla pedofilia, è documentato l'abuso sessuale sui minori, prima subìto e poi perpetrato nel corso di un’intera vita.
Da questo documento messo agli atti di un processo, Francesco Viviano e Alessandra Ziniti, già noti al grande pubblico per inchieste giornalistiche di grande spessore, hanno tratto spunto per firmare il romanzo ‘I maledetti e gli innocenti’, pubblicato da Aliberti Editore nella collana Yahoopolis diretta da Edoardo Montolli (2010).
E’ un romanzo che, nato come “instant book (ma senza le sciatterie che contraddistinguono, in genere, i libri istantanei), affronta un argomento di scottante attualità, che ha sconvolto e che, purtroppo, continua a sconvolgere la vita di tanti giovani in tutte le parti del mondo, giovani che, a volte, da vittime si trasformano in carnefici, da innocenti in maledetti.

Francesco Viviano e Alessandra Ziniti, noti per le loro ottime prove di giornalismo d'inchiesta, con questo romanzo-verità propongono - a partire da una storia vera e dal diario di un pedofilo messo agli atti d'un procedimento giudiziario - una riflessione sulla pedofilia che, per come è articolata la narrazione, offre al lettore la possibilità di osservare le cose da un duplice vertice. Il punto di vista del pedofilo (l'Enzo Gastaldi del plot narrativo, ex-seminarista e poi insegnante a domicilio per i ragazzini del vicinato e del quartiere) che prima di diventare tale è stato a sua volta una "vittima", cui fa da contraltare lo sguardo d'una vittima di Enzo (Milena che, da ragazzina, era stata oggetto delle attenzioni di Enzo).

Il Pedofilo, esecrabile perché miete le sue vittime tra ragazzini innocenti che non hanno possibilità di difendersi, è il parto di un meccanismo senza fine che è molto difficile smontare: il racconto ci mostra come un pedofilo non nasce per caso, ma si configuri attraverso una serie di passaggi che, pur potendo presentarsi con molte varianti, sono in certo modo obbligati. Un soggetto che da adulto diviene pedofilo (e, dunque, un "maledetto" e un "tormentatore" di bambini, di ragazzini/e e, in ogni caso, di minorenni), in tenera età, è stato fatto oggetto, a sua volta, delle concupiscenze d'un adulto pedofilo.

Non tutti i bimbi che hanno subito una tale sorte sono destinati a diventare a loro volta pedofili, ovviamente: altri reagiscono alle forme di abuso patite in altri modi, imparando a sviluppare meccanismi psichici difensivi che metteranno a repentaglio il loro futuro evolutivo oppure semplicemente rimuovendo i ricordi più penosi che potrebbero essere recuperati all'improvviso e traumaticamente, come nel caso della Milena della storia.
Nello stesso tempo, quando si tratta questa materia bisogna rifuggire il rischio di cadere in rappresentazioni stereotipate (e di tipo rigidamente binario), frutto di ignoranza e di pregiudizio.
Ciò che impressiona della storia di Viviano e Ziniti è proprio questo: a differenza dell'adulto violento nei confronti dei minori, il pedofilo immette nella sua vittima un veleno sottile e insidioso che sarà molto difficile da eliminare e che svilupperà in seguito una sua azione specifica.
Il “veleno” instillato nella giovane mente innocente, ancora in fase di latenza dal punto di vista psicosessuale o appena all’esordio dell’esplosione adolescenziale, attiva in maniera anomala livelli di eccitazione scaturenti dalla sovra-stimolazione delle zone erogene, senza che questa tempesta sensoriale possa essere sufficientemente elaborata ed inglobata armonicamente nell’organizzazione della personalità e con la funzione strutturante di educazione e cultura.
Questo è appunto uno dei meccanismi più potenti che porta alla perpetuazione della pedofilia. L’innocente, man mano che si trasforma in adulto, tenderebbe a ricercare attivamente proprio quelle forme di eccitazione sperimentate, quando la sua mente e il suo cervello emozionale erano ancora “vergini”, e – spinto dalla sua pulsione – è capace di coinvolgere abilmente nuove “vittime”, perché – sulla sua pelle – ha imparato come fare, essendo rimasta dentro di lui una memoria potente ed inestinguibile dei meccanismi di seduzione e di “deviazione” da utilizzare in ogni nuovo approccio, con una sostanziale debolezza dei freni morali nel prevalere di un bisogno di soddisfacimento sentito come ego-sintonico.
Il circuito, tuttavia, può essere interrotto, se solo la vittima innocente di ieri, candidata a divenire pedofilo nel suo domani, favorito dalle sue circostanze di vita riesce ad acquisire consapevolezza dell’anomalie delle sue pulsioni, attivando al contempo dei freni morali che lo distolgano dall’ineluttabilità della ripetizione di un’azione complementare rispetto a quella subita nel suo passato.
In alcuni casi l’esposizione al trauma iniziale è stata così massiccia e le circostanze di vita tanto avverse sono state così massicce da impedire lo svilupparsi di un benché minimo barlume di consapevolezza.
In questo senso, il romanzo-inchiesta dei due giornalisti offre una rappresentazione del fenomeno della pedofilia non convenzionale e fuori degli schemi che, in una certa misura, può indubbiamente spiazzare ed inquietare il lettore che viene a trovarsi davanti ad una scrittura in cui la divisione tra “innocenti” e “maledetti” non è così netta come si vorrebbe, a scopo di mera rassicurazione.
Tra le “soglie” del romanzo non è convincente, tuttavia, la sovrascritta nella parte alta della prima di copertina della frase “Nelle pagine di un religioso il più ignobile dei peccati”, inserita per motivi più di tipo commerciale e per attivare la curiosità morbosa del potenziale lettore.
Il protagonista della vicenda, Enzo Gastaldi, infatti, non è né un prete e nemmeno un ex-prete, ma soltanto un ex-seminarista poi tornato alla vita laica senza aver preso i voti, come accade a tanti di essere mandati in seminario dai genitori per risparmiare sulle spese scolastiche. E, in ogni caso, le sue esperienze di iniziazione sessuale omofila da parte di un adulto avvengono ben prima dell’ingresso in seminario.
“I maledetti e gli innocenti” non è di lettura agevole, proprio per la natura dell'argomento e, indubbiamente, si procede a fatica. Non perchè sia scritto male. Tutt’altro. Ma non è bello dovere scendere nel maelstrom dell'anima di un uomo, nel cui percorso di crescita esperienze precoci hanno radicalmente eroso alcuni punti di riferimento fondamentali, impedendo lo strutturarsi di corrette direttive morali.

