mercoledì 22 settembre 2010

Un sogno: l'ansia di porre rimedio e di rimettere le cose a posto


Ho sognato mia madre, dopo tanti mesi dalla sua scomparsa.
Ero in una casa, forse quella di mamma.
Tante cose fuori posto: cose di spesa, piuttosto che oggetti della casa.
Cerco di mettere in ordine, distinguendo tra scarti e cose da conservare.
Ci sono molti ortaggi andati a male.
Quelli bisogna raccoglierli e metterli via.
E' come se qualcuno avesse fatta la spesa e si fosse poi dimenticato di mettere le cose a posto...
Un secchiello che sembra esser pieno di carta appallottolata e Frida si accanisce a ficcarci dentro il muso.
Lo prendo e lo esamino: sotto lo strato di carta c'è una grande quantità di croccantini.
Rimetto il secchio per terra e lascio che Frida ne mangi a volontà.
Mia madre c'è anche se non la vedo...
Di continuo, mi dà istruzioni su ciò che devo fare per rimettere tutto a posto.
Quando mi sono risvegliato, provavo - nel ricordare questo sogno - un senso di conforto e meraviglia.
Nei giorni scorsi ho notato con un certo fastidio che alcuni degli oggetti di casa di mia madre ora di mio fratello (molte suppellettili del salotto ma anche qualche piccolo mobile) hanno insensibilmente cambiato di posto e che, quindi, la fisionomia della stanza era lievemente mutata, quasi fosse stato in opera un inarrestabile movimento entropico (oggetti affastellati, altri inspiegabilmente migrati come un vecchio portacenere della cucina, finito chissà come proprio nel salotto "buono").
Quando mi sono accorto di ciò ho cercato di porre rimedio, ripristinando la posizione antica degli oggetti, quella che più mi era familiare.
Non mi sarei sentito tranquillo, se non l'avessi fatto.
L'alterazione nell'ubicazione spaziale degli oggetti, il loro affastellamento insulso, rimandano al pensiero di altre mani che si posano su di essi, senza capirli e senza percerpirne il significato: per alcuni versi, pur essendo solo degli oggetti, hanno un valore quasi sacrale, poichè ognuno di essi è legato ad un ricordo, ad un evento oppure ad una storia...
Sicuramente, nella genesi del sogno, ha fatto la sua parte anche quel mazzo di settembrini (o "astri", esattamente come le stelle del cielo...) che - come una nuvola candida e lieve - se ne stava dal giorno prima ad aleggiare nella stanza da pranzo, ospite di un grande vaso di cristallo che ho preso proprio da casa di mamma: a mia madre i settembrini piacevano più di ogni altro fiore e, in tempo d'autunno, ce n'era sempre - a casa sua - un grande mazzo vicino alla foto di mio padre.
Mia madre era una che si prendeva cura delle cose e, soprattutto, delle persone...

Palermo, il 21 settembre 2010

sabato 18 settembre 2010

Le scritte sui muri e sulle strade: come i tatuaggi, sono un'asserzione del proprio esistere


Oggi, camminando per strada, al termine della mia corsa quotidiana, una scritta sull'asfalto, ha attirato la mia attenzione.

In grossi caratteri cubitali bianchi e disposta per lungo, cioè nel senso di marcia e facilmento leggibile per questo motivo da chi si affacciasse dalla casa del quartiere Matteotti prospiciente, faceva così:

Devo a te ogni mio respiro.

Dirti ti amo è ben poca cosa

La cito a memoria, perchè le grandi dimensioni non mi consentivano di potere contenere tutta la frase in un'unica foto.

Le scritte sui muri e sulla strada o sugli alberi o dovunque vi sia un piccolo spazio disponibile sono un po' come i tatuaggi che oggi vanno tanto di moda e ai quali si riconosce un po' la natura di messaggio collocato proprio nell'interfaccia tra sé e il mondo e un po' quella di rappresentazione tangibile del proprio esistere, un modo per asserire con forza se stessi, a prescindere dalla valenza comunicativa effettiva, ed anche del transito di informazioni e della condivisione di sentimenti e di stati d'animo tra sé e l'Altro.

