mercoledì 30 giugno 2010

Fu così che partii con due sandali spaiati


Ai primi di giugno ho deciso che era tempo di cominciare ad utilizzare delle calzature estive e così tirai fuori dei sandali sportivi, gomma e velcro, con i quali a volte anche corro.
Li ho usati parecchie volte, anche per andare in giro (bici e passeggiate con la cagnetta), per sbrigare commisisoni per negozi e agenzia di viaggio.
E' venuto il tempo di partire.
Niente di meglio che muoversi con questi sandali i piedi...
Li ho utilizzati continuativamente per alcuni giorni.
Poi, in un luogo di mare, dopo aver fatto la doccia con quei sandali ai piedi, li ho messi al sole ad asciugare.
Tolta via la polvere risalente forse - ad essere pessimisti - all'anno prima, e guardandoli meglio e mi accorgo con sorpresa che sono diversi. Presentano delle differenze, pur avendo lo stesso logo (di una nota marca di calzature e abbigliamento sportivo).
Come è potuta accadere una simile cosa?
Una banalità, in fondo...
Anche se, per alcuni, il fatto non sarebbe in alcun modo giustificabile...
Premessa del disguido è che io ne possiedo due di paia di sandali, abbastanza simili, ma non identici, e li tengo allineati sotto un mobiletto in bagno.
Probabilmente, la signora che tiene ordine in casa, li ha sollevati per fare pulizia e, nel rimetterli a terra, li ha rimescolati...
Io li ho presi così com'erano e, senza controllare, ho cominciato ad utilizzarli: anche perchè a casa mia raramente le cose godono di una piena illuminazione solare.
Le persiane sono costantemente semi-abbassate, le luci elettriche fioche, all'illuminazione intensa delle alogene e di faretti vari preferisco la penombra degli abatjour, tanto che a volte faccio fatica a distinguere il colore dei calzini.
Sono un fautore dell'ombra, ma questa è un'altra storia...
Immagino cosa avranno pensato di me vedendomi andare in giro con i sandali spaiati!
O che ero un pitocco che, privo dei denari necessari per comprarmi un nuovo paio di sandali, ne aveva messo insieme un paio spurio visto che i compari legittimi di ciascuna coppia si erano sfasciati.
Oppure - ipotesi più benigna - avranno pensato di me che sono un distrattone, come chi esce di casa i- caso classico - indossando dei calzini spaiati.
Essendo in viaggio, me ne sono fregato e sino al mio ritorno a palermo ho continuato ad utilizzare quei sandali spaiati, a questo punto molto divertito e ironizzando sull'intera faccenda...
Storie di ordinaria distrazione...

giovedì 17 giugno 2010

Gianfranco Manfredi e i vampiri illuministi tra superstizione e ragione


Confesso: non avevo ancora letto un solo romanzo di Gianfranco Manfredi!
Una grave mancanza, a conti fatti, devo ammetterlo alla luce delle mie impressioni al termine della lettura del suo Ho freddo (ww.hofreddo.it).
Un po’ ritardo, ma – alla fine – ci sono arrivato.
L’approccio iniziale non è stato facile, ma è ciò che capita quando ci si accosta per la prima volta a un autore nuovo e mai frequentato prima.
La prosa di Manfredi è densa, con un incedere lento e solenne, eppure se ci si abbandona al ritmo della sua scrittura, dopo un po’ il gioco è fatto.

Il romanzo, collocato all’interno d’una collana della Gargoyle Books, specializzata nell’edizione di preziosi testi horror, sfugge tuttavia ad una precisa catalogazione.
Non è un horror nel senso stretto del termine, né tanto meno lo si può considerare una storia di vampiri.
Propenderei piuttosto nel rubricarlo come “romanzo filosofico” che pone una serie di interessanti questioni, essendo collocata la sua vicenda in un cruciale punto di svincolo tra epoche passate della storia, dominate da oscurantismo e pregiudizio, e quella svolta cognitiva e scientista impressa dai più illustri rappresentanti del “secolo dei lumi”.
Siamo nel Nuovo Mondo, dove l’arrivo di fermenti e idee nuove si trova a cozzare con forza con il forte radicamento di quei pregiudizi religiosi che condussero, per esempio, al paradigmatico caso delle streghe di Salem, cronologicamente collocabile solo pochi decenni prima rispetto alle vicende narrate.
Una parte della storia ruota attorno ad alcuni casi “misteriosi” che rappresentano appunto paradigmaticamente gli errori cognitivi indotti dal pregiudizio, come la storia della misteriosa e tragica fine del gruppo di emigranti guidati da Hans Hermann, su cui la comunità di Cumberland aveva deciso di attuare una sorta di rimozione collettiva; oppure quello di altrettanto misteriosi revenant che, con le loro inquietanti e impalpabili presenze, ritornano a turbare i vivi; oppure, ancora quello della nave maledetta che – come quella dell’Olandese Volante – si aggira davanti alle coste dell’isola nelle notti tempestose, in una ripetizione ossessiva dell’incendio che aveva devastato una nave di migranti alcuni anni prima.
C’è ovviamente un riferimento alle credenze sui vampiri, ma in connessione – molto originale – con focolai epidemici di tisi e di consunzione polmonare, particolarmente diffusa in quegli anni, ma anche con il comparire di episodi endemici di rabbia. I personaggi-chiave che rappresentano l’antitesi tra due mentalità diverse sono Jan Vos, il predicatore battista, e i due gemelli Aline e Valcour, sbarcati nel Nuovo Mondo con l’obiettivo di portare innovazione e progresso, abbattendo al tempo stesso pregiudizi e false credenze e, in particolare, con il desiderio di introdurre nuovi metodi di cura alle malattie infettive (e, qui vi è un riferimento molto cogente e preciso sulla storia delle vaccinazioni).

Una battaglia che si annuncia dura e faticosa e dagli esiti incerti.
Gianfranco Manfredi sembra propendere verso un esito fondamentalmente pessimista rispetto alle ragioni dello scientismo.

Pregiudizio, superstizioni, false credenze sembrano avere la meglio rispetto alle spiegazioni razionali e all'applicazioni di strumenti che dall'applicazione di un approccio epistemologico corretto alla realtà discendono.

Come mostra l'antropologo-psichiatra-psicoterapeuta Tobie Nathan (che è considerato uno dei pilastri della moderna psichiatria transculturale), le credenze - per quanto ritenute "false" da chi detiene strumenti di decodifica della realtà più attuali e moderni - rappresentano per chi le pratica un potente strumento di approccio e conoscenza del mondo ed è, quindi, molto difficile combatterle con un semplice invito a mantenersi aderente alla lettura razionale delle cose.

Nel lavoro di Manfredi, personaggio eclettico e colto, nonché profondo conoscitore della storia delle idee e della filosofia, si coglie un lavoro appassionato di ricerca e di raccolta di fonti documentarie che lo stesso autore non manca di offrire al lettore esigente e curioso al termine dell’opera in una preziosa postfazione, mentre – secondo le consuetudini della Gargoyle – in apertura il romanzo è presentato da una bella introduzione di Loredana Lipperini.
La postfazione di Manfredi, tra l’altro, rende un omaggio a Bram Stoker, facendo intravedere al lettore delle connessione tra una delle location in cui ha scelto di ambientare la sua storia e uno dei tre luoghi cardine in cui si sviluppa la parte inglese della vicenda di Dracula il Vampiro. In più, stabilisce una connessione interessante tra le credenze (irrazionali) sui vampiri e le epidemie di “peste vampirica” che imperversarono in Europa in epoca pre-illuministica, da addebitare probabilmente a raggruppamenti endemici di casi di rabbia. Mi è piaciuto davvero molto: un’autentica sorpresa, anche se, per capire quanto valesse, ci ho messo un po’ di tempo. È una scrittura che richiede all’inizio applicazione e fiducia. Un atto di fede, si potrebbe dire dire: “Conoscimi, non rifiutarmi subito e non ti deluderò”, sembra dirti.
Come epigrafe io ci avrei messo la famosa frase goyesca: “Il sonno della ragione genera mostri”.
Dove si amplia la conoscenza scientifica dei fatti e si costruiscono delle teorie che consentano una spiegazione degli eventi, là il pregiudizio, la superstizione, l’ocurantismo dovrebbero dileguarsi. Ma non è cosa semplice...