La storia più nel dettaglio
Il titolo di un giornale, relativo all’arresto del “pedofilo del doposcuola”, risveglia nella protagonista, Milena, felicemente sposata e madre di tre figli con una vita del tutto normale fatti accaduti durante la sua infanzia e che lei sperava, completamente dimenticati. Quella notizia appresa casualmente fa riaffiorare alla sua coscienza un passato del tutto dimenticato e, per l’appunto del tutto “passato”. Quello che riemerge in lei è il trauma rimosso di un’infanzia violata, un segreto mai condiviso con nessun altro.

«Impallidii e chiusi di scatto il giornale scagliandolo con un gesto rabbioso lontano da me. Che diritto aveva, trent’anni dopo, di tornare nella mia vita, adesso che ero una donna serena, sposata con un uomo che mi aveva dato amore e fiducia, con tre figli che erano il mio orgoglio e la mia rivincita?»
«Il pedofilo del doposcuola. Solo il titolo dell’articolo mi causò un violento conato di vomito che mi costrinse a sedermi al tavolo della cucina. Per fortuna che Daniele, mio marito, era uscito per andare in università e che i ragazzi erano tutti fuori, Marco e Andrea alla solita partitella di calcio e Sofia, la piccolina, a giocare da un’amichetta. Mi costrinsi a leggere l’articolo che raccontava dell’arresto di quel mostro che conoscevo così bene».
Enzo Gastaldi, di umili origini, ex-seminarista, impiegato modello, arrotondava lo stipendio dando lezioni ai ragazzini del quartiere. Poi nel corso del tempo, aveva iniziato a servirsi della tecnologia contemporanea: foto, riprese video, internet e, a tradirlo, ormai cinquantenne è stata proprio la rete, dove è stato intercettato dagli investigatori del Nucleo telematico.
Milena , nel leggere l’articolo sul giornale, si trova a rivivere il trauma della sua infanzia violata, ma desiderosa di ricordare tutto, fare finalmente chiarezza, chiudendo definitivamente con una parte dolorosa del suo passato, decide di andare a fondo.
Ritorna nello stabile, dove da piccina abitava con la madre e utilizzando una vecchia chiave di riserva che, secondo le regole del buon vicinato, l’Enzo Gastaldi aveva affidato loro (per eventuali emergenze), entra nell’appartamento che era stato teatro della sua precoce iniziazione e va alla ricerca di una scatole contenente – come sapeva già – i ricordi più preziosi di Enzo e un suo diario.
La scatola custodita nel ripostiglio di una armadio contiene lettere, foto, una ciocca di capelli, una collanina con una croce d’argento, un Vangelo con la dedica di un sacerdote, il campanello arrugginito di una bicicletta, un soldatino di piombo, delle conchiglie e un quaderno, avvolto in carta da pacco dello stesso color legno del mobile.
Il diario di Enzo Gastaldi, in cui è lui in persona a raccontare, capitolo dopo capitolo, le sue esperienze di bambino e di adulto, inclusa l’iniziazione di Milena, illustra il percorso da innocente a maledetto.
Milena legge, a fatica e con dolore, lasciando per ultimo il capitolo che la riguarda. Quello lettura sarà il disvelamento finale di un aspetto perturbante, proprio perché rimosso a lungo della sua storia personale. La lettura del diario e, in retrospettiva, del frammento di storia che la riguarda avrà per Milena una funziona catartica e terapeutica che le consentirà di archiviare il passato una volta per tutte.

