martedì 29 settembre 2009

Tarzan innamorato in Via Giusti

Questa storiella triste che parla di giungle e d'amori perduti è stata recuperata da un confronto foto-chiacchera tra Maurizio Crispi (foto) ed Enzo Cordovana (chiacchiera) pubblicato su un noto social network Temerari i due hanno deciso di pubblicarla sul blog di Vincenzo Cordovana (Varietà) e sul blog di Maurizio Crispi (Pensieri sparsi), sperando con ciò di poter fruire delle attenuanti previste dalla legge nei casi di concorso di colpa.


Un Tarzan innamorato nella giungla d'asfalto che pensa all'amore perduto, un romantico amore uomo scimmia. Nella giungla si vivono altre forme d'amore.
Interessante la "A" a triangolo isoscele.
Ricorda vagamente l'occhio di Dio.
Forse Tarzan starà facendo scuola guida.
Forse rimpiange la piena libertà di cui godeva nella vera giungla.
E' per questo che, nostalgico, ha urinato per terra.
Addio, liane!
Presto, Tarzan farà l'esame di guida e poi si comprerà un bel SUV con il quale potrà anche fare del fuoristrada e potrà tornare a vedere la giungla.
Allora, saprà che "scimmia" si scrive con due emme, ma di scimmie non ne vedrà neanche l'ombra, perchè le scimmie non si faranno vedere da lui.
Le scimmie decidono loro quando farsi vedere...
Questa storia è molto triste.
Maurizio Crispi & Vincenzo Cordovana
25.09.2009

Il 2 ottobre la Festa nazionale dei nonni: un bel modo per ricordare la funzione degli anziani come elemento di continuità tra le generazioni


Il 2 ottobre ricorre la «Festa nazionale dei nonni», istituita dal Parlamento Italiano con la Legge 31 luglio 2005, n. 159 quale "momento per celebrare l'importanza del ruolo svolto dai nonni all'interno delle famiglie e della società in generale".
Io non lo sapevo affatto...
L'ho appreso questa mattina attraverso una mail di una casa editrice e mi piace divulgare a tutti questa mia nuova conoscenza con questo piccolo post!!!
Tra l'altro, mi sembra che la motivazione sottesa all'istiuzione di questa speciale festa sia davvero bella ed encomiabile, in un momento in cui la società sembra dimenticarsi degli anziani e in cui, con l'evoluzione attuale della famiglia nucleare, la funzione dei nonni come custodi della tradizione e come tramandatori di storie, sembra essersi persa.
Per puro caso, quasi in concomitanza con questa mia "scoperta", mi erano venuti in mente alcuni versi di una delle più belle poesie di Carducci, Davanti San Guido, proprio perchè qui il Poeta, abbandonando il suo classicismo si abbandona al ricordo dell'infanzia e, soprattutto, dell'amatissima Nonna Lucia.
Sono stato a Bolgheri un paio di volte e devo dire che è un posto davvero magico e carico di sottili seduzioni, quasi non intaccato dal tempo che è trascorso: un
intimo luogo della memoria, allo stato puro, non rovinato dal turismo di massa, e visitato dai più come fosse un eremo, con lo spirito del pellegrinaggio, un posto dover fermarsi e contemplare.


O nonna, o nonna! deh com'era bella
Quand'ero bimbo! ditemela ancor,
Ditela a quest'uom savio la novella
Di lei che cerca il suo perduto amor!

Sette paia di scarpe ho consumate
Di tutto ferro per te ritrovare:
Sette verghe di ferro ho logorate
Per appoggiarmi nel fatale andare:

Sette fiasche di lacrime ho colmate,
Sette lunghi anni, di lacrime amare:
Tu dormi a le mie grida disperate,
E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare

(da Giosué Carducci, Davanti San Guido)

giovedì 24 settembre 2009

Pioggia autunno e foglia



Piove

Picchiettio di gocce sul tetto dell'auto

Piove

Vetri appannati

L'ansimare del tergicristallo
Ciuff-ciú, ciuff-ciú...
Veli d'acqua scorrono sul parabrezza
Il mondo si fa liquido
i suoi contorni indistinti, evanescenti

The Boss canta alla radio,
Sheryl Crow gli fa eco...
Nell'infinito dilatarsi del tempo
c'è l'attesa di ciò che voglio...

Ma l'onda mutevole e proteiforme
del mondo fluido e irrapresentabile
arriva a spezzare il desiderio,
proiettandolo ad una distanza siderale,
sino al punto in cui si é generato
e, così via, in un'eterna ricorsivita

Dopo la pioggia,
rimangono solo
un mondo d'acqua
e il grigiore dell'autunno
e foglie morte
nell'alone giallognolo dei lampioni