Nella prefazione, Loredana Lipperini cita ampiamente l’importante saggio di Paul Barber, Vampiri sepoltura e morte (1988, 1994), il cui sottotitolo Folklore e realtà dà la misura del progetto di Barber, docente a Princeton di Letteratura tedesca e storia del folklore: un progetto che fu quello di riportare le credenze sui vampiri a ciò che sono, senza nulla di soprannaturale, ma fondate su fatti spiegabili di cui nei “secoli bui” non si conoscevano le basi razionali e scientifici.
Ed è indubbiamente agli studi di Barber e alla larga messe di episodi storicamente documentati citati nel suo saggio a cui si riferisce Gianfranco Manfredi in Ho freddo.

Citando Barber:
Gli Europei del primo Settecento mostrarono un grande interesse per il vampiro: La parola stessa, secondo l’Oxford English Dictionnary, entrò nella lingua inglese nel 1734, in un periodo in cui, specialmente in Germania, si scrivevano molti libri sull’argomento. Retrospettivamente, appare chiaro che una ragione di tutto questo entusiasmo sta nella Pace di Passarowitz (1718) con la quale alcune parti della Serbia e della Valacchia erano passate all’Austria: Da quel momento le forze occupanti, che rimasero in quelle regioni sino al 1730, cominciarono a notare e a riportare una pratica locale molto peculiare: quella di esumare cadaveri e di “ucciderli”. Forestieri in possesso di un certo grado di istruzione iniziarono ad assistere a queste esumazioni: La moda del vampiro, in altre parole, fu ante litteram un evento “creato dai media”, con il quale alcuni europei colti fecero la scoperta di pratiche che non avevano affatto un’origine recente, ma che per la prima venivano pubblicizzate efficacemente.

Valcour e Aline potrebbero essere stati benissimo tra questi Europei colti a fungere da osservatori e a fare da testimonial di tali eventi, ma essendo rappresentanti del fermento delle nuove idee, i due cercano di dare la spiegazione razionale e scientifica di eventi apparentemente sovrannaturali, senza subirne il fascino perturbante.

Cosa rappresentavano queste pratiche? Indubbiamente alla loro radice vi erano delle credenze profondamente radicate sul fatto che i morti possano ritornare a insidiare i vivi se prima non siano stati opportunamente pacificati. credenze antichissime dunque, alla base di complicati rituali della sepoltura e della sua ripartizione in due tempi successivi, come è diffuse in molte civiltà e come hanno mostrato gli antropologi. In sintonia con tali credenze venivano poi interpretati una serie di fenomeni naturali legati alla trasformazione del corpo post-mortem o al suo permanere apparentemente intatto. Trasformazioni che, peraltro, oggi vengono studiate scientificamente per potere perfezionare sempre di più la possibilità di decodificare il modo in cui una persona è morta (o è stata uccisa) e quali vicissitudini abbia subito il cadavere nel post-mortem.
Oggi, alcune cose sono di pubblico dominio: sappiamo che esistono delle vere e proprie “officine dei corpi” dove si studiano in maniera scientifica tutte le modifiche cui vanno incontro i corpi sottoposti alle più diverse condizioni ambientali, conoscenze che assumono una importanza crescente per i medici forensi.
Tali luoghi e pratiche sono ampiamente descritti in un paio di libri in circolazione a uso e consumo degli appassionati di medicina legale divulgativa e crime stories alla maniera di Patricia Cornwell, per citare uno degli esempi più conosciuti.
Allora, di questi fenomeni e della loro variabilità, nulla si sapeva: è chiaro quindi che alcuni di essi potessero essere interpretati come legati a forze sopranaturali in azione. In contemporanea, proprio in quel periodo nella transizione tra il secolo dei lumi e l’Ottocento prende piede una pratica pià moderna della Medicina, con lo studio ancora embrionario delle malattie infettive e l’affacciarsi della teoria fondante della pratica delle vaccinazioni, con lo scaturire di alcuni accorgimenti che, pur andando contro precedenti superstizioni, in alcune circostanze ed in alcuni contesti, sembrano colludere proprio con quei sistemi di pensiero e con il corpus preesistente di credenze e false convinzioni.

A scopo di approfondimento, non si può non citare qui questo lungo passaggio tratto da un saggio su La non-nascita dei vampiri reperibile nella rete
VAMPIRI ILLUMINISTI
Il maggior numero di leggende sui vampiri le troviamo nell’Europa Orientale, soprattutto per il gran numero di resoconti scritti nel settecento in concomitanza all’epidemia vampirica che si sviluppo proprio in quelle terre e che rese il vampirismo un fenomeno sociale da estirpare con ogni mezzo possibile in quanto rappresentava un pericolo reale per le popolazioni. Paradossalmente nel secolo dei Lumi si è avuto il trionfo delle creature della notte, infatti, il Dictionnaire Infernal alla voce Vampiri si esprime affermando che essi hanno terrorizzato l’Europa orientale, mentre gli altri spaventavano gli occidentali ribaltando le loro antiche convinzioni con le quali avevano convissuto per secoli. Dal XV secolo chi moriva nell’area geografica compresa fra la Jugoslavia e la Russia era soggetto a ritornare, in particolare se aveva mancato ai suoi doveri di buon cristiano perché era ancor più facile preda del demonio, anche lui in grado di far risorgere i suoi figli imprigionando la loro anima dentro il corpo. Ne derivò una serie di misure preventive e cautelative per riconoscere il potenziale vampiro (si stillarono elenchi di persone predisposte a diventare vampiro che comprendevano dai criminali ai morti suicidi, alle persone coi capelli rossi o quelli nati in determinati periodi dell’anno) e per far si che il suo corpo non fosse in grado di uscire dalla tomba (dagli impedimenti fisici come mutilazioni a procedure volte ad accelerare i processi di decomposizione della salma), un atteggiamento completamente diverso da quello della cristianità occidentale che assicurava che i cadaveri dalla “carne impassibile” erano quelli dei santi. Le cause sono da ricercarsi nella difficile situazione politica di queste terre soggette al dominio degli Asburgo e a quello della chiesa, e che, però, venivano da anni di dominazione cristiana ortodossa e da assedi operati dai musulmani quindi esisteva una certa confusione fra i popoli stessi se accettare l’origine demoniaca del vampirismo (come sosteneva la chiesa ortodossa) o se accontentarsi di essere ridotti a superstiziosi ignoranti come proponeva l’illuminata chiesa occidentale. Il clero locale era accusato al pari dei villici di diffondere la diceria del ritorno dei morti dietro influsso Satanico, confortati da testi scritti secoli prima e tenuti in gran considerazione come il Malleus Maleficarum di Sprenger e Kramer (Norimberga 1494), la Demonomania di Bodin (Parigi 1580) Il Compendium Maleficarum di Guaccio ecc., tanto che il Cardinale Prospero Lambertini, quando l’arcivescovo polacco gli chiese l’autorizzazione per praticare gli esorcismi sui cadaveri rispose in questi termini: Certamente dev’essere la grande libertà di cui Godete in Polonia che vi consente di andarvene a spasso anche dopo morti. Qui da noi, glie l’assicuro, i morti sono tranquilli e silenziosi, e se non avessimo che loro da temere, non avremmo bisogno né di sbirri né di bargello. Si cominciarono a scrivere numerose dissertazioni riguardo i vampiri, che cercavano di fornire una spiegazione razionale al fenomeno al fine di far smettere le brutali pratiche di esumazione e trattamento dei cadaveri sospetti che certo non si confacevano alla società illuminata che si stava preparando. Se escludiamo la maggioranza di pubblicazioni minori, provenienti prevalentemente da Lipsia, Norimberga e Jena, i trattati più famosi e giunti fino a noi sono quelli di Dom Calmet (ai tempi canzonato da Voltaire per l’accurata documentazione di casi di vampirismo che apportava e per la sua mancanza di presa di posizione a questo riguardo), quello di Davanzati (un religioso italiano che cercava di dare spiegazioni, il più possibile scientifiche, agli episodi di vampirismo e di relegarli all’ambito del disordine immaginativo di queste popolazioni biasimando i riti apotropaici che considerava abominevoli) e quello di Van Swieten il medico di corte della regina Maria Teresa d’Austria che fece si che la regina stessa emanasse un decreto che vietava il ritorno in vita di persone già morte sia per loro opera che per opera del demonio ponendo fine all’epidemia. Negli ultimi anni Paul Barber, nel suo Vampiri Sepoltura e Morte (Pratiche 1994), riesaminerà minuziosamente le testimonianze rese in queste trattazioni e avvalendosi delle moderne scoperte scientifiche e medico-legali ne darà una spiegazione razionale ammettendo come plausibili le osservazioni delle vittime dell’epidemia ma l’etiologia non è affatto satanica bensì legata ai normali processi di corruzione dei corpi post-mortem e agli effetti di sepolture premature e frettolose. Col decreto della Regina Maria Teresa i sepolcri, almeno apparentemente, sono sigillati e non vi saranno più apparizioni vampiriche presso le case degli abitanti del suo impero; ma la mole di scritti darà luogo ad un’altra epidemia che tuttora non si è riuscita ad estirpare: il vampiro diventerà un’icona dell’immaginario collettivo, a cominciare dagli scritti dei poeti romantici fino ad arrivare ai moderni splatterpunk diffondendo il suo contagio subdolamente ma con ben più successo. Per quest’opera si è reso necessario che si spogliasse del sudario masticato per indossare completi alla moda, rinunciasse al gonfiore del ventre e all’incarnato rubizzo per un più discreto pallore e, soprattutto, riuscisse ad infilarsi nei salotti dei circoli colti seducendo gli astanti proponendosi e non facendo loro richieste come usavano i suoi antenati folclorici, negli ultimi anni qualcuno ha anche rinunciato alla bara, evitando il fastidio di uno scomodo trasloco magari da un vetusto castello ad un appartamentino in centro.