Gli autori
Francesco Viviano, inviato di «Repubblica», ha seguito tutti i maxiprocessi di mafia, analizzando l’evoluzione di Cosa nostra dalle stragi a oggi. Inviato in Iraq e in Afghanistan, è stato insignito di numerosi riconoscimenti e nominato “Cronista dell’anno” nel 2004, 2007 e nel 2008. Per Aliberti ha pubblicato Michele Greco, il memoriale (2008), Mauro De Mauro. Una verità scomoda (2009), Morti e silenzi all’università (2010) e I misteri dell’agenda rossa (2010)
Alessandra Ziniti, inviata di «Repubblica», ha seguito tutte le grandi inchieste di mafia e di cronaca in Sicilia. Insieme a Francesco Viviano ha vinto il premio Cronista dell’anno nel 2008 e sempre con lui ha pubblicato per Aliberti Morti e silenzi all’università. Il laboratorio dei veleni (2010) e I misteri dell’agenda rossa (2010).

lunedì 13 dicembre 2010

L'abbraccio, potente antidoto della solitudine


Un abbraccio è un gesto volto ad esprimere affetto o amore, consistente nello stringere le braccia e le mani attorno al corpo di un'altra persona.
Si tratta di una delle forme di effusione più diffuse fra gli umani, insieme al bacio.
Rispetto a quest'ultimo, però, viene di norma considerato un'espressione di generico affetto, tanto è vero che nella maggior parte delle culture e società può essere praticato indifferentemente fra familiari e amici, oltre ovviamente che fra amanti, senza limitazioni di sesso o di età e tanto in pubblico quanto in privato senza incorrere in alcuna forma di stigmatizzazione o riprovazione sociale.
In generale, un abbraccio può rappresentare un'effusione romantica o una generica forma di affetto verso una persona, ad esempio un modo per manifestare gioia o felicità nell'incontrare o salutare qualcuno. Alternativamente, un abbraccio può essere volto a confortare o rincuorare qualcuno.
In definitiva, si tratta di un gesto che esprime affetto in una vasta gamma di gradi.
Esistono evidenze scientifiche secondo le quali gli abbracci avrebbe un effetto benefico a livello fisiologico: alcuni studi avrebbero infatti dimostrato come essere abbracciati aumenti il livello di ossitocina e abbassi contemporaneamente la pressione sanguigna.
Pur essendo particolarmente diffuso fra gli esseri umani, l'atto di abbracciare non è esclusivo di questa specie, in quanto sono state osservate forme equivalenti di questa effusione fra diversi mammiferi, specialmente fra le scimmie antropomorfe, tra le quali è un elemento importante per la coesione sociale, come anche il grooming ampiamente descritto dagli etologi, cioè l'operazione di spulciamento reciproco.
Sul tema dell'abbraccio è uscito di recente il delicato e profondo libretto scritto da David Grossman, corredato dalle splendide ed eteree illustrazioni di Michal Rovner (Mondadori, 2010).
E' un breve, folgorante apologo sulla solitudine e sull'amore, scritto da uno dei più amati autori della grande letteratura contemporanea, e illustrato con i disegni di Michal Rovner, un'artista nota in campo internazionale, che ha esposto anche al Madre di Napoli e di cui è in allestimento una personale al Jeu de Paume di Parigi.
Piccolo libro, elegante e raffinato, L'Abbraccio è quasi un dono di David Grossman ai suoi lettori, perché ne facciano a loro volta dono alle persone che amano.

L'individulaità e l'unicità di ciascun individuo presuppongono la solitudine.
Come fare a superare la solitudine indistricabilmente scaturente dalla consapevolezza dell'unicità di se stessi come singolo individuo?
Una madre, camminando con il proprio figlio, gli dice che lui è unico. Il bambino le risponde che questa unicità lo spaventa, perchè lo fa sentire solo e, a sua volta, chiede alla mamma, se anche lei sia unica e se questa consapevolezza non la faccia sentire sola.
Anche le formiche a prima vista così uguali, sono uniche secondo la mamma.

Il bambino con una sua logica stringente ribatte che se tutti sono unici, allora tutti sono soli.
La mamma gli dice che questo è vero: anche lei è unica e sola come lui, ma se si abbracciano non sono più soli.

"Allora abbracciami", dice il bambino. La mamma allora lo stringe a sé, sentendo il cuore del bambino battere forte e lasciando che lui potesse sentire di rimando il suo.
"Adesso non sono più solo"
si disse il bambino.
E così la madre gli spiegò che era per questo che era stato inventato l'abbraccio.

Noi contemporanei ci siamo dimenticati della potenza e dell'intimità di un abbraccio
Un esperto di piscologia della coppia asserisce che, oggi, molti non sono più in grado di abbracciare (e soprattutto di mantenere a lungo l'abbraccio), perchè non riescono a reggere l'intensità della comunicazione non verbale e il grado di intimità che, proprio attraverso l'abbraccio, si realizzano.
L'abbraccio è un modo di stabilire un contatto, consolidando il senso di unione e di appartenenza, a prescindere dalla dimensione dell'Eros (che non ne è l'unica componente, anche se ne costituisce l'humus fertile, considerando l'Eors nel senso più universale possibile).
Il inguaggio dell'abbraccio è veramente universale.
L'apologo di Grossman ci riconduce a questo significato primigenio dell'abbraccio, riallacciandosi senza volerlo al movimento dei "free hugs", inventato dall'australiano Juan Mann che cominciò a mettere in pratica la libertà di ricevere e dispensare abbracci "gratis" (free hugs, appunto).
Chi ha praticato i free hug può testimoniare che si tratta di un'esperienza davvero intensa (ed anche gratificante), sia per chi dispensa gli gli abbracci, sia per chi li riceve, proprio perchè nell'abbraccio c'è una totale reciprocità e si attiva un dono scambievole, se soltanto si riesce a venir fuori dalle interpretazioni monocordi, monolitiche e sostanzialmente prive di fantasie dell'immaginario televisivo, omologante e piatto.