mercoledì 23 settembre 2009

La gang dei sogni: un grande affresco che sarebbe piaciuto a Sergio Leone


"La gang dei sogni" (Luca Di Fulvio, Mondadori, 2008) è un romanzo che si legge avidamente sino alla fine, senza un attimo di cedimento del desiderio di andare avanti.
Ha una struttura narrativa particolare, perchè dopo un inizio unitario con la storia di Cetta, del suo arrivo in America e dei suoi difficili inizi nel "nuovo mondo", la trama si faben più complessa. In questa prima parte, con l'affresco di Little Italy e del mondo brulicante degli immigrati che lottano per diventare "americani", il romanzo ricorda molto
"C'era una volta in America" e, sicuramente, sarebbe molto piaciuto a Sergio Leone.
Poi, la struttura narrativa si suddivide in tre filoni principali che riguardano i tre veri protagonisti di più di due terzi della storia, mentre Cetta - pur mantenendo la sua importanza - recede più sullo sfondo: è come se ci fosse il passaggio di una generazione, con il farsi grande del figlio di Cetta, Christmas che lotta per diventare "americano", secondo gli insegnamenti della mamma, ma nello stesso tempo impara a vivere ai margini, creando tuttavia una sua banda (tutto sommato benevola e fondata sulla fantasia più che sulla dura realtà); poi compare Ruth che, rappresentando la "buona società" scaturita da una prima ondata di immigrati, deve guarire - nel corpo e nella mente - da una violenta aggressione; ed infine Bill Cochrann, lo stupratore di Ruth, che si pone come una sorta di alter ego malvagio di Christmas.
Le storie dei tre stanno a contatto, divergono, tornano a intrecciarsi: e il piacere della lettura si fonda proprio sulla mutevolezza di questi tre percorsi di vita che, mentre si dipanano, portano il lettore a viaggiare attraverso gli States sino alla California, a Los Angeles e ai nascenti
studios hollywoodiani.
In queste pagine c'è tratteggiata anche tutta la storia dell'intrattenimento mediatico di quegli anni: i primi passi della cinematografia sia di quella "ufficiale", sia di quella clandestina (con la rappresentazione dell'oscuro mondo del porno e del suo filone sadico che preconizza i cosiddetti "stuff movies"), l'avventura dei grandi fotografi (come si vede nel percorso di Ruth che, attraverso la fotografia, ritrova una via di salvezza dal tunnel della depressione e dell'assenza di speranza, e che, con il suo interesse per i volti dominati dall'assenza di sorriso, ricorda molto Diane Arbus, anche lei di origine ebraica i cui genitori appartenenti ad una famiglia di pellicciai newyorkesi avevano fatto fortuna grazie all'intraprendenza del nonno), ma anche l'avventura della nascita delle grandi emittenti radio e del broadcasting.
Molto rappresentative le pagine sull'emittente radio clandestina - la KCK - fondata da Christmas e dai suoi amici, che ha all'inizio si basa su di un'unica trasmissione che è quella gestita spavaldamente da Christmas ("Buonantotte, New York..."). Christmas in questa avventura radiofonica riesce alla grande. I suoi podcast (come verrebbero chiamati oggi) sono avvincenti perchè, in essi, egli riversa la sua rabbia e le sue aspirazioni, mettendoci tutte quei racconti che ha raccolto di prima mano dalla strada, direttamente dalla viva voce dei protagonisti, oppure che ha avuto modo di osservare direttamente, vivendo una vita ai margini e di difficoltà in cui nulla è mai gratuito o dato per scontato.
Il podcast di Christmas ha successo perchè tutti gli ascoltatori s'identificano in esso: i diseredati, le prostitute, i piccoli delinquenti di strada, perfino i mafiosi, ma anche "the straight people" che, quel mondo di cui racconta Christmas, non lo hanno mai conosciuto direttamente.
E' il fascino del raccontar storie che viene esaltato in questa parte del romanzo... Ed è il fascino della sua capacità di raccontare storie che molti di coloro che Christmas incontra subiscono. Christmas, attraverso l'etere, diviene il cantastorie di New York ed è così che si compie il processo del suo farsi "americano", secondo i suoi desideri, ma anchea coronamento del sogno di mamma Cetta.
Se è vero che i personaggi dei romanzi rappresentano sempre qualcosa dell'autore, allora la parabola di Christmas fa in qualche modo riferimento all'essere narratore di storie e affabulatore, perchè c'è il passaggio dalla parola parlata e detta alla frase scritta, dalla condizione di "contastorie" a quella di scrittore di sceneggiature e forse - un giorno - anche di romanzi.
Insomma: c'è anche (forse in una rappresentazione velatamente autobiografica) la parabola del farsi scrittore che - per riuscire - dev'essere in primo luogo un formidabile narratore di storie.
Come, peraltro, Bill Cochrann rappresenta l'animaccia nera di Luca Di Fulvio, quel che rimane del suo gusto per il thriller, ai cui clichè - coraggiosamente - il nostro scrittore non ha voluto rimanere confinato.
Insomma, "La gang dei sogni" è avvincente, molto ben scritto, con una prosa attenta ed esenziale, curatissima, senza una sbavatura. L'intreccio è magistrale, anche per tutte le sottostorie di cui è composto che confluiscono in un grande affresco capace di generare momenti di autentica commozione.
Per quanto riguarda il titolo, riporto qui una piccola notazione che mi ha trasmesso lo stesso Luca Di Fulvio - del quale ho l'onore di reputarmi amico (anche se non ci siamo mai incontrati di persona) - quando gli ho inoltrato una mia mail per dirgli delle mie impressioni alla lettura del suo romanzo e scusandomi se ancora non avevo scritto un mio commento su di esso:
Grazie per la Gang, che io continuo a chiamare Diamond Dogs perché quel brutto titolo mi è stato imposto e non farò mai più la sciocchezza di accettarlo. Non c'è mai ritardo con i libri; per fortuna sono merce senza data di scadenza. Sono i nostri critici che li trattano così, visto che non fanno più i critici ma i giornalisti di cronaca editoriale; sono loro che ti recensiscono nel primo mese e mezzo e poi mai più, tradendo il loro mestiere. Noi lettori, per fortuna, leggiamo quando ci va.
Sì, Bill è quel che resta della mia anima nera di scrittore.