Una nota bio-bibliografica su Gianfranco Manfredi

Gianfranco Manfredi è nato a Senigallia nel 1948. Sfuggito a Milano, vive e scrive in montagna a Gordona (Sondrio). Cantautore nella seconda metà degli anni settanta, si è poi dedicato a una multiforme attività di scrittore: dalla saggistica alla narrativa, dal cinema ai fumetti. Tra i suoi altri romanzi: Cromantica, Ultimi vampiri, Trainspotter, Il peggio deve venire, Il piccolo diavolo nero, Nelle Tenebre Mi Apparve Gesù. È autore per la Sergio Bonelli Editore del popolare fumetto Magico Vento, e della premiatissima miniserie Volto Nascosto, oltre che di alcuni episodi di Tex e Dylan Dog. Di Gianfranco Manfredi Gargoyle ha già ripubblicato il romanzo Magia Rossa (Feltrinelli, 1987) e l’antologia Ultimi vampiri-extended version, arricchita di due nuovi racconti e saggi, suggestivamente introdotta da Tullio Avoledo, a settembre (2010) è prevista l’uscita del suo ultimo nuovo romanzo Tecniche di resurrezione in cui ritroviamo i gemelli Aline e Valcour de Valmont, già protagonisti di Ho freddo.
www.gianfrancomanfredi.com



Una scheda su Vampiri, sepoltura e morte

«Se un tipico vampiro dovesse presentarsi a casa vostra, è probabile che vi ritrovereste sulla soglia di casa uno slavo grassoccio con le unghie lunghe e la barba ispida, gli occhi e la bocca spalancati, la faccia gonfia e rubizza. Abbigliato in maniera informale – per la precisione indossa un sudario di lino – apparirebbe agli occhi di tutti come un contadino
lacero. Se non l’avete riconosciuto è perché vi aspettavate un gentiluomo alto ed elegante con un mantello nero. Ma questo sarebbe il vampiro della letteratura e del cinema...» E il vampiro della letteratura e del cinema non è che un derivato del vampiro del folclore di cui si occupa questo libro. Paul Barber presenta varie testimonianze su questa creatura soprannaturale, tratte dalle credenze popolari, dai racconti folcloristici e dalla letteratura. Prende in esame numerosi resoconti sull’esumazione di presunti revenant, registra che cosa viene detto del loro aspetto, delle loro origini e del modo di sconfiggerli e ucciderli, poi confronta queste informazioni con ciò che oggi si conosce sulla morte e la decomposizione per concludere che la credenza nel vampiro si rivela un’elaborata ipotesi popolare destinata a spiegare eventi in apparenza inesplicabili. Alla base della fortuna, anche letteraria, di questo essere inquietante e tenebroso, presente nelle tradizioni di tutto il mondo, ci sarebbe dunque la paura dei morti, la paura che nasce alla vista della “vitalità” dei cadaveri, delle trasformazioni a cui i corpi sono soggetti dopo la morte, prima di ridursi a puri scheletri «inoffensivi» di natura quasi minerale. Collegando i tratti comuni alle diverse credenze nei non-morti, Barber offre ai lettori un esauriente studio scientifico sul vampiro, il primo che si pubblica in Italia, corredato di ampie note esplicative e di una aggiornata bibliografia sull’argomento. Paul Barber, al momento della pubblicazione del volume, insegnava Letteratura tedesca e Storia del folclore a Princeton.

mercoledì 16 giugno 2010

Le vuvuzela: quel suono fastidioso moltiplicato per 80.000


Chi sta seguendo le partite del Mondiale di Calcio (FIFA World Cup) avrà notato che lo sfondo sonoro durante i collegamenti è uniforme e costante, al limite della fastidiosità.
Si tratta del suono moltiplicato per 80.000 delle “vuvuzela”, cioè delle trombette ad aria molto diffuse in Sudafrica e particolarmente utilizzate in occasione di eventi sportivi che prevedono la partecipazione di grandi masse.
Il fastidio deriva dal fatto che tali trombette sono utilizzate in continuazione come manifestazione generica di tifo,, non come supporto sonoro per l'una o l'altra compagine in lizza, con la conseguenza che l'introduzione di questo sfondo sonoro "selvatico" rende la partita di football una faccenda quasi tribale, una specie di incontro dominato dalla legge della giungla.
Ma il fastidio dipende anche dal fatto che, come dicono gli esperti, l'intensità in decibel dei suoni che le vuvuzela producono (ma anche la loro frequenza) sono tali da impedire che il rumore percepito in continuazione venga, ad un certo punto, relegato alla percezione perifierica come semplice rumore di sfondo e non più attenzionato.
I tecnici delle emittenti televisive sono al lavoro per limitare la percezione del suono delle vuvuzela scatenate da parte degli spettatori e, quindi, per ridurre la sensazione di fastidio che deriva dall'esposizione continuativa ad una simile tempesta sonora.
Il fastidio indubbiamente rimarrebbe, tuttavia, per i giocatori, contribuendo in qualche misura allo stress psico-fisico indotto dalla partita.
La FIFA, malgrado gli effetti disfunzionali della vuvuzela negli stadi in occasione di grandi manifestazioni, ha deciso di concederne l’uso ai Sudafricani visto che la trombetta ad aria gode di grande popolarità presso di loro, al punto da essere considerato quasi uno strumento musicale nazionale.