Dal sito Free Hugs. Abbracci liberi. La libertà di regalare abbracci
(liberamente modificato).
A volte ricevere un abbraccio è tutto ciò che ci serve. “Free Hugs” (abbracci gratis. ma anche liberi) è la reale e controversa storia di un ragazzo australiano: Juan Mann, un uomo ed il suo obiettivo, l’unico ed importante, quello di raggiungere una persona sconosciuta ed abbracciarla, illuminando e portando gioia alla vite di entrambi.
In questa epoca di separazioni sociali e di mancanza di contatti umani gli effetti della campagna di abbracci liberi lanciata da Juan Mann sono sensazionali. Mentre Juan Mann, icona di una nuova umanità, spargeva la speranza per la città, la polizia e l’amministrazione pubblica vietarono la campagna per la diffusione degli abbracci.
Quello che successe poi e di cui siamo testimoni rappresenta la vera essenza di una umanità che si unisce, unione che diventa un’onda e che si diffonde per il mondo divenendo fonte di ispirazione e di crescita.
Furono raccolte 10,000 firme per chiedere di annullare i divieti, e il 22 settembre 2006 il filmato sugli abbracci di Juan Mann fu messo on-line su youtube, raggiungendo in un mese il tetto di ben 4 milioni di download.
Tanti presero ad emularlo ed il movimento dell' “abbraccio libero” si diffuse nel il mondo.

Chiunque, volendolo, puà diventare un "freehugger", scendere per strada a liberare abbracci, liberando se stesso abbracciando.
In fondo, se si riuscisse a condividere anche un solo abbraccio, ciò sarebbe un grandissimo dono che si fa e si riceve… e il mondo sarebbe sicuramente migliore.

Il libro di Grossman si innesta proprio in questo filone di pensiero, fornendone una rappresentazione delicata e poetica.

mercoledì 1 dicembre 2010

"Tecniche di resurrezione", un grande affresco storico in cui Gianfranco Manfredi racconta la nascita della Medicina moderna



Tecniche di resurrezione (Tdr) è l’ultimo romanzo di Gianfranco Manfredi (Gargoyle, settembre 2010) che, pur ponendosi come il seguito delle avventure di Aline e Valcour de Valmont, iniziate in Ho freddo, può essere letto in modo del tutto autonomo.
Aline e Valcour sono ritornati nel Vecchio Mondo, ma all’esordio della vicenda sono separati: mentre il secondo si ritrova a Londra, Aline è a Parigi, per tentare di rientrare in possesso del patrimonio di famiglia. Entrambi, pur separati e in contesti diversi (anche ideologicamente) continuano a coltivare i propri interessi scientifici.
La narrazione propone un impressionante affresco storico del periodo di transizione tra la Rivoluzione Francese e il trionfo dell’impero napoleonico, in una dimensione in cui lo scientismo prende sempre più piede grazie alle recenti scoperte del galvanismo con il riconoscimento degli effetti di correnti elettriche applicate ad esseri, viventi o morti, o a parti di tessuti anatomici dissezionati e del loro potere “resuscitante”.
Gli scenari narrativi sono complessi, caratterizzati dall’intersezione tra la ricostruzione storica e d’ambiente – sempre accuratissima – e la disamina delle ossessioni dei medici del tempo scaturenti dai progressi della scienza medica, ma ancora gravati dalle incrostazioni d’un passato di superstizioni e false credenze: l’elettrogalvanismo, gli interrogativi sulla facoltà della nuova scienza di poter resuscitare chi fosse già stato dichiarato morto (almeno sulla base delle conoscenze del tempo), sino alla possibilità di creare la vita ex-novo, ossessione quest’ultima che, nelle sue declinazioni demiurgiche, prenderà corpo in modo emblematico – poco più di un decennio più tardi dell’epoca degli eventi narrati da Manfredi – nel romanzo di Mary Shelley, Frankenstein o il Moderno Prometeo, ma anche l’identificazione di meccanismi fisiologici sino a prima sconosciuti e delle correlazioni possibili tra funzioni e parti anatomiche prima trascurate e un’attenzione nuova e attenta al cervello e alle leggi del suo funzionamento.
Se Ho freddo includeva nella sua trama l’ossessione per le epidemie vampiriche del XVIII secolo quando superstizione e scienza si incontravano in un groviglio ancora difficile da dipanare, in Tdr, invece, si entra più direttamente nel positivismo e nello scientismo, nelle cui pieghe – tuttavia – fantasmi e paure oscure continuano a sopravvivere.
Il vero orrore, nella narrazione di Manfredi, sta tutto nella rappresentazione della scienza medica che per potersi evolvere deve esercitarsi in consuetudini macabre e terribili, come l’applicazione di correnti elettriche al corpo di coloro che erano stati giustiziati, oppure tollerare (se non addirittura incoraggiare) tutte le necessarie pratiche clandestine messe in atto dai profanatori di tombe per il reperimento dei cadaveri da dissezionare in sala settoria: una merce importante e preziosa per potere incrementare sempre di più la precisione delle conoscenze anatomiche e la corrispondenza tra alterazioni di organi e tessuti e le malattie.
Non è facile (ed è forse riduttivo) rubricare il romanzo di Manfredi come narrativa “horror”: sì, alcuni elementi propri dell’horror ci sono, ma sembrerebbe che siano piuttosto degli elementi “incastonati” nell’intreccio e che servono ad approfondire (arricchendone le sfaccettature) un testo di ampio respiro che ha le qualità del romanzo storico (più decisamente “storico” di quanto non fosse Ho freddo che, invece, possedeva maggiormente le caratteristiche del conte philosofique).