In questo senso, l'aspetto comunicativo del messaggio tracciato su superfici esterne assume una valenza del tutto secondaria, mentre ha maggior valore, indubbiamente, la sua cifra narcisistica. Più che un flusso dinamico, il messaggio scritto è un'asserzione puntiforme, bloccata, non passibile di trasformazione né richiedente un'interlocuzione.

Si potrebbe dire che tale modalità abbia esattamente lo stesso valore del messaggio che si lancia in mare rinchiuso in una bottiglia ermeticamente chiusa.

Qualcuno lo potrà leggere in un ipotetico futuro e non si sa chi.

A chi lo lancia non importa sapere nè quando sarà letto, nè da chi.

Mentre io scrivo il messaggio e lo confeziono nel suo format, io sono vivo, ESISTO.

E, in ultima analisi, è questo ciò che conta.

giovedì 16 settembre 2010

In "The american" il thriller si trasforma in storia melanconica di impossibile fuga


"The american" (per la regia di Anton Corbijn, 2010) è un film che, nelle recensioni e nelle locandine, viene ascritto al genere "thriller". Da questo punto di vista manca un po' il segno rispetto ai canoni attuali di questo genere che vogliono scene velocizzate, tensione, colonna sonora studiata ad hoc per rinforzare le sensazioni piuttosto che stemperarle, uccisioni e spargimenti di sangue.
E' invece un film lento, a volte di una lentezza insopportabile.
In questo senso, si potrebbe dire che il film di Corbijn, pur avendo la vocazione del thriller, ne ha mancato il segno.
Invece, inaspettatamente assume la cifra del film intimista che rappresenta la storia di uomo che, avendo vissuto pericolosamente ed essendo divenuto "preda" di un'organizzazione criminale che, dopo essersi servita delle sue abilità, ora è decisa a "terminarlo", vorrebbe cambiar vita mettendosi su di una via in cui si possono coltivare sentimenti e relazioni, entrambi da preservare e da custodire (in una parola da "curare"), abbandonando quegli schemi di decodifica del mondo paranoici, propri di chi si è assuefatto ad una vita fatta di rischio ed incontri infidi.
Tutto si gioca nell'intimismo d'una foresta nordica innevata, in un luogo sperduto della Svezia ai bordi d'un lago ghiacciato, e nella pace malinconica d'un paesino pietroso in terra di Abruzzo (Castel del Monte), costruito sulla cima di un monte, dalle case assiepate le une sulle altre, quasi a sostenersi a vicenda, vicoli e scale deserte.
Il paesaggio riflette gli stati d'animo di Jack/Edward (George Clooney). Prima il freddo glaciale della tundra e poi le strade deserte e silenziose di un borgo antico che, inaspettamente e per veloci attimi, possono animarsi di presenze ed incontri in cui ciò che domina sono la curiosità e la voglia di sapere e conoscere il mondo ostile dello "straniero".
Sin quasi dall'inizio si direbbe che sono i luoghi a raccontare la storia, piegando le esigenze di una sceneggiatura che doveva essere d'azione al proprio specifico linguaggio, così come recita uno dei motivi conduttori della poetica di Wim Wenders.
Il film, in larga parte, rende omaggio, al luogo in cui è stato girato: Castel del Monte, l'antico paese in provincia dell'Aquila miracolosamente lasciato indenne dal recente terremoto (ad eccezione di qualche lieve danno alla torre campanaria dominante le case del borgo antico), ricorda bene la presenza della troupe cinematografica durante le riprese; i suoi abitanti mostrano con orgoglio la casa dove alloggiava George Cloneey e riflettono nostalgicamente sulla ventata di movimentazione e di inconsueta velocizzazione di quei giorni, rispetto ai ritmi lenti di una cittadina che un tempo ospitava quasi 5000 residenti (per la più parte famiglie che avevano nella pastorizia il fulcro della propria economia) e che adesso ne raccoglie, di anime, soltanto, poco più di 400. Un paesino, per alcuni aspetti, vicino al cielo, dal momento che si trova collocato proprio sulla via d'accesso a Campo Imperatore, l'altopiano più esteso d'Europa, di cui il film ci regala alcuni straordinari scorci dall'alto.
A Castel del Monte io ci sono stato, ho percorso quelle strade, ho visitato il borgo antico con le sue piccole case di pietra con le sue strade ripide e a stretti gradini e ci ho camminato per lungo e per largo, in su e in giù: quindi lo so che è uno splendido scenario per raccontare il percorso di un'anima, purtroppo destinato a fallire, dal momento che è difficile dimenticare e lasciarsi alle spalle gli schemi comportamentali appresi nel corso d'una vita precedente e, soprattutto, è quasi impossibile disinvischiarsi da una rete di rapporti dominati da violenza e sopraffazione.
Il progetto/desiderio di Jack/Edward alla fine fallirà: e il film, in definitiva, è tutto qui. La storia di un'anima smarrita alla ricerca di una luce, che alla fine tuttavia incontrerà soltanto il buio, pur avendo compreso ciò che desidererebbe avere in una nuova vita.
E' una storia che lascia un po' spiazzati, perchè si entra con la convinzione di vaccingersi a vedere uno dei consueti thriller, mentre invece la storia si dipana su scenari interiori assolutamente imprevisti.
E, in genere, quando ci si accosta ad un opera che si suppone essere di puro intrattenimento, non si è del tutto predisposti a guardare gli ardui e sofferenti percorsi di un protagonista.
Non ci si è preparati, così come può risultare difficile guardare dentro se stessi.
All'uscita dalla sala cinematografica un piccola comitiva di signore di mezza età commentava il film appena visto: il desiderio di vedere George Clooney in uno dei consueti ruoli era stato chiaramente spiazzato da questa aporia e dall'inevitabile lentezza del ritmo narrativo.
La chiave "depressiva" (ed uso questa parola in modo specifico) impone scenari in cui, apparentemente, nulla di eclatante appare allo sguardo: ma il registro depressivo nell'elaborazione psichica rappresenta sempre un punto di svolta trasformativo del proprio Sé che impone una riflessione sui danni (interiori ed esteriori) prodotti e sui modi di porre rimedio ad essi, laddove sia possibile e di imparare a convivere con guasti non più emendabili.