La vuvuzela, chiamata anche lepatata in lingua tswana o tromba da stadio, è una trombetta ad aria della lunghezza approssimativa di un metro, comunemente usata in Sudafrica dai tifosi che assistono alle partite di calcio. Per questo essa è divenuta una sorta di simbolo del calcio stesso in quel paese.
L'origine del suo nome è controversa: potrebbe infatti essere un termine onomatopeico in lingua zulu che significa "fare vuvu", in riferimento al suono emesso dallo strumento, oppure derivare da un termine gergale dei sobborghi che significa "doccia", in riferimento alla sua forma.
L'uso della vuvuzela è stato talvolta impedito all'interno degli stadi. Dato che però questo strumento è un elemento caratteristico della cultura e delle tradizioni sudafricane, la FIFA ha deciso di permettere l'ingresso della vuvuzela all'interno degli stadi dal 2008.
In particolare, la vuvuzela ha fatto parlare di sé durante lo svolgimento della FIFA Confederations Cup 2009, a causa del suo rumore intenso e praticamente ininterrotto, addirittura fastidioso per i giocatori, al punto che la FIFA decise di valutare l'ipotesi di impedirne l'introduzione negli stadi dei Mondiali 2010. Poco dopo la fine della Confederations Cup, l'ente calcistico ha dato il via libera alle trombette.
Ma, come si è visto, sono cominciati i Mondiali di calcio e le vuvuzela sono in pieno vigore...

martedì 15 giugno 2010

Il mulinello dei rondoni e il volo solitario del gabbiano


Seduto nel balcone di casa, nel tardo pomeriggio, bevo una birra ed intanto guardo i rononi che intrecciano voli.
Cerco di seguirli con lo sguardo, di mantenere l'occhio incollato ad uno in particolare, ma è cosa da far girare la testa.
I loro voli sono così rapidi, i cambi di direzione, gli scarti, le cabrate, le virate, così repentini e continui che è davvero impossibile anche soltanto contarli.
Saranno al massimo un paio di decine ma sembrano molti di più tanto frequenti sono i loreo passaggi.
Si muovono frenetici, lo spazio d'aria davanti a me a tratti si svuota: dove sono andati? Poi di colpo si riempe di nuovo di voli frenetici e di continui, incessanti pigolii.
Passano e ripassano davanti, a volte si allontanano, a volte a brevissima distanza da me: le loro traiettorie passano così vicine al mio punto di osservazione che, allungando una mano, potrei toccarli.
Ma loro sono indifferenti a me. Io, per loro, sono soltanto uno dei tanti ostacoli solidi da evitare...
Non capisco se il loro muoversi instancabile corrisponda ad una sorta di gioia del volo o se non sia piuttosto effetto di una coercizione, visto che i rondoni per via della loro morfologia somatica e della struttura delle zampe possono soltanto "afferrarsi", ma non poggiarsi. E, quando cadono a terra, la ripresa del loro volo è possibile soltanto se dispongono di un piano di decollo regolare e senza ostacoli. Da un terreno ricoperto d'erba e di vegetazione non possono levarsi in volo e morirebbero certamente se qualcuno non li raccogliesse e non li lanciasse in aria, per consentirgli di riprendere subito a battere le ali.
Una volta ne ho trovato uno a terra, caduta: Se ne stava trermante, immobile, e mi chiedevo perchè non riprendesse a volare come qualsiasi altro uccello.
Si è lasciato prendere nel palmo della mano: era grosso e pesante, caldo e agitato da un tremito elettrico. Appena la mia mano si è levata da terra, la creatura ha cominciato a muovere le ali e ha spiccato il volo, lasciandomi con l'emozione di aver sentito per un attimo trasmettersi alla mia pelle l'energia elettrica e vibrante del volo.
Mentre guardo i mulinelli vorticosi dei rondoni, più in alto, dove si addensano dei cumuli e mentre il cielo si accende dei colori del tramonto, un gabbiano solitario veleggia imponente.

Non so cosa preferirei essere, se quel gabbiano isolato che sembra essere libero nel suo volo, perchè ogni tanto i gabbiani - a differenza dei rondoni - possono anche stare a terra e camminare come qualsiasi altro volatile o se uno di quei rondoni impazienti e vorticanti, condannati ad un perenne volo (alcuni dicono che che essi facciano tutto in volo: mangiare, accoppiarsi, perfino dormire).
Il gabbiano, il più delle volte è un solitario e se vola con altri gabbiani vive il proprio volo in maniera autonoma, con poca relazione con i propri consimili.
I rondoni, invece, sembrano praticare la gioia del volo condiviso e socializzante.
Non so proprio: forse, mi piacerebbe avere un po' le qualità del gabbiano e un po' quelle del rondone.
Essere entrambi, insomma: un isolato che, a volte, sa essere un gregario...

domenica 13 giugno 2010

Cacciatori e pescatori nelle convulsioni della notte

La notte

Un'antica tonnara.

Dopo aver superato un piccolo ponte di pietra a dorso di mulo, ci si entra attraverso un portone monumentale.

A cui segue, dopo aver percorso un ampio passaggio dalla volta a botte, una grande corte interna, il fondo di sottile polvere di pietra d'aspra macinata che imbianca le scarpe e copre di un velo di talco impalpabile i piedi calzati di sandali delle donne.

Torme di avventori arrivano di continuo: sembra quasi che vengano vomitati nella grande corte, sparsa di tavoli, di sedie e, ai margini gazebo addobbati con divanetti.

Il grande portone spalancato è la bocca che vomita uomini e donne.

Oppure si potrebbe, egualmente, immaginare che la corte interna sia una grande stomaco dove le persone che arrivano attraverso la grande bocca-esofago vengono miscelate e opportunamente digerite, trasformate in una sorta di impasto indifferenziato che finisce con lo spalmare mura e addobbi del vasto cortile.

L'amalgama che funge da succo gastrico facilitante la digestione di questo insieme eterogeneo è la musica che promana da una postazione allestita pure all'esterno, dove l'alchimista musicale-DJ governa con abili variazioni dei flussi sonori l'umore dei partecipanti all'happening (techno con delle variazioni hip hop, jungle, ripetizioni e iterazioni ossessive degli stessi fraseggi musicali e di riff che paiono sempre eguali ed ipnotizzanti.

Molto omologazione di comportamenti e di posture.

Domina l'esibizione di sé e la ricerca affannosa: sguardi che vagano senza fissarsi mai da nessuna parte, sguardi predatori, sguardi affamati.

Non si parla molto, ci si guarda molto, ci si studia, si cercano approcci facili.

Uomini che arrivano da soli.

Donne che si presentano in coppia con un'amica, piccoli gruppetti monosex che rapidamente si disperdono, amalgamandosi nella calca indifferenziata, ognuno alla ricerca del suo aggancio per concludere la serata con un "acchiappo" veloce e disimpegnato.

Uomini e donne si sfiorano, volteggiano, si osservano.

Abbigliamento di tutti i tipi e per tutti i gusti.

Gli uomini più tendenti al casual, alcuni magari con capi di valore ma sobri, le donne più in tiro dagli abiti più fantasiosi a quelli attillati in nero.