Un romanzo che si muove tra storia e filosofia della scienza
Guardando più nel dettaglio, la storicità del romanzo di Manfredi si muove su due diversi binari: da un lato, vi è la contestualizzazione storica nel periodo che vede l’Inghilterra allarmata per l’imporsi sullo scenario europeo di Napoleone Bonaparte, primo Console e prossimo all’incoronazione come Imperatore (evento che chiudeva di fatto gli anni della Rivoluzione Francese, pur non estinguendo la ventata libertaria e indipendentista che percorre l’Europa), ma vi sono anche aperture verso il Nuovo Mondo (che risuona nelle narrazioni dei due protagonisti reduci dall’avventura in America e del pastore Jan Vos, con la cui morte si concludeva Ho freddo) e verso il mondo esotico, misterioso ed esoterico dell’Egitto, portato alla ribalta dalla spedizione napoleonica in Africa; in parallelo, vi ritroviamo una dimensione storica di tipo scientifico, con il progresso della scienza in generale, illustrato ad esempio con l’episodio, gustoso e singolare, del viaggio attraverso La Manica in mongolfiera, e della scienza medica più nel dettaglio.
Alcuni, nel commentare Tdr hanno proposto un parallelismo (e un’assonanza) con il citato romanzo della Shelley, ma in verità i punti di contatto tra i due romanzi sono da rinvenire esclusivamente nella potenzialità della correnti elettriche che, applicate a un corpo apparentemente morto, possono ridare la vita e “resuscitare”.
Il testo della Shelley, fortemente imbevuto di quesiti filosofici, si occupava principalmente dell’estrapolazione demiurgica della nuova scienza: e, in questo, vi si può ravvisare una persistente modernità (che non manca di stupire il lettore moderno), proprio perché senza volerlo si pone come atto di denuncia sulla pericolosa disinvoltura dello Scienziato che ritiene di potere agire come demiurgo che “crea” la vita, anziché astenersi sulla base del semplice “principio di precauzione”); e in tal senso attiva una riflessione sempre d’attualità.

La letteratura e l’avanzata della scienza: da Frankenstein a Next…
Frankenstein è entrato con forza nell’immaginario di molti, anche grazie alla mediazione delle molteplici rappresentazioni cinematografiche della storia (non ultima quella in chiave satirica e nondimeno geniale del grande Mel Brooks).
Lo si può considerare uno dei primi romanzi che si pone degli interrogativi filosofici sull’avanzare della scienza e sulla responsabilità morale dello scienziato sui guasti che potrebbero verificarsi a causa dell’applicazione avventata di nuove tecnologie e con il mancato rispetto del “principio di precauzione”.
In questo senso, ha rappresentato una pietra miliare, perché ha importato nella letteratura gli interrogativi più inquietanti posti dal progresso.
Non a caso, il “mostro” rimane senza nome, il “Frankestein” del titolo è lo scienzato-demiurgo, perseguitato come da un’ombra dalla creatura infelice cui ha dato vita che è la testimonianza vivente della sua hubris.
Dentro ogni scienziato, oggi – come ieri – alberga un Frankenstein che si protende sull’abisso, pronto ad infrangere i limiti posti dall’etica per inseguire la sua brama epistemofilica.
Anche in Tdr sono presenti diversi aspetti che attengono alla ricerca scientifica di quel tempo e che trascinano con sé altrettanti quesiti filosofici:
1. il confine tra la vita e la morte: quando un essere vivente può considerarsi veramente morto? Quando cessa la possibilità di rianimarlo? Qual è la differenza tra interventi di rianimazione e “resuscitanti”? È lecito mettere in opera simili interventi?;
2. la correlazione tra le correnti elettriche e il funzionamento della macchina-uomo. Se le correnti elettriche provocano dei fenomeni cinetici nei tessuti o in parti anatomiche isolate, possono essere utilizzati per ridare vita ad un corpo morto;
3. le correlazioni tra certe parti del cervello che secernono delle sostanze chimiche e il funzionamento corporeo (su quest'aspetto si innesta la ricerca dell’inquietante figura costituita dal Doctor Ending);
4. la correlazione tra il progredire della Scienza e l’estendersi delle conoscenze, da un lato, e – dall’altro – la persistenze influenza di esoterismo e sottili forme di superstizione (e di conseguenza, attiva indagine sui fenomeni parapsicologici). Come integrare questi aspetti così diversi? Sono compatibili in una visione sempre più moderna delle cose?.
È chiaro che quesiti come questi che a noi appaiono normali (o addirittura superati) potessero apparire agli albori della scienza medica esoterici o addirittura pericolosi, in quanto frutto dell’esercizio di stregoneria o di arti magiche o occulte, sino a sconfinare nel reame delle scienze “oscure”.
Proprio contro questi pregiudizi, i pionieri della ricerca medica nei primi decenni dell’Ottocento si trovarono a lottare per affermare il primato della ragione, a volte scivolando proprio su quei pregiudizi che intendevano combattere, e senza volerlo alimentandoli.
Nel corso del tempo, il limite tra ciò che è morale e ciò che è immorale si va spostando di continuo: questo è un dato di fatto.
Tuttavia, è anche giusto e opportuno che debbano essere posti dei confini non tanto alla ricerca scientifica, quanto piuttosto ad alcune possibili applicazioni ed estrapolazioni di ritrovati della scienza, come ci avverte il recentissimo film Splice o sembra dirci Next (uno degli ultimi romanzi di Michael Crichton prima della sua scomparsa) nei quali si vede bene come gli scienziati operano esclusivamente al servizio di interessi privati o del proprio stesso interesse (ambizione, desiderio di gloria, personali ossessioni), portando quindi la ricerca in quelle direzioni che potranno essere potenzialmente remunerative o sollecitanti/gratificanti per il proprio Ego, senza tenere in alcun modo in conto la necessaria prudenza nell’andare dritti alle applicazioni commerciali delle proprie scoperte (e rispettosi del cosiddetto “principio di precauzione”).
Il tema scientifico presentato in Tecniche non è tanto quello dell’immortalità – come alcuni hanno ventilato – che è al di là della scienza o del potere demiurgo dei prometeici Frankenstein della Scienza, bensì quello della a messa a punto e dell’applicazione di “tecniche di resurrezione” sempre più efficaci, dal momento che esattamente in quegli anni gli uomini (i medici, gli scienziati, ma anche gli umanisti e i filosofi) cominciavano a riflettere sui confini della vita e sulla definizione di morte.
Quando si è definitivamente e completamente morti?
Come si fa a riconoscere uno che è completamente morto, da uno che, pur sembrando morto, potrebbe ancora risvegliarsi?