lunedì 21 settembre 2009

Le nuvole tra scienza ed arte: un oggetto sempre mutevole ed inafferrabile



Mexico e nuvole, il tempo passa sull'America,
il vento suona la sua armonica,
che voglia di piangere ho.
Mexico e nuvole la faccia triste dell'America
il vento insiste con l'armonica,
che voglia di piangere ho.
Mexico e nuvole, il tempo passa con l'armonica,
il vento insiste sull'America,
che voglia di ridere ho
(Jannacci)

In origine le montagne avevano grandi ali.
Volavano per il cielo e si fermavano sulla terra, seguendo il loro piacere.
Allora la terra tremava e vacillava.
Indra recise le ali alle montagne.
Fissò le montagne alla terra per renderla stabile.
Le ali diventarono nubi.
Da allora le nubi si raccolgono attorno alle cime.
(Un’antica leggenda, citata da Roberto Calasso, in “La rovina di Katsch”)



Mi piacerebbe scrivere un articolo sulle nuvole.
Lo dico sempre e non lo faccio mai.
Nel tempo, ho raccolto diverso materiale: ma ancora non sono riuscito ad organizzarlo bene come vorrei.
Quello che segue è semplicemente il primo assemblaggio dei miei appunti sparsi.
Che propongo qui, lasciandoli fluidi, così come li ho buttati giù, ancora con una struttura di tipo libero-associativa.
Le molteplici sensazioni che si generano, quando si osservano galleggiare alte sopra le nostre teste danno compagnia al viandante e suggeriscono forme, fogge, figure di animali viventi ed estinti, personaggi mitologici, oggetti inquietanti e dalla foggia misteriosa cui è difficile dare un nome: eppure, forse, da qualche parte si potrà pur trovare un giro di aggettivi, verbi, frasi per poterle descrivere.
Ci sono, nei giorni di scirocco lunghe nuvole dai bordi lisci, isolate l'una dall'altra e immote (a differenza di quelle che nei giorni di vento mutano di continua forma e contorni): siccome hanno un'estensione gigantesca (a volte una lunghezza di diverse centinaia di metri), un osservatore dalla fantasia fervida potrebbe pensare che si tratti di astronavi aliene mascherate da nuvole in attesa di uno sbarco alla maniera di quella descritta dalla penna di Wells ne "La guerra dei mondi"
È straordinario vedere le nuvole dell'alba che, man mano che sorge il sole dalla linea dell’orizzonte, vanno trascolorando da una sfumatura di colore ad un altra; oppure - al tramonto - quando dal basso sono illuminate da un chiarore abbagliante che accende il bordo di cumuli grigi e rigonfi di pioggia, minacciosi per via della loro massa che - tuttavia - vengono impreziositi ed ingentiliti da questi merletti di luce.
Da bambini, era comune il gioco di stare a guardare per ore le trasformazioni delle nuvole, le metamorfosi da una foggia all'altra, vinceva chi - al suo turno - riusciva più rapidamente ad identificare una nuova forma. Abbiamo perso l'attitudine ad osservare e a contemplare ciò ci circonda: come se - schiavi del mezzo televisivo o dei videogiochi - dovesse venire - prima - in termini di valore di realtà - ciò che è dentro il tubo catodico (e nella percezione immediata, dietro il vetro dello schermo) p nel display del gioco elettronico.
Ciò che, al confronto con la realtà, non è poi tanto reale.
Eppure le nuvole con la loro mutevolezza hanno a che vedere con il sogno e con la fantasia: con il loro esserci ci danno compagnia, ma suggeriscono anche l'idea che siano creature appartenenti ad un mondo altro.
Ricordo che, da piccolo, fui molto colpito dalla storia di Topolino e l'uomo Nuvola, pur con le sue sobrie tavole disegnate, ma non colorate.


Topolino e il mistero dell'uomo nuvola
(Island in the sky) è una storia a strisce della Walt Disney realizzata da Floyd Gottfredson (soggetto e disegni), Ted Osborne (sceneggiatura) e Ted Thwaites (ripasso a china), pubblicata sui quotidiani statunitensi dal 30 novembre 1936 al 3 aprile 1937. In Italia è comparsa per la prima volta sui numeri dal 223 al 255 di Topolino giornale, nel periodo che va dal 1º aprile all'11 novembre 1937 ed è stata successivamente resa disponibile in successive edizioni anastatiche.
Nella storia, Topolino e Pippo hanno acquistato un aeroplano con la ricompensa che hanno ricevuto per aver risolto il mistero della villa del signor Bassett (nella storia del 1936 “Topolino nella casa dei fantasmi”), grazie al quale, volando nel cielo, si imbattono nell'isola volante del professor Enigm, scopritore dell'energia atomica e dissimulata appunto da alcune nuvole generate per mezzo dei potenti macchinari di cui Enigm dispone.
Una citazione della storia è presente all'inizio dell'avventura Topolino e il gorilla Spettro del 1937, suo sequel. Quindi stare con l'occhio incollato al cielo ad osservare le nubi che si formano , si rincorrono, spariscono era per l'uomo antico un modo per stare a contatto con un mondo metafisico, che lo metteva in connessione con forze potenti.
Non è un caso che la lettura del movimento delle nubi potesse essere utilizzata dagli antichi a scopo divinatorio, quasi che le nubi appartenessero ad un mondo sovrannaturale ed ultraterreno.
L'uomo di oggi non è più capace di cogliere nelle cose la molteplicità e la ricchezza dei significati.
Si ferma il più delle volte soltanto alla superficie e all'apparenza.
Non cerca più di cogliere la complessità e la molteplicità: che di per se sono perturbanti perché creano conflitti e movimentazioni interiori.
In particolar modo, le nuvole che sono fluide e mutevoli possiedono proprio queste potenzialità.
Per esempio, in Giovanna d’Arco di Luc Besson, l’approssimarsi di uno stato alterato di coscienza estatica in Giovanna è segnalato da una veloce movimentazione delle nubi in cielo e da una iper-definizione dei loro contorni, che generano nello spettatore un forte senso di straniamento.