martedì 7 settembre 2010

Un breve viaggio nel cuore della Sicilia


La Sicilia è una terra straordinaria, verde e densamente popolata nella gran parte dei suoi contorni, spoglia e desolata al suo interno. Basta abbandonare le strade costiere e piegare verso l'entroterra per avere l'impressione che si sta penetrando in un mondo arcaico e distante decine di anni dalla civilizzazione, come noi la concepiamo nel primo decennio del 2010.
Le suggestioni che si traggono da questo viaggio all’indietro nell’interiorità della Sicilia sono un po' simili a quelle raccontate da Carlo Levi in "Cristo si è fermato ad Eboli".
Esiste un profondo Sud della Sicilia ancora incontaminato e ciò è dipeso sia dalle barriere montuose che hanno isolato e protetto molte territori interni dalla urbanizzazione, ma anche dal fatto che tanto parte della Sicilia profonda - occidentale, soprattutto - è stata dominata dal latifondo che ha impedito l'emergere di un'intera classe di piccoli e medi coltivatori diretti, ma anche la mancanza d'acqua e l'inospitalità dei territori che facevano sì che i contadini preferissero vivere stretti nei centri abitati e affrontare ogni giorno lunghi spostamenti o a piedi o a dorso di mulo sino alle terre da lavorare.
Poi, nei tempi moderni arrivarono il Motom, la Lapa e, infine, i mezzi a quattro ruote che - ancora una volta - non facilitarono il decentramento abitativo.
Adesso, è cosa frequente vedere i pastori dei Nebrodi e delle Madonie, fare i pendolari da e per i luoghi di pascolo con moderni veicoli a quattro ruote motrici o con i Quad per arrivare nei terreni di pascolo più impervi: oggi non devono più confrontarsi con lunghi periodi di isolamento in luoghi impervi e distanti dal paesello, in cui si recavano con i grandi pani rotondi che dovevano durare loro per almeno una settimana con un pugno di olive e i prodotti della pastorizia a far da companatico.
Per capire questa Sicilia, fatta di grandi spazi e di addensamenti abitativi il più delle volte arroccati in luoghi impervi, occorre leggere più che "Conversazioni in Sicilia", "Le città del mondo" (Einaudi 1974), forse una delle più grandi opere – pur incompiuta - di Elio Vittorini, cominciata negli anni ’50 ad interrompere un lungo silenzio creativo, e publicata postuma nel 1969, perché ci trasmette intatta la magia della Sicilia e della vastità delle sue contrade, con una scansione narrativa che assume la configurazione di un viaggio attraverso il mare deserto da un porto all'altro (e ogni porto nella notte luccica delle sue luci rassicuranti, incastonante in un mare di oscurità, e ogni città ha le sue storie da narrare).
La strada che dalla Statale 113 si dipana verso l’interno, cioè la SS120, che ha il suo km 0 esattamente al bivio per Cerda e si muove in direzione di Caltavuturo era parte integrante del percorso storico della Targa Florio: percorrendola, si abbandonano presto le tracce della modernità e, specie d’estate, mentre ci si addentra nella valle del fiume Torto non è infrequente imbattersi in tracce di incendi che hanno annerito i campi e attaccato anche rade macchie di alberi.