Questo l’interrogativo che i medici del tempo e le persone comuni cominciarono a porsi con sempre maggiore insistenza, in alcuni casi sino a rasentare l’ossessione.
Il galvanismo, cioè l’applicazione delle correnti elettriche ai cadaveri e ai soggetti morti da poco tempo, sposò efficacemente questa ossessione, mentre in parallelo si cominciava ad approfondire l’importanza delle correnti elettriche nel funzionamento degli esseri viventi.
L’applicazione della corrente elettrica ai cadaveri, e il fatto che i muscoli – se adeguatamente stimolati – potessero avere delle contrazioni alimentò la fantasia che, pur sembrando morti, si potesse essere ancora in vita: da qui una serie di consuetudini che si radicarono proprio in quegli anni per garantire che in caso di risveglio il “morto” potesse essere messo in salvo.
L’attesa di molte ore prima di procedere alla sepoltura, il collegare uno degli arti del defunto ad una cordicella che avrebbe fatto suonare una campanella in caso di improvvisi movimenti: furono tra i tanti dispositivi messi a punto per placare l’ansia (e in alcuni la fobia) del seppellimento prematuro (di cui è un magistrale esempio il racconto di Edgar Allan Poe, “La sepoltura prematura”) che ci accompagna sino ai giorni nostri in molte varianti della narrativa horror (nota 1).
D’altra parte è noto che proprio l’applicazione di una forte corrente elettrica al cuore faccia parte del protocollo delle tecniche di rianimazione utilizzate oggigiorno in caso di arresto cardiaco, come step ulteriore rispetto al cosiddetto “massaggio cardiaco” accompagnato da insufflazioni polmonari.
Il romanzo di Manfredi ci parla di queste cose e del difficile percorso compiuto dalla medicina scientifica (rappresentata da Aline e Valcour) sia nel suo approccio “curativo” sia nelle sue funzioni più estreme di un insieme di pratiche “resuscitanti” e quasi miracolose.
È chiaro che, quando il medico – pur in nome della scienza – applica in modo avveniristico delle tecniche resuscitanti ancora non consolidate e di tipo “sperimentale” si riveste – senza nemmeno volerlo di un’aura carismatica e stregonesca, dal momento che il potere di “ridare” vita confina inevitabilmente con quello – speculare – di somministrare la morte (vedi ancora l’inquietante figura del Doctor Ending in Tdr).
È questo il difficile percorso che Aline e Valcour sono stimolati a percorrere, dovendo contrastare, da un lato, l’interessamento – ben poco umanitario – di chi vuole sfruttare questi nuovi ritrovati per consolidare il proprio potere politico e, dall’altro, l’opposizione anche violenta di chi vorrebbe frenare lo sviluppo di conoscenze scientifiche limpide e certe, mantenendo invece sugli ignoranti un potere derivante dalla forza delle superstizioni (il Doctor Ending tra questi personaggi occupa una posizione sicuramente emblematica).
Nello stesso tempo, lo sforzo scientista di Aline e Valcour non è alieno dal cogliere anche certe istanze sociali.
Se Aline rappresenta la ricerca “pura”, Valcour – pur ricercatore – è anche un medico pragmatico e “filantropo” che piega le scoperte della scienza e le nuove acquisizioni in tema di metodi terapeutici alle esigenze della “cura”, rivolgendosi sia ai ricchi e agli aristocratici benestanti, sia ai meno abbienti che, a quei tempi, vivevano in condizioni di grande disagio e di totale assenza di igiene, cause primarie di patologie.
Con Valcour vengono tratteggiati i grandi temi della Medicina applicata che, accanto a quello della ricerca e dell’applicazione di nuovi metodi di cura, è quello dell’impegno sociale e filantropico con l’avvio di interventi di educazione sanitaria e curativo/terapeutici, indirizzati ai poveri, con la ricerca di luoghi idonei per lo svolgimento di questa “mission” (grazie alle donazioni dei ricchi, sensibilizzati a questa causa), a tutti gli effetti precursori dei moderni ospedali.