In più, anche se esiste una terminologia specifica, ci manca spesso il linguaggio appropriato per descriverle.
Perchè?
Paul Auster, grande scrittore nordamericano dalla sensibilità profondamente europea, racconta in Moon Palace (Einaudi, 1997) questa sotto-storia che coinvolge il protagonista (che è anche l'io narrante).
Marco Stanley Fogg, ad un certo punto della vicenda, per sbarcare il lunario, accetta di mettersi al servizio di Mr Effing, un anziano
stravagante ed eccentrico, ma alquanto danaroso, cieco e ridotto in sedia a rotelle.
I compiti di Fogg, come egli stesso apprenderà in corso d'opera, sono molteplici: intrattenere il suo datore di lavoro, leggergli il giornale, leggergli dei libri, portarlo in giro in lunghe passeggiate newyorchesi e, spingendo la carrozzina, descrivergli ciò che vede.
Su questa “funzione” Effing è particolarmente intransigente.
Richiede – anzi pretende – che Fogg sia sempre molto circostanziato e preciso. Non vede e pretende di vedere con gli occhi di Fogg, ma perché questa visione vicaria sia realizzabile, occorre una traduzione in parole di ciò che Fogg vede precisa e circostanziata, con le giuste scelte linguistiche e relative aggettivazioni.
Questo compito per Fogg diventa una vera e propria sfida: e man mano che passa il tempo e si moltiplicano le loro passeggiate va diventando sempre più sofisticato ed esauriente nelle sue traduzioni verbali del percetto.
In fondo, così facendo, applica uno sforzo che siamo chiamati a fare, quando – avendo osservato il complesso e mutevole universo delle nuvole – ci sforziamo di descriverlo ad altri con la stessa ricchezza sensoriale e percettiva con cui è entrato in noi.
Ecco alcuni passaggi delle riflessioni di Fogg, impegnato in uno sforzo che - metaforicamente - rimanda al compito dello scrittore, quando si sforza di trasmettere agli altri ciò che ha visto, partendo dal presupposto che nulla deve essere mai dato per scontato, facendo ricorso a spiegazioni stereotipe, e che – in ogni caso – ogni cosa va osservata e descritta, come se fosse vista per la prima volta.

“Che cosa vedi? E, se vedi qualcosa, come puoi trasformarlo in parole? Il mondo penetra in noi per il tramite degli occhi, tuttavia noi non siamo in grado di dargli un senso finchè esso non scende alla bocca: Presi a calcolare quanto lungo fosse questo percorso, a capire quale itinerario dovesse coprire una cosaal fine di trasferirsi da uno di tali punti all’altro.. In termini effettivi non si tratta di più di cinque centimetri, ma se si considerano tutti gli incidenti e le perdita che possono avere luogo strada facendo, potrebbe benissimo equivalere ad un viaggio dalla terra alla luna.
(…)
Sono tutte cose che ho già visto, mi dicevo, come può essere che mi risulti difficile descriverle? Un idrante antincendio, un taxi, un fiotto di vapore che emerge dal selciato: tutte cose che mi erano profondamente familiari, che pensavo di conoscere a memoria: Invece non mettevo in conto la mutevolezza di simili cose, il modo in cui esse cambiano con l’angolazione della luce, come il loro aspetto può venire alterato dagli eventi circostanti: il passaggio di una persona, un’improvvisa folata di vento, un riflesso strano. Tutto è in costante flusso…” (op.cit., pp.133-134).