Tre donne più avanzate d'età stanno al centro della corte, sedute indolentemente attorno ad un tavolino: una posizione che sembra bizzarra, perché le colloca al centro dell'attenzione quasi nel punto focale dell'arrivugghio. Sembra che si siano volutamente posizionate lì, per poter osservare senza parere chiunque passi e, del pari ricevere debitamente omaggio da chiunque passi di lì.

Il passaggio è obbligato peraltro: proprio per quel punto la folla s’incanala per accedere ad un grande locale dal soffitto di possenti travature lignee, dove nel vasto spazio sostenuto da pilastri di pietra sono strategicamente disposti divanetti, poltrone e puffi; dove, ad una parete è allineata la mescita delle bevande alcooliche e non, e dove si aprono le porte che immettono nei servizi igienici.

Questo spazio è un'autentica oasi di pace, molto riparata anche dalle ondate sonore che invece inquinano di decibel la corte affollata e densa di folla inquieta: sembra essere adibito al riposo e alla disintossicazione, ma è anche possibile condurvi delle conversazioni pacate, senza alzare eccessivamente il tono della voce per farsi sentire dai propri interlocutori e, proprio per questo, preferito dalle comitive miste preferendo quest’atmosfera raccolta al dispersivo spazio esterno.

I gruppetti che non vogliono diluirsi nella folla irrequieta sembrano composti da esseri alieni, fuori posto in un universo mobile che sembra essere perennemente in caccia, di cui non condividono i codici

In effetti, al passaggio, molti si fermano ad ossequiare le tre donne in nero, tra le quali una palesemente anziana, con una zazzera crespa e biondastra, addobbato con un abito nero fasciante e sandali dai tacchi alti, è una nota organizzatrice di eventi di cui non ricordo il nome.

Quando la folla si fa troppo fitta e risulterebbe soffocante rimanere seduti, costei si alza in piedi e, dall'alto della sua statura accresciuta dai tacchi molti alti, si guarda in giro altera, ma senza guardare mai nessuno veramente, dando l'impressione d’un ragno che, dopo aver tessuto la sua tela, attende paziente la sua preda, sapendo che le prede arriveranno comunque sino a lei seguendo fili e percorsi che sono stati tracciati.

La musica investe tutti e li racchiude in un bozzolo, eccitando e accrescendo a dismisura la voglia di movimento, ma non c'è una reale volontà di danzare, abbandonandosi alla foga liberatoria del movimento al ritmo della musica cadenzata ed ipnotica in un corroborante tripudio psico-fisico del proprio sé: chi inizia a seguire con il corpo il ritmo imposto dalla musica, non si lascia mai andare, bensì mantiene un atteggiamento vigile, lo sguardo esplorativo per incrociare altri sguardi che veicolano solitudini e agganciarli per un fulmineo approccio.

D'altronde, in questa bailamme, la finta danza - più che altro una tumultuosa agitazione di corpi - serve a garantire una maggiore contiguità somatica tra potenziali partner e ad assicurare possibili accoppiamenti. Infatti, spesso, dal tumulto della folla si distaccano delle coppie neo-costituite - con il sapore dell'effimero e del provvisorio - alla ricerca di angoli più tranquilli dove parlottare e dove dare corso ad approcci fisici più diretti.

Nella danza non mancano coloro che - in modo più intraprendente - si lasciano andare a toccamenti oppure appiccicano il proprio bacino (anche se per pochi secondi soltanto) a quello d'un possibile partner. Appena un cenno di debordamento lascivo, ma è quanto basta, per lanciare un segnale...

Sembra di assistere ai mille modi di lancio e rilancio di un amo con l’ausilio di una lenza in attesa di capire quale pesce abboccherà. I lanci sono numerosi e molteplici. Vige il principio del “Chi piglio, ma piglio”, ma non mancano nemmeno quelli che puntano direttamente in una direzione, salvo poi a cambiare obiettivo con repentinità sulla base della convenienza…

Questo è l'interesse dominante della maggior parte dei frequentatori di questo locale, come - suppongo - di tanti altri consimili.

Dall'edificio in pietra di cui si è detto prima, antiche finestre si aprono aggettanti sul mare e su di un'ampia spiaggia che si è formata, dove anni prima c'era solo una distesa di acqua marina, a causa della continua deposizione di detriti con il mutevole gioco delle correnti marine.

Questa spiaggia, totalmente al buio, è percorsa da una fresca brezza.

Lontano sul limitare dell'acqua diversi pescatori con la canna attendono che le loro prede abbocchino.

Lì non c'è clamore, soltanto qualche bisbiglio, parole appena pronunciate, ma prevalentemente silenzi, qualche improvviso e transitorio barbaglio proveniente da una lampadina elettrica.

Al di là dei pescatori si scorge - o meglio si indovina - la massa nera ed imponente del mare, immobile questa sera come un’enorme bestia possente ed acquattata che respira con un suo ritmo secolare, disseminata delle luci sparse delle lampare di altri pescatori che, pazienti sulle proprie barche, anch'essi attendono la loro preda.

Uno scenario di grande pace che fa da contraltare all'atmosfera convulsa della tonnara.

Di questa scena nessuno si accorge, nessuno - o quasi - ha occhi per guardarla contemplativo ed esserne colpito.

Le contingenze della caccia inducono ad essere febbrili, convulsi ed eccitati.

E di tutto questo all’alba non rimarrà più nulla, se non confusi ricordi alcoolici e soltanto la compulsione a riprendere la sera successiva nel tentativo reiterato e angoscioso di annullare un vuoto incolmabile.

venerdì 11 giugno 2010

In sogno, vinco una 100 km e nessuno se ne accorge...

L'altro giorno mi sentivo particolarmente stanco, quasi in coma.
E durante tutta la giornata mi chiedevo anche perchè, mentre mi trascinavo da una sedia ad un divano.
Le mie capacità di reazione ridotte, mi sentivo intorpidito, con i muscoli dolenti.

Poi, all'improvviso mi sono ricordato di un sogno delle notte prima che era questo:
Correvo una 100 km ed ero in testa alla corsa.
Tra me e gli avversari che mi seguivano si era creato un abisso.
letteralmente volavo sulla strada, proseguendo con vigore e sentendomi straordinariamente bene.
Sapete quando uno si sente invincibile e al di là della sofferenza e del dolore?
Ecco! Esattamente quello ero il mio stato mentale...
Man mano che mi avvicinavo al traguardo ero preso da una sensazione di incontenibile euforia.
E poi, eccolo!
Striscioni ed un grande arco gonfiabile giallo che senmbrano quasi risucchiarmi.
Li supero in volata, percorrendo gli ultimi metri su un tappeto di un rosso sgargiante.
Ma...
Quando ho finito di superarlo, nessuno sembra accorgersi di me.
Sembrano tutti immobili, come se per loro si fosse bloccato il tempo e tutti fossero rimasti immobili congelati in quell'attimo, tutti all'infuori di me.
E' come se fossi invisibile.
Nessuno fiata.Nessuno si muove.
Cerco di attirare l'attenzione di questo e di quello: ma le mie parole sono mute e senza suono.
Lo speaker, con il suo microfono in mano, è immobile, apparentemente intento - con un gruppetto di altri - in una conversazione siderata.
Penso che, a questo punto, la cosa migliore da farsi sia quella di tornare indietro per alcuni chilometri e ripercorrere tutta la strada, arrivando di nuovo al traguardo, sperando che - nel frattempo - qualcosa si sblocchi.