Tecniche di resurrezione, un grande affresco storico…
Detto questo, a me sembra che Tdr di Manfredi sia veramente un grande romanzo, perché presenta un affresco della società inglese (in clima di restaurazione) e francese (reduce dalla Rivoluzione),con tutti i fermenti culturali del tempo in cui lo scientismo, tipico prodotto dell’Illuminismo, comincia a ricevere potenti contaminazioni dalla nascente anima romantica. Un testo costruito abilmente con una miriade di personaggi, in cui ciascun capitolo è in se stesso una sorta di “puntata”: Manfredi, anche per via del suo curriculum di sceneggiatore di fumetti cult come Magico Vento e Volto Nascosto ha saputo abilmente importare nell’elaborazione del romanzo la sua capacità di dar vita a delle narrazioni che, pur rispondendo a un’unica trama molto articolata, presentano nello stesso tempo dei micro-episodi ciascuno dei quali è compiuto in se stesso come, ad esempio, le storie attorno all’ex-guida napoleonica Salvy San Subra, affetto da una misteriosa sindrome, al cui capezzale viene chiamato Valcour dal Primo Console in persona, o altri episodi sulla campagna d’Egitto).
E, in effetti, nel leggere l’opera di Manfredi quello che succede è proprio questo: si finisce un capitolo, si fa una pausa e subito si desidera passare ad immergersi in quello successivo. E, intanto, la schiera dei personaggi (molti dei quali “storici”) tratteggiati a tutto tondo dalla penna dell’autore si va infoltendo sempre di più.
Ho freddo, così come Tdr, è fondato su di un’approfondita attenzione storiografica, su ricerche d’archivio, ma anche su sopraluoghi minuziosi, effettuati nei luoghi descritti.
È quest’aspetto che rende unica e originale la storia che, a differenza di altre (anche nella forma filmica) in cui viene, invece, presentato sempre lo stesso canovaccio (in cui a cambiare sono solo i luoghi, le date, i nomi dei personaggi, ma non la sostanza).
La godibilità di un romanzo sta nel fatto che aiuti il lettore a sognare (quando l’accento è posto sulla dimensione fantastica) oppure a viaggiare nel tempo e nello spazio.
Un viaggiatore (che non sia semplicemente turista) ha bisogno di informazioni attendibili e soprattutto gli deve essere data la possibilità di immergersi nel contesto, impregnandosi della sua sensibilità (che è anche quella della struttura intrinseca del pensare e di costruire rappresentazioni del mondo di chi lo abita).
In un romanzo che sia ambientato in un luogo e in epoca precisi del passato, un passato che è nostro e che, nello stesso tempo, non ci appartiene più, è estremamente importante l’accuratezza delle ricostruzioni storiche (perché nel frattempo noi siamo andati avanti sia sotto il profilo delle tecnologie, sia sotto quello della sensibilità e del modo di pensare). Ci sono due modi di scrivere del passato (oppure di farne dei film), profondamente divergenti uno dall’altro: ricostruirlo con le categorie mentali del Presente, oppure cercare di farlo rivivere così com’era, con accuratezza e precisione.
In tanti film made in USA quello che accade è l’americanizzazione del passato: nel senso che vicende, anche lontanissime, vengono rivisitate in modo da essere in sintonia con il gusto americano contemporaneo e, se tale processo implica, un imbastardimento della verità storica e della rappresentazione dei costumi e delle tecnologie, poco importa.
Il passato diventa così il luogo delle nostre proiezioni di uomini del presente, una mera convenzione: il racconto è ambientato nel passato, ma ad esso sono applicate spudoratamente tutte le categorie e i modi di sentire propri del presente.
Credo che questi due romanzi di Gianfranco Manfredi, proprio per questi motivi, escano dal genere ed entrino a pieno titolo nel solco della grande letteratura
Tdr è un romanzo assolutamente da leggere: un romanzo che anche grazie alla profusione dell’apparato di note che lo arricchiscono consente di imparare la storia, dedicandosi ad una lettura che solo apparentemente è leisure e intrattenimento.
Il romanzo è arricchito da un’introduzione di Carlo Bordoni, intitolata “Prima di Frankenstein”, in cui si pone l’accento sui progressi della scienza e delle conoscenze neurofisiologiche “prima di Frankenstein”.
Mentre al termine del volume, una nota finale redatta dallo stesso Manfredi racconta cosa accadde ad alcuni dei personaggi storici, dopo le vicende immaginarie in cui sono stati coinvolti.