Per molti le nuvole “sono” semplicemente, cioè si dà la loro esistenza per scontata.
Ma non è affatto così: le nuvole sono – come il cielo ed altri fenomeni naturali – un oggetto di osservazione mutevole in massimo grado.
Occorre una specifica competenza per poterle descrivere. Si tratta di un problema semantico tale da rilevare persino le più sotili sfumature, così come gli Inuit hanno, nel loro lessico, almeno venti parole diverse per dire la parola "neve" che per noi è solo e semplicemente "neve", ma nello stesso, occorre anche fantasia descrittiva, all’occorenza con un pizzico di approccio “visionario”.
Scienza e arte assieme: due diversi percorsi che sono stati seguiti per descrivere e fissare le nuvole in certe tipologie descrittive.
La scienza e l'arte di descrivere le nuvole nascono, tuttavia, alla fine del XVIII secolo con Luke Howard che coniò una terminologia descrittiva che venne successivamente ripresa da Goethe (in una delle sue mirabili sintesi tra scienza e cultura). Successivamente all'esposizione di Luke Howard (che rimane tuttora insuperata) venne fondata una società (Società Askesiana di Londra) per la descrizione delle nuvole che produsse uno specifico trattato, al quale si ispirò Goethe nella stesura del suo libricino.
La descrizione sistematica delle nuvole, peraltro, è divenuta la base della moderna meteorologia, quando dopo quasi un secolo dalla prima esposizione pubblica di Luke Howard, nella Conferenza meteorologica del 1896 la sua classificazione delle nuvole venne accettata come sistema di classificazione universale.
E, in effetti, ciascuno di noi ricorderà - come retaggio dei suoi studi liceali (oggi, scuole superiori) nello studio della geografia il capitolo descrittivo sulla forma delle nuvole, presto finito - come tante altre cose - alla fine della scuola nel dimenticatoio.
Ai curiosi e a tutti quelli che siano desiderosi di ricominciare a stare con l'occhio incollato al cielo, a quelli che volessero costruirsi un archivio fotografico descrittivo delle nuvole, viene in soccorso un interessante "manuale" di pubblicazione abbastanza recente (in realtà ben più di un manuale) sulle nuvole, che contiene un po' di tutto dalla descrizione analitica delle singole tipologie di nuvole alle loro caratteristiche "meteorologiche" ai loro riferimenti simbologici (Gavin Pretor-Pinney, Cloudspotting. Una guida per i contemplatori di nuvole, Guanda 2006).
D'altra parte, per il fatto che, costituite come sono di una sostanza eterea, le nuvole, condividendo la materia stessa del mito e del sogno, hanno da sempre interessato letterati e scrittori, ma anche il sapere popolare (avete mai provato a pensare in quanti proverbi popolari compaiono le nuvole?).
Per questo nell’incipit, come epigrafe al testo, ho voluto inserire il refrain di Mexico e nuvole di Jannacci, come anche è un must la citazione de “Le nuvole” di De André.

Le nuvole
Fabrizio de André


Vanno
vengono
ogni tanto si fermano
e quando si fermano
sono nere come il corvo
sembra che ti guardano con malocchio

Certe volte sono bianche
e corrono
e prendono la forma dell’airone
o della pecora
o di qualche altra bestia
ma questo lo vedono meglio i bambini
che giocano a corrergli dietro per tanti metri

Certe volte ti avvisano con rumore
prima di arrivare
e la terra si trema
e gli animali si stanno zitti
certe volte ti avvisano con rumore

Vanno
vengono
ritornano
e magari si fermano tanti giorni
che non vedi più il sole e le stelle
e ti sembra di non conoscere più
il posto dove stai

Vanno
vengono
per una vera
mille sono finte
e si mettono li tra noi e il cielo
per lasciarci soltanto una voglia di pioggia.


Piccola bibliografia essenziale
  1. Stéphane Audeguy, La teoria delle nuvole, Fazi Editore
  2. J. W. Goethe, La forma delle nuvole, Archinto;
  3. Richard Hamblyn, L'invenzione delle nuvole. La storia affascinante della nascita della meteorologia, Rizzoli;
  4. Luca Mercalli, Filosofia delle nuvole, Rizzoli;
  5. Gavin Pretor-Pinney, Cloudspotting. Una guida per i contemplatori di nuvole

giovedì 10 settembre 2009

The Goonies: come erano gli adolescenti prima dell'era digitale e del diluvio dei videogiochi