E così faccio: ripercorro quei chilometri all'indietro (non fraintendemi: non in retro-running! Questo sì che sarebbe stato un vero incubo!) e poi rifaccio il compito, per così dire.
Di nuovo arrivo al traguardo: e... Cosa accade, a questo punto?, direte voi.
Niente! Niente!
Non accade nulla di diverso!
Tutto si ripete identico a prima: anche questa volta, mi prende una sensazione di straniamento, come se il mondo fosse andato avanti solo per me, mentre tutti gli altri sono rimasti fermi in un tempo bloccato.

Ancora una volta decido di ripetere la tiritera: non vedo altre alternative.Comincio a chiedermi preoccupato se non sia per caso rimasto bloccato in qualche loop temporale e, d'ora innanzi, costeretto a ripetere all'infinito questo stesso segmento di vita.

Ma, a questo punto, all'improvviso, il mio vantaggio sul secondo svanisce. Il tempo comincia a girare vorticoso e - a quella che mi sembra - la velocità della luce vengo superato dal podista che, sino a poco prima, procedeva distaccato dietro di me e da altri.
Il traguardo: eccolo profilarsi davanti a me, alla fine del rettilineo, per la terza volta: questa volta tutti sono animati come se stessero vivendo in un velocissimo fastforward.
Una scena da comica finale si anima davanti ai meei occhi: un dopogara che si sviluppa che si sviluppa a velocità folle, orchestrata da un regista impazzito o beffardo.
Arrivo anche io al traguardo: ma anche questa volta non sono accolto, in alcun modo particolare.
Nessuno mostra di accorgersi di me.
Cerco di parlare con lo speaker per spiegargli ciò che è accaduto e per fargli capire l'incomprensibile e cioè che io sono già arrivato al traguardo, prima di adesso, non una, bensì due volte.
Un'impresa sovrumana la mia...
Si è verificato un grosso equivoco - dico - Io sono stato il vincitore.
Ma non ottengo nessun risultato...
Però, l'ebbrezza di vincere è stata davvero grande!

Sfido che poi, durante il giorno successivo al sogno, io mi sentissi così stanco!

mercoledì 9 giugno 2010

Un elogio dell'illegalità


Palermo.
Via Sciuti.
Una caldo giornata di inizio giugno, mattino.
Si prospetta il seguente teatrino.
Il passante del momento può notare un autobus fermo persistentemente nella sua corsia preferenziale.
Ci si avvicina incuriositi.
Ci si chiede, con un filo di preoccupazione, se non sia accaduto un incidente e se non ci si debba trovare davanti al truce spettacolo di un passante o di un aspirante suicida stritolato sotto le ruote del pesante mezzo.
Si continua a procedere, avvicinandosi al piccolo scenario.
E ci si rende conto che non è accaduto niente di truculento...: con sollievo dei cittadini timorati e con delusione di quelli un po' perversi che amano essere spettatori da prima fila degli spargimenti di sangue.
Cosa succede allora?
Niente.
Semplice ed ordinaria amministrazione, piuttosto.
Ma sarà poi così?


Due auto di scorta ("autoblu") sono comodamente posteggiate nella corsia preferenziale, quella riservata ai bus e ai taxi, con la tracotanza del potere che ritiene che tutto sia lecito.
Il trasportato "illustre" (o "onorevole"?) ha dovuto fare una sosta per dare corso a qualche sua estemporanea necessità: o una visita alla farmacia o un passaggio dal barbiere per farsi barba e capelli oppure, più leziosamente, dal fiorista per inviare un omaggio floreale alla moglie o, perchè no?, all'amante.
L'autista del bus, trovando la sua corsia ostruita, deve avere avuto un moto di ribellione di fronte al sopruso e, con determinazione, desiderando evidentemente il rispetto della legalità, si è imposto di non fare nessuna manovra al di fuori di ciò che è previsto che faccia.
Con molta semplicità, vuole proseguire sulla sua corsia preferenziale.
Ha optato di non essere condiscendente e colluso e di richiedere con fermezza l'applicazione delle regole.
Con molta evidenza, s'è innescato un braccio di ferro tra il guidatore del bus e la scorta.
Tutti gli uomini della scorta fanno capanello sul marciapiedi e confabulano tra loro.
All'improvviso, se ne distaccano i due autisti che, a muso lungo, salgono sulle rispettive auto e cominciano con evidente malavoglia ad accendere il motore e fare le manovre necessarie.
Gli altri rimangono immobili a contemplare il loro operat, confabulando tra loro.
Gli sguardi che lanciano ai "colleghi" sono di disapprovazione.
Uno replica al discorso di uno degli altri: "Nemmeno io lo avrei fatto!", intendendo dire che il consenso unanime tra tutti loro rimasti in piedi sul marciapedi sarebbe stato quello di non spostare le auto e lasciare che l'autista dell'autobus si arrangiasse.
"Vada a farsi fottere" - l'implicito pensiero - "Che cosa pretende da noi?"
Dietro questo discorso in cui i non detti hanno uno spessore maggiore di ciò che è detto, si intravede la tracotanza del potere e l'idea che, se si è al servizio dell'"onorevole" o dell'"illustre" di turno, tutto sia lecito e che ci sia un passaporto di immunità per infrangere normative e divieti a cui i comuni cittadini, invece, devono adeguarsi.
"Noi siamo al di là della Legge" - sembrano dire i "buoni" custodi, rivelando piuttosto l'attitudine della guardia del corpo di un gangster.
L'amara riflessione di questo piccolo episodio è che il potere sia colluso con l'illegalità e che la battaglia per la legalità sia ardua e difficile, dal momento che proprio coloro che dovrebbero esserne i principali sostenitori sono i primi a contravvenire alle norme, partendo dal presupposto che tutto sia a loro permesso.
Al cittadino comune, come è il valoroso guidatore dell'AMAT, rimangono solo due alternative: o piegarsi, facendo la pecora del gregge e diventando così uno dei tanti tasselli che mantemgono in piedi i cerchi concentrici delle collusioni, oppure ribellarsi.
La via della ribellione, tuttavia, è dura e faticosa poichè implica il confronto con i rappresentanti della legalità sempre più tracotanti e sempre più simili ai "bravi" di manzoniana memoria.

L'Oratorio di San Lorenzo con gli stucchi di Giacomo Serpotta: per me, un'autentica scoperta


Vagabondare per le vie di Palermo antica riserva sempre delle sorprese. Bisogna sapersi abbandonarsi al caso e al capriccio, lasciando la strada nota molte volte percorsa per imboccare invece piccoli vicoli e viuzze che s'aprono all’improvviso davanti a noi o appena girato un angolo a gomito. Piccole meraviglie, inaspettate, s'offrono allo sguardo, ma con pudore e modestia, magari rivelandosi dietro cataste di rifiuti o con l'incombere di sfondi marcescenti.

Palermo possiede una città vecchia che potrebbe essere la più bella d’Europa per la ricchezza delle sue variegature e stratificazioni, per i suoi fasti di un tempo - visibili in chiese munifiche e palazzi nobiliari - che oggi rivivono a chiazza di leopardo, con edifici che hanno subito degli splendidi restauri conservativi, accanto ad altri ancora fatiscenti e prossimi al crollo.

Anche in ciò sono pienamente in opera le contraddizioni dell’animo siciliano: il fatto che tutto il bello debba avere le caratteristiche del frutto maturo la sontuosità dei cui sapori può essere apprezzata quando la maturazione quasi coincide con l'avvio della putrescenza.

Solitamente, alcuni luoghi bloccano con prepotenza la nostra attenzione: di rado pensiamo al fatto che possano essere dei punti di snodo, a loro volta collegati con piccole nervature ad altri.

Le nervature rappresentano degli autentici “passaggi” nei quali ci si può imbattere nelle “sorprese” che ti lasciano con il fiato mozzato.