La trama

1803. I gemelli Aline e Valcour de Valmont, ricercatrice scientifica lei e medico-chirurgo lui, sono tornati in Europa dopo una tragica esperienza americana che ha lasciato in entrambi ricordi angosciosi. A Londra, Valcour assiste a una dimostrazione galvanica dello studioso Giovanni Aldini, condotta sul cadavere di un impiccato. Nel corso dell'esperimento, Valcour rianima un uomo colpito da infarto.
Il brillante successo riportato lo precipita però in un agghiacciante intrigo.
Proprio mentre gli esperimenti di rianimazione stanno aprendo nuove prospettive alla medicina, un chirurgo folle conosciuto come Doctor Ending si rende responsabile di feroci delitti, trafugamenti di salme e clamorose provocazioni. Aline si trova, intanto, a Parigi, nella speranza di recuperare alcuni beni di famiglia sequestrati dopo la Rivoluzione, entrando in contatto con la Corte di Napoleone. In Francia, una generazione di novelli "medici dell'anima" si avvale delle prime esperienze ipnotiche per esplorare i segreti della psiche umana. Un caso in particolare, per quanto tenuto segreto, suscita inquietanti interrogativi.
Salvy San Subra, un'ex guida di Napoleone durante la campagna d'Egitto, è vittima di un processo di degenerazione cellulare che lo sta progressivamente mummificando. Quando Valcour raggiunge sua sorella a Parigi, scopre che tra il caso di Doctor Ending e quello di San Subra, intercorrono sotterranei quanto inspiegabili legami. La vicenda assume presto i contorni di un incubo che rischia di inghiottire i due fratelli.

Una nota bio-bibliografica su Gianfranco Manfredi
Cantautore, sceneggiatore, attore, scrittore, Gianfranco Manfredi nasce a Senigallia nel 1948, ma si trasferisce a Milano all'età di otto anni.
Studia Filosofia e si laurea con Mario Dal Pra.
Agli inizi degli anni Settanta, si divide tra la ricerca universitaria sull'Illuminismo francese e l'attività di cantautore: escono gli album La crisi (1972), Ma non è una malattia (1976), e il saggio L'amore e gli amori in Jean-Jacques Rousseau (1978). A un passo dall'ottenimento della cattedra in Storia della Filosofia, Manfredi decide di dare spazio esclusivamente alla sua vena artistica. Come cantautore realizza gli album Biberon, 1978; Liquirizia, 1979 (colonna sonora dell'omonimo film di Salvatore Samperi); Gianfranco Manfredi, 1981; Dodici, 1985 (in coppia con Ricky Gianco); In Paradiso fa troppo caldo, 1993; Danni collaterali, 2003; firma, altresì, brani per interpreti del calibro di Mia Martini, Gianna Nannini, e Gino Paoli. Inoltre, comincia a lavorare per il cinema come sceneggiatore: Samperi (Liquirizia, 1979, e Fotografando Patrizia, 1981) e Steno (Quando la coppia scoppia, 1981) sono solo alcuni dei registi con cui collabora. Come attore recita in Un amore in prima classe, 1980, e Fotografando Patrizia, è protagonista del Tv movie Kamikaze di Corbucci (1986), ed è tra gli interpreti di Via Montenapoleone di Carlo Vanzina (1987). Nel contempo inizia a farsi conoscere come romanziere distinguendosi da subito per la sua raffinata propensione a ibridare i registri narrativi e a rimaneggiare in modo del tutto nuovo i tòpoi della letteratura di genere, ottenendo il plauso di personalità come Oreste Del Buono e Pier Vittorio Tondelli. È autore di: Magia Rossa (Feltrinelli 1983, Gargoyle 2006), Cromantica (1985), Ultimi vampiri (Feltrinelli 1987, Gargoyle 2009 in Extended Version), Trainspotter (1989), Il peggio deve venire (1992), Una fortuna d'annata (2000) e Il piccolo diavolo nero (2001), Ho freddo (Gargoyle 2008, www.hofreddo.it - finalista Premio letterario Francesco Alziator - Comune di Cagliari 2009), Tecniche di resurrezione (Gargoyle 2010).
Manfredi è, inoltre, il creatore delle seguitissime serie Magico Vento (tradotta in diversi Paesi, attualmente al vaglio di opzioni cinematografiche americane) e di Volto Nascosto, editi dalla Sergio Bonelli.Gianfranco Manfredi vive e lavora a Gordona (Sondrio).
Ha un suo sito web: www.gianfrancomanfredi.com
(Nota 1) - -“La sepoltura prematura” (titolo originale:”The premature burial”) è un racconto di Edgar Allan Poe appartenente alla raccolta Racconti del terrore. Fu pubblicato per la prima volta nel 1844 su “The Philadelphia Dollar Newspaper”.
Il racconto, in verità un piccolo saggio, è costituito da alcuni esempi paradigmatici tratte dalla cronaca o circolanti come storie narrate a voce, di sepoltura di esseri umani ancora in vita, creduti morti a causa di un prolungato stato di coma o catalessi. Il brano evidenzia ripetutamente il terrore e l’angoscia che si provavano spesso, all'epoca, di fronte alla prospettiva di essere sepolti vivi.
Tale paura molto diffusa in passato si strutturava talora in forma di fobia: la cosiddetta “tafofobia” (dal greco taphos, sepolcro) con possibili correlati psicopatologici, derivante dalla paura di essere sepolti vivi, quale risultato dell’errata constatazione della propria morte.
Questa paura, soprattutto al giorno d’oggi, sembra essere abbastanza rara e appare più che altro come una forma estrema di claustrofobia. Oltretutto si è notato che il picco di tafofobia lo si ritrova in persone anziane che, nella loro giovinezza, sono rimaste profondamente colpite dalla lettura di racconti ispirati a questo fenomeno. Per questi motivi la tafofobia sembra non rivestire, oggi, eccessiva rilevanza clinica.
 
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