L'altro giorno mi é capitato di rivedere, dopo tanto tempo (quasi trent'anni sono trascorsi dalla sua uscita nelle sale cinematografiche), "I Goonies" di franca ispirazione spielbergiana (Spielberg ne fu il produttore).
Un film sull'infanzia e sull'adolescenza desiderosa di riti di passaggio, di confronto con l'avventura vissuta e con quella tramandata dai racconti dei padri e filtrata attraverso la lettura dei romanzi di avventura (Stevenson e L'isola del tesoro, in primis, ma anche Robinson Crusoe, e le storie di pirati e corsari in genere).
Il film ha come protagonisti un gruppo di ragazzini che, rinvenuta casualmente la mappa del galeone del pirata Willie l'Orbo, invano cercata in passato dal padre di uno di loro, si mettono alla ricerca del tesoro che secondo la leggenda sarebbe stato nascosto dallo stesso Willie l'Orbo in antagonismo con la banda Fratelli, falsari ed evasi, temibili quanto sgangherati, capeggiati da Mamma.
Gli ingredienti dell'avventura ci sono tutti, a partire dal casuale rinvenimento della mappa: passaggi segreti, cunicoli, trappole mortali e a volte un po' beffarde.
Strepitosa l'ambientazione in una fantastica località costiera dell'Oregon, battuta da enormi frangenti e abbellita da enormi faraglioni incastonati nel mare in tempesta.
Il film non ha perso nulla del suo smalto originario che, anzi, mostra quanto la cultura del videogioco oggi abbia impoverito l'immaginario cinematografico ed anche l'immaginario tout court.
Un film, per di piú fondato non solo sull'azione, ma anche sulla parola e sul racconto.
Due, infatti, tra le tante cose che si potrebbero dire diesso, sono le cose più positive e altamente educative per i giovani di oggi.
A vederlo oggi, infatti, colpiscono due cose: innanzitutto nessuno muore, come del resto nessuno viene ferito o mutilato, né ci sono spargimenti di sangue. Ciò che dovrebbe rimandare al perturbante della morte (teschi sfondati, scheletri e così via) è stilema essenziale della storia di pirati. L'unico aspetto che potrebbe avere delle valenze più inquietanti è il morto che i fratelli Fratelli conservano chiuso in ghiacciaia e che è protagonista di una esilarante confronto con il ragazzino Mouth (una sequenza che evoca un film umoristico di poco successivo, Week-end con il morto)
I protagonisti "parlano" tra loro, si raccontano e ascoltano storie, fanno progetti non necessariamente realistici (più spesso visionari ed espressione del desiderio ancora non imbrigliato dalla razionalità quotidiana), sono ricchi di inventiva e animati da spirito d'avventura, per quanto stemperato dall'ironia e, in alcuni, da un certo gusto beffardo; è evidente che leggono e hanno degli interessi intellettuali variegati e delle curiosità, senza essere appiattiti da dosi massiccie del mezzo televisivo, come strumento della fantasia hanno ancora le illustrazioni dei libri di svago su cui si sono formate le menti dei loro padri
.
Una TV accesa, negli interni del film, si vede soltanto di rado: è in particolare Sloth, il fratello malformato e deforme della banda, a nutrirsi di dosi massiccie di televisione perchè - temuto dai suoi stessi fratelli e da Mamma, è costretto a stare sedute in catene. Come a dire che la televisione, nel film sia associata alla prigionia e alla costrizione, in antitesi al libero spirito d'avventura e al desiderio di iniziazione: e per questo, per scelta, viene messa in sordina.
Ciascuno dei ragazzini che compongono il gruppo rappresenta una diversa sfaccettatura del modo in cui si poteva essere un ragazzo statunitense "borghese" negli anni Ottanta, ma ciascun modello è trasportabile - fatte le debite differenze - alla cultura euoropea "media" di quello stesso periodo.
Già, i Gonnies hanno modi molteplici (e fantasiosi) per trascorrere il loro tempo, quando sono in vacanza (il film si svolge nella pausa estiva) e - si può suppore - anche quando vanno a scuola: e nessuno di loro usa alcun tipo di videogioco o di PC, per il semplice fatto che a quel tempo i videogiochi - come oggi li conosciamo - non esistevano.
Insomma, I goonies presenta il mondo dei ragazzi com'era prima dell'avvento dei videogiochi che hanno portato ad una dimensione di vita molto più solipsistica e alla forte riduzione della relazionalità.
L'apertura sul mondo e la "passione" epistemologica, oggi, sono fortemente ridotti se non assenti.
Il desiderio di avventura, la voglia di liberare la fantasia e di lasciarla andare errabonda sono scomparsi: la mente dei giovani giocatori si proeitta all'interno della macchina dei cui meandri (virtuali) essi finiscono con il diventare fini conoscitori e dove si svolgono riti di passaggio e prove iniziatiche, ma la di fuori di qualsiasi aspetto cerimoniale e in assenza del transito alle regole del mondo adulto.
Il paradosso vero è rappresentato dal fatto che negli successivi proprio I Goonies ha dato ispirazione ad alcuni popolari videogiochi.
Certo, l'era digitale e i videogiochi hanno decretato la fine di un'epoca in cui si cresceva in un modo diverso e in cui, pur con le inevitabili rotture e gap generazionali, vi era una maggiore continuità con i propri padri e in cui, insomma, vi erano tradizioni, credenze, bagagli culturali che venivano passati di mano: la televisione già esistente come fenomeno di massa sin dagli anni '60, fino agli anni '90 non ebbe il potere di impatto di cui godettero le tecnologie digitali sin dalla loro prima divulgazione al grande pubblico.
L'era digitale ha decretato l'avvento di nuove abilità, l'incremento di forme di coordinamento psicomotorio prima impensabili (per esempio nella fine regolazione occhio-percezione visiva-minuti movimenti della mano), ma certamente non lo sviluppo di nuovi saperi, nel senso che la maggior parte dei giovani sono soltanto degli utilizzatori del digitale, ma non dei veri conoscitori delle quelle tecnologie informatiche che rendono possibili i videogiochi: il loro know-how è solo ed esclusivamente finalizzato al poter essere dei bravi "consumatori".
Sono indubbiamente più soli e meno portati alla socializzazione con i propri pari.
Ed io, anche se sarò tacciato di essere un nostalgico (e la nostalgia in un mondo che deve andare sempre avanti può essere per altri ingombrante e fastidiosa), ammetto di preferire di gran lunga quel modo di essere.


Una piccola nota wikipediana
I Goonies è un film d'avventura del 1985, prodotto da Steven Spielberg e diretto da Richard Donner, per la sceneggiatura di Chris Columbus, ricavata dal soggetto dello stesso Spielberg. I protagonisti sono quattro ragazzi - una banda - cresciuta in una sezione di Astoria (Oregon) chiamata "Goon Docks"; proprio dal nome del loro quartiere, i ragazzi decidono di farsi chiamare col nome di 'Goonies'. Cyndi Lauper appare, per pochissimi secondi, in un cameo dove canta "The Goonies 'R' Good Enough", tema principale della colonna sonora. Nel tempo il film è diventato un vero cult per le generazioni degli anni ottanta, che ricordano la pellicola come uno dei quintessenziali del periodo.