Tante volte sono passato davanti alla chiesa dedicata a San Francesco, anche nota per la presenza su di un lato della piazzetta antistante dell’Antica Focacceria San Francesco.

Per me, la topografia della piazza era quella di un punto terminale.

Sino all’altro giorno non sapevo nulla di altri percorsi che vi giungessero o se ne dipartissero, al di là dall’unica strada che sino a quel momento avevo percorso per arrivarvi.

Facendo delle svolte inedite, l’altro giorno, e seguendo il desiderio capriccioso e mutevole della scoperta, ho imboccato una piccola via detta “dell’Immacolatella” che, come ho scoperto dopo, andava a sboccare proprio a lato della Chiesa di San Francesco.

Anche qui, in questo stretto passaggio, contrasti: facciate di edifici cadenti, intonaci scrostasti, porte sbarrate e tenute serrate da catenacci e catene, ma di fronte un muro levigato per effetto di un restuaro recente, ecco schiudersi l'immagine di un portoncino aperto, in alto una campana bronzea sospesa ad un’arcata dalla quale occhieggiava il cielo azzurro.

Una porta che si apre in un muro compatto suscita sempre una forte curiosità, proprio perchè rappresenta un "valico" tra mondi diversi

E dunque, appena avvistato quel portone aperto ha suscitato in me una forte attrazione: al di là di esso, si intraveda uno scampolo d'una breve fuga di gradini di pietra, una ringhiera in ferro e una fontana in pietra, in parte accesa dalla piena luce del sole.

Accanto al portone una piccola targa, recava scritto “Oratorio di San Lorenzo. Capolavoro assoluto di Giacomo Serpotta”. Sotto, una targa più piccola in marmo, recava scritto invece “A Donald Gastang. Con grato ricordo”.


Mi sono inerpicato su per i gradini: un delizioso chiostro quadrato s'è aperto al mio sguardo. Una giovane donna seduta indolentemente sui gradini che contornavano la fontana (o pozzo) di pietra completavano il quadro idilliaco delle alte mura biancheggianti che racchiudevano questo piccolo spazio, dilatandolo tuttavia all’infinito e proiettandolo verso l’immensità dell'incombente cielo azzurro. Un delizioso acciottolato a disegni geometrici rimarcati dall’intercalare di mattonelle di coccio rossastre e, in un angolo, una vegetazione rigogliosa, lo ingentilivano.

La donna, sino ad un attimo prima intenta nella lettura, mi ha spiegato che, per visitare l’oratorio, occorreva pagare un biglietto. Non ho esitato ad acquistarlo e mi sono infilato dentro nell'ombrosa quiete dell'oratorio, anche se - per me - la cosa più bella era stato degustare il distillato di pace del piccolo claustrum.

Ho avuto modo di ammirare gli stucchi del Serpotta che qui raggiungono una grande perfezione, anche per quanto riguarda la realizzazione di riquadri che presentano un’elaborazione prospettica delle scene, con figure umane più grandi sul davanti e dalle proporzioni via via più ridotto, man man che si recede verso il punto di convergenza delle linee di fuga..

Lo spazio interno dell’oratorio, a pianta rettangolare, completamente vuoto, con il pavimento di marmo a losanghe scure dà il massimo risalto agli stucchi che adornano le pareti e il soffitto. Piccole finestre rettangolari in alto, in basso, nel lato prospiciente lo pazio absidale due portoni che, adesso, in verità sono diventati delle grandi finestre aggettanti su via dell'Immacolatella, il cui livello si è abbassato di un paio di metri. Uno spazio severo, addolcito dalla profusione del bianco degli stucchi: grandi gruppi scultorei ai lati dell'alloggiamento della tela di Caravaggio, una moltitudine di putti intenti nelle più varie attività e le edicole disposte a fascia sulle due pareti lunghe dell'oratorio con delle scene prospettiche raffiguranti episodi salienti della vita di due Santi.

Questo oratorio rimase, sino ai primi anni del 2000, in uno stato di totale abbandono.

Era custodito, ma era come non lo fosse. Colpevole ed imperdonabile omissione.

L’altare era adornato con una famosa tela di Caravaggio che nel 1969 venne trafugata e di cui scomparve ogni traccia.

E, negli anni successivi, purtroppo, vennero trafugate anche alcune delle decorazioni di Giacomo Serpotta, soprattutto alcune tra le figure a tutto tondo contenute nei riquadri.

Infatti, a piedi di ciascuno dei riquadri (in ciascuno dei quali si nota una vistosa mancanza) sono state collocate delle foto dell’Archivio Alinari che mostrano l’interezza di ciascuna scena prima del furto.

Anche in questo caso, la refurtiva non venne mai ritrovata.

Il furto dell’opera di Caravaggio e degli stucchi non smosse minimamente le autorità competenti, né le indusse ad attuare degli interventi di ripristino dell'edificio e alla sua messa in sicurezza, anche dal punto di vista del miglioramento delle misure di sorveglianza.

Questo fu il vero scandalo, secondo me.

L’edificio venne ancora di più abbandonato e cadde in una sorta di colpevole rimozione. Insomma, per questo edificio dall'elevato interesse artistico, come per tanti altri, si è verificata una serie di colpevoli omissioni tipiche del modo di procedere nostri amministratori che - a seconda dei gusti - potrebbero catalogarsi come effetto dell'ignoranza, della negligenza o della collusione.

Persino la fontana di pietra al centro del cortile venne trafugata, per poi essere fortunosamente ritrovata

Sino a quando non arrivò lo statunitense Donald Gastang (1946-2007), grande ammiratore e studioso del Serpotta che promosse un movimento d’opinione, contribuendo attivamente a fare uscire dal dimenticatoio questo piccolo gioiello dell’arte barocca che, a partire dal 2004, è visitabile e sottoposto a tutta la necessaria manutenzione, oltre che a continui interventi migliorativi.


Due targhe commemorano Donald Gastang , una collocata all’esterno di cui ho già detto.L’altra proprio davanti al portone dal punto in cui si dipartono due rampe di gradini che portano al cortile interno.

Questa è una grande lastra di marmo, dietro la quale vennero collocate le ceneri di Gastang, in omaggio imperituro per ciò che aveva fatto per questo luogo.

Contemplando la seconda lastra di marmo non posso fare a meno di notare che Donald Gastang è nato appena tre anni pima di me e quasi nello stesso giorno: l'8 agosto, nel suo caso.

Una volta esaurita la visita all’Oratorio, sono rimasto a lungo a chiacchierare con Giuseppina, la giovane donna seduta sui gradini della fontana di pietra e addetta al presidio del luogo per conto dell’Associazione Amici Musei Siciliani che ne ha la gestione.

E' davvero uno spazio che, al di là dello specifico valore artistico delle opere d’arte che contiene, possiede un suo fascino ed ispira un sentimento di pace, invitando alla meditazione.

E’ stato solo con rammarico che, alla fine, sono andato via, immergendomi ancora una volta nel mio vagabondaggio metropolitano…

Alcune notizie sull'Oratorio di San Lorenzo

Edificato intorno al 1570 dalla Compagnia di San Francesco per seppellire i morti del quartiere Kalsa su solo nel secolo successivo ad essere impreziosito dei favolosi stucchi del grande Giacomo Serpotta.

La fascia superiore delle sculture è tutta di Giacomo Serpotta che la realizzò tra il 1699 e il 1706.

La plasticità e la tridimensionalità delle opere è quasi da brivido. Vedi nella foto solo un esempio "il martirio di San Lorenzo".

Nell'altare manca il pezzo forte dal punto di vista artistico che se ci fosse ancora farebbe di questo oratorio un must dell'arte barocca a livello mondiale: è "La Natività" una tela del Caravaggio realizzata nel 1609 e trafugata nel 1969, 360 anni dopo!