Dal film sono stati inoltre tratti alcuni videogiochi, prodotti dalla Konami:
  • The Goonies, che nel 1986 fu prodotto dalla Konami per il computer MSX.
  • The Goonies, prodotto sempre dalla Konami per Nintendo Famicom e mai importato in Europa.
  • The Goonies II, del 1987 della Konami per NES.

lunedì 7 settembre 2009

La sedia a sdraio: un oggetto del nostro immaginario... non solo balneare


Le sdraio, che - in particolare quelle per uso pubblico negli spazi aperti - rappresentano una variante della panchina, sono particolarmente attraenti, in quanto grazie ad uno speciale dispositivo che consente di dare allo schienale una speciale mobilità offrono al loro utilizzatore la possibilità di variare l'inclinazione della seduta, da una postura quasi-seduta ad una di semicupio.
In più la sdraio, offrendo alla schiena la possibilità di aderire in modo confortevole ed avvolgente allo schienale, fatto il più delle volte di tessuto, più o meno morbido, ma sempre alquanto resistente, regala ai suoi utilizzatori una particolare sensazione di benessere e di supporto.
La parola greca αναχλιτος θρόνος equivale alla parola che designa la sedia sdraio di moderna concezione: una sedia (θρόνος) su cui si ci si appoggia (αναχλιτος è correlato al verbo greco che, con la stessa radice, sta per "appoggiarsi").
Nel linguaggio della psichiatria esistono le personalità "anaclitiche", cioè in altri termini quelle espresse da individui che hanno un costante bisogno psicologico ed emozionale di appoggio, tutela, conforto.
Per esempio, in un qualsiasi dizionario web sipuò leggere la seguente definizione:

anaclitico 1 (agg.) (pl. m.-ci) Relativo a un individuo che nella caratterologia psicoanalitica richiama il modello dipendente della relazione.
Sinonimi: dipendente

Quindi, per tali motivi, la sdraio è un oggetto particolarmente adatto a chi si sente (o è) "anaclitico". In effetti, comunque - ed in senso molto più generale - la sdraio soddisfa con immediatezza un nostro bisogno regressivo di conforto e accoglimento.
Vedere una sdraio vuota e aperta - come è quella della foto - suscita un immediato senso di malinconia per ciò che è perduto ed un immediato, acuto, travolgente desiderio di buttarcisi dentro...
Se poi la sdraio vuota è opportunamente collocata davanti ad una distesa d'acqua, ancora meglio...


Osserviamo, ad esempio, la foto sopra.
Si tratta di una sdraio inglese da parco, costruita solidamente (come è nello stile inglese e rigorosamente a noleggio: appena ti ci appoggi, spunta immediatamente l'omino addetto a riscuotere la tariffa oraria). La sdraio, lasciata vuota, ma aperta, è strategicamente collocata davanti allo stagno delle anatrelle e delle papere.
Anche in questa immagine si conferma il fascino della sdraio pronta all'uso e desiderosa di ricevere un ospite nel suo abbraccio confortevole. E dalla sdraio si può aprire una vista solitaria e un po' autistica.
In questo caso, la vista sull'acqua rimanda all'elemento primigenio dal quale proveniamo, attivando in noi una nostra originaria claustrofilia.
Il fascino della foto si accresce ulteriormente se pensiamo che la sua
location è Kensington Gardens, cioè quel parco di Londra che ha ispirato James Matthew Barrie nell'ideazione delle storie di Peter Pan ( di cui la prima fu pubblicata nel 1904).
In Wikipedia leggiamo:
"Il personaggio venne ispirato a Barrie da un gruppo di ragazzini conosciuti durante le passeggiate assieme al proprio cane San Bernardo attraverso i viali dei giardini londinesi di Kensington: l'amicizia - spesso discussa e talvolta al centro di acri malignità, con accuse neppure troppo velate di pederastia - con i cinque figli della vedova Llewellyn-Davies (il più piccolo dei quali si chiamava, appunto, Peter come il futuro protagonista di tante avventure), sarebbe risultata fondamentale. Il legame tra lo scrittore, peraltro già sposato, con la giovane vedova e i suoi figlioli, divenne poi talmente saldo che, alla morte di lei, lo scrittore si sarebbe fatto carico dei cinque ragazzini".

Una delle storie che hanno Peter Pan come protagonista si chiama appunto "Peter Pan e Wendy nei giardini di Kensington".

In effetti, i giardini di Kensington, ampi e ariosi, ispirano una sensazione di pace e tranquillità, ma nello stesso tempo predispongono a bizzarri incontri, come ad esempio quello con un piccolo scottaiolo partito per una sua escursione alla ricerca di cibo e che rimane paralizzato a fissarti, perchè sente che la via del ritorno al suo rifugio confortevole gli è preclusa, oppure con la magica statua dedicata appunto a Peter Pan, oppure ad avvistamenti come quello della spaziosa dimora che, delimitata da un severo recinto in ferro battuto, venne assegnato a Lady D dopo il divorzio.

Foto in basso di Sergio Ignizio: Londra, Kensington Gardens.

I videogiochi portatili e lo sguardo chiuso sul mondo

Oggi, i bimbi sono sempre più catturati dai videogiochi portatili.
Li vediamo spesso da soli intenti a giocare.
Lo sguardo sul mondo è chiuso.
Per un bimbo/ragazzino intento in un videogioco l'orizzonte, se non l'intero universo, è il piccolo schermo del Nintendo/Gameboy.
Sono possibili soltanto "avvistamenti" governati dalla logica del software e nel contesto autoreferenziale imposto dal videogioco.
Ciò che è all'esterno può essere assimilato soltanto in presenza di analogie/similitudini, nel senso che la percezione del mondo è lievemente alterata dalla consuetudine con il videogioco stesso e, spesso, nella espressione psicomotoria libera, in assenza del videogioco, vengono riprodotto quasi automaticamente alcune sequenze motorie tipiche dei personaggi con cui si è stati a giocare sino a poco prima.
Caratteristica di questa chiusura al mondo è la postura del corpo, le spalle un po' ingobbite, la testa molto reclinata in avanti, per consentire una migliore focalizzazione dello sguardo sul mibuscolo schermo.
L'ho osservata invariabilmente in tanti rappresentanti della "nintendo generation".
L'appachinamento in corso di gioco, cioè l'accomodarsi su di una superficie piana che consenta di star seduti, è un fenomeno comune, ma l'attenzione è talmente focalizzata (quasi espressione di uno stato ipmotico della mente) che anche un letto di chiodi potrebbe andar bene...

(Foto di Vincenzo Cordovana: "Techno-appanchinamento giovanile")

mercoledì 2 settembre 2009

La battaglia di Maratona negli occhi di un ragazzino e, nello sfondo, la storia delle origini della Maratona moderna


"Maratona. Un ragazzo nella battaglia che ha cambiato la storia" di Geoffrey Trease (San Paolo Edizioni, 2003) è un piccolo libricino, semplice semplice, che si legge in un colpo solo e che racconta la storia di Filippo, un adolescente che, quasi per caso, si trova ad essere testimone della battaglia di Maratona, tra Ateniesi e Plateesi, da un lato, e i brulicanti Persiani nello schieramento contrapposto. Nella battaglia il cui esito - secondo alcuni studiosi - avrebbe cambiato il corso della storia - i Persiani vennero respinti, malgrado una loro schiacciante superiorità numerica.
Nel contesto della breve narrazione sono incastonate le vicende di Fidippide, l'emerodromo-messaggero, che prima venne inviato da Atene a Sparta per chiedere agli Spartani di intervenire al fianco degli Ateniesi (ma gli Spartani - fedeli alle loro tradizioni - rifiutarono perchè con la luna piena le loro attività guerresche venivano sospese per motivi connessi alla ritualità religiosa) e che, poi, tornato da Sparta ad Atene, senza prendere alcun riposo, si recò a Maratona con l'esercito ateniese. Da lì, al termine della battaglia (e gli Spartani, arrivando dopo una marcia forzata, poterono soltanto essere testimoni della grande vittoria di Milziade) venne inviato ad Atene per annunciare a tutti i suoi cittadini la sconfitta dei Persiani e qui, arrivando a destinazione, spirò. Fidippide mori di fatica, forse, ma non per il semplice sforzo dei 40 km corsi da Maratona ad Atene, ma per i quasi 500 km percorsi nei giorni precedenti per compiere il doppio tragitto - andata e ritorno - tra Atene e Sparta.
Fidippide, pertanto, fu a tutti gli effetti il primo ultramaratoneta della storia di cui si abbia socumentazione e, del resto, egli era specificatamente addestrato in tal senso: era, come si diceva prima, un soldato addestrato a correre per 24 ore (emerodromo, cioè "corridore per un giorno").
Ed è ormai noto a tutti che la maratona odierna è un'invenzione moderna creata da De Coubertin per riagganciarsi al sogno libertario di una Grecia liberata dagli invasori Persiani (la stessa distanza della maratona è un artefatto, poichè la distanza effettiva tra Maratona ed Atene è di circa 37 km).
Il piccolo volume, arricchito da numerose illustrazioni, è corredato da tre schede finali, una dedicata a Maratona (il luogo) e all'origine della maratona moderna, le altre due ai Giochi olimpici nell'antichità e all'origine dei Giochi olimpici moderni. Nel complesso, si tratta d'una lettura accativante e divulgativa che va bene anche per un pubblco adulto, desideroso di documentarsiin modi lievi e non impegnativi.

Piccola nota wikipediana
La battaglia di Maratona (settembre 490 a.C.) fu il momento culminante del primo tentativo del re Dario I di Persia volto alla conquista della Grecia e alla sua incorporazione nell'impero persiano. L'unione della Grecia all'impero persiano avrebbe reso sicura la porzione più debole del confine occidentale. La maggior parte delle informazioni che ci sono giunte sono tramandate da Erodoto, uno dei maggiori storiografi dell'antichità.
Fidippide, arrivato a destinazione, disse solo due parole "χαίρετε, νικῷμεν" ("siate felici, abbiamo vinto!") o, più semplicemente, "Νενικήκαμεν!" ("siamo vincitori") e poi cadde morto, stremato dalla fatica.
L'impresa di Fidippide, messaggero tra Atene e Sparta è invece raccontata da Pausania.

 
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