Caravaggio la dipinse durante il suo soggiorno in Sicilia; era fuggito da Malta, dove si trovava prigioniero nel carcere di Forte Sant'Angelo perchè accusato del ferimento di un Cavaliere di Giustizia a Roma.

Evidenti in alcune statue la tipica firma del Serpotta, una serpe stilizzata mimetizzata tra i personaggi delle scene di inimmaginabile realtà!

Altri esempi dell'arte del Serpotta sono contenuti nell'oratorio di Santa Cita e del Rosario oltre che nella chiesa dove è sepolto (S.Matteo) e in altre decine


Oratorio di San Lorenzo

Via Immacolatella n. 5

Tel: 091 6118168

Orari di visita:

Tutti i giorni dalle 10.00 alle 18.00

Biglietto intero: € 2.50

Biglietto ridotto:€ 1.50

Info: Amici Musei Siciliani

Per un approfondimento sui lavori di Giacomo Serpotta a Palermo

http://www.siciliainformazioni.com/giornale/cultura/scultura/77091/giacomo-serpotta-alito-vita-candido-stucco.htm

giovedì 3 giugno 2010

L'estate della paura: un grande capolavoro di Dan Simmons

Dan Simmons è uno scrittore prolifico ed eclettico, più noto tuttavia ad un pubblico di lettori di nicchia. Rispetto a Stephen King è rimasto un po' in secondo piano, ma - a mio modo di vedere - è geniale e coltissimo.
"L'estate della paura" ho avuto di leggerlo molti anni fa, nell'edizione ormai introvabile di Interno Giallo.
Lo divorai, letteralmente, e - per pura coincidenza - proprio nell'arco di alcuni giorni in una torrida estate (nel 1994, se non ricordo male, con mio figlio appena nato). Appena pochi mesi prima avevo letto IT di Stephen King, anche lui un autore a cui ero pure approdato tardivamente (perchè, sino ad un certo punto, proprio perchè andava per la maggiore lo avevo considerato con un certo sospetto e quindi tenuto a distanza).
Ma la lettura di "Nel segno dello scorpione" - e subito dopo di IT - ebbe un effetto davvero fulminante e da allora non me ne persi più uno, facendo tra l'altro una corsa contro il tempo per mettermi in pari con gli arretrati.
Invece, il percorso che mi portò a Simmons fu diverso: in quegli anni, uno dei miei generi preferiti era ancora la science-fiction e di lui, arrivandoci attraverso una recensione in una rivista specializzata, ebbi modo di leggere una saga (Hyperion) in diversi volumi in cui si mescolavano, in un intreccio originale, temi della fantascienza, con intersezioni tra passato e futuro, e dell'horror. Fu quindi la volta d "Il canto di Kali", inquietante horror allo stato puro, cui segui "Danza macabra" (una rivisitazione del nazismo inquinato da sanguinari vampiri) e, quindi de "L'estate della paura", molto contiguo temporalmente a IT (stessa epoca storica, anni Sessanta), anche se ambientato in un altro stato (Illinois).
Trovai che, se "L'estate della paura"" di IT condivideva alcune tematiche, tra cui la storia di un gruppo adolescenziale, il percorso di formazione dei protagonisti colti nel transito dall'infanzia all'età adulta, con tutte le nostalgie e le irrequietudini che vi sono correlate, vi erano delle divergenze importanti nel senso che il tema della paura qui era trattato con uno stile molto più genuinamente lovecraftiano: l'antica maledizione, un essere mostruoso tenuto sotto controllo in modo precario, ma pronto a risorgere per avviare nuovi percorsi di un Male atroce e terrifico, il suo radicamento in antiche consuetudini sataniche importate dal Vecchio Mondo, la necessità di scavare in un passato lontano per capire gli accadimenti del presente.
In questo senso, il romanzo di Dan Simmons è costruito in uno stile molto più "europeo" e contiene delle raffinatezze letterarie che ne fanno un'opera assolutamente originale.
Viene ora riedito per i tipi di Gargoyle Books (già due successive edizioni, entrambe esaurite) in una trasduzione rinnovata e soprattutto integrale rispetto all'originale, corredato da un'accurata postfazione dello scrittore e saggista Riccardo D'Anna, tutta da leggere.
Delle sue parole, mi piace citare qui un breve passaggio, sulla sottile demarcazione tra "terrore" e "orrore" che illustra una della qualità del testo di Simmons e che lo rendono indubbiamente sofisticato rispetto ad un comune romanzo "horror": letteratura universale, più che di genere.
La demarcazione tra "orrore" e "terrore" è piuttosto sfumata nel testo: o meglio, il secondo rende possibile il primo. Simmons gioca su una scacchiera contenuta, per sua natura "allegorica" e "simbolica" (che è poi quella della cosa-senza-nome), riuscendo tuttavia a modulare con bravura una serie di varianti significative, abile, sin dalle primissime pagine, nel dosare il senso del presagio giustapponendo le percezioni che provengono dai diversi sensi (ib., p. 631).

Questa la presentazione del romanzo nel risguardo di copertina
Elm Haven, Illinois, 1960. È estate, la scuola è appena finita e 5 ragazzi di 12 anni stanno cementando un'amicizia che durerà tutta la vita e assaporando i primi, timidi corteggiamenti alle loro coetanee. Ma, fra i giochi in mezzo ai campi di grano assolati e le spensierate corse in bicicletta, qualcosa si nasconde in agguato. Una mostruosa entità senza tempo sta mietendo vittime fra i ragazzi della Old Central School, e gli adulti o rifiutano di capire quel che sta succedendo o sono essi stessi emissari di quel Male. Toccherà proprio a quei 5 amici indagare sulla natura di quell'incubo tremendo e affrontare il mostro, prima di finire anche loro preda della sua rapace avidità. E così Mike, Duane, Dale, Harlen e Kevin vivranno il loro passaggio all'età adulta lottando contro un arcano abominio che infesta le ore del buio...

Nota bio-bibliografica sull'autore

Dan Simmons nasce nel 1948 a Peoria, nell'Illinois. Nel 1971 si laurea in Pedagogia alla Washington University di St. Louis, poi si dedica per 18 anni all' insegnamento in scuole specializzate in programmi formativi per bambini superdotati. Nel 1982 pubblica il suo primo racconto, tre anni dopo il primo romanzo, "Song of Kali", che vince il World Fantasy Award!

Dal 1987 Simmons si dedica a tempo pieno alla scrittura, pubblicando oltre 20 romanzi e diverse antologie di raccconti.

Nella sua lunga, prolifica carriera ha collezionato un'infinità di premi letterari, vincendo un Hugo Award, due World Fantasy Award, un Theodore Sturgeon Memorial Award, otto Locus Award, vari British Fantasy and Sci-Fi Award e quattro Bram Stoker Award.

Simmons è uno scrittore di difficile collocazione all'interno delle etichette letterarie: uno dei pochi al mondo in grado di mescolare sapientemente insieme i generi più svariati (fantascienza, fantasy, horror, suspense, noir...).

I suoi romanzi horror più famosi, a parte "Danza Macabra" ("Carrion Comfort") e il già ricordatp "Il canto di Kali", sono "L'estate della paura" (ritenuto il suo capolavoro), "I figli della paura" ("Children of Night") e "L'inverno della paura". Per i suoi contributi all'attività dell'insegnamento, nel 1995 Dan Simmons ha ricevuto una laurea ad honorem dal Wabash College. Per la sua duplice attività di scrittore e giornalista è stato invece recentemente premiato con il National Phi Beta Kappa Award.

Il sito personale dell'autore è il seguente: www.dansimmons.com


 
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