Ma queste sono soltanto avvisaglie: una volta abbandonata Cerda, il paesaggio si fa sempre più collinare, la strada stretta e tortuosa, piena di strettoie e di dossi, franata in molti punti: ci si chiede come fosse possibile che, sino a recente, lungo di essa sfrecciassero i bolidi della Targa Florio e quali fossero i margini di sicurezza per i piloti, con alcune balle di fieno come unica protezione collocate qua e là, in posizioni strategiche nei punti ritenuti più critici.
Il colore dominante è il giallo dei campi che si estende in ondulazioni a perdita d’occhio sino alle masse imponenti delle Madonie, anch’esse ingiallite sino ad un certo punto delle pendici e poi rivestite di un verde boschivo che d’estate si fa stinto e smorto, mentre le cime più alte si fanno nuovamente brulle e sassose.
Ai lati, un cavallo al pascolo in un campo di stoppie e poi una mandria di mucche con i vitelli da latte.
Un paesaggio davvero ancestrale: un’impressione accresciuta dal fatto che, spegnendo il motore della propria auto, il silenzio si fa subito profondo e il passaggio di altre vetture a motore è davvero rado. Nemmeno una fila di pale eoliche in funzione riesce a introdurre con forza e in modo assertivo un elemento di modernità.
Percorrendo questa strada e addentrandosi sempre più all’interno, mentre si fanno via via più imponenti a chiudere da due lati l’ampia vallata gialla la rocca di Caltavuturo e quella ferrigna di Sclafani, al km 18 circa ci si imbatte in un basso casolare dalle muro di pietra a vivo, simile ad un analogo edificio circa un chilometro prima.
Era un vecchio deposito di trattori e altri macchinari agricoli (come l’altro un po’ prima), oggi trasformato in agriturismo (Il Cardellino di Sofia Cipolla).
La sosta qui apre delle prospettive singolari, perché è come se si fosse in un’interfaccia tra due mondi diversi.
Un lato dell’edificio infatti confina con la strada asfaltata che, in qualche modo rappresenta il contatto con la modernità e i cambiamenti introdotti dalla tecnologia: la Targa Florio con i suoi bolidi rombanti che sfrecciavano davanti a queste mura rappresentava infatti, proprio nel cuore di questa terra ancestrale, il sogno futurista di un’inarrestabile progressione verso la modernità.
La strada asfaltata e il ricordo dei bolidi rombanti (che adesso sono solo nella memoria dei nostalgici: e il rally con auto d’epoca lungo lo stesso percorso né è soltanto una pallida rievocazione) rappresentano la modernità. Si varca la soglia dell’agriturismo, o passando dalla porta che dà sulla strada o percorrendo il viale d’accesso fiancheggiato da cipressi ancora giovani, e si entra davvero in un altro mondo.
Si apre davanti al viandante un panorama intoccato una vallata che si distende ampia, d’estate tutta gialla, cintato da monti distanti: le Madonie in primo luogo, con le principali cime tutte in evidenza a formare un maestoso anfiteatro, poi girando lievemente lo sguardo ecco stagliarsi imponente la rocca di Caltavuturo (ben conosciuta dagli Arabi, come punto di importanza strategica) e la rocca montana su cui è costruita la cittadina Sclafani le cui case abbarbicate in cima al monte ne condividono la lapidea asprezza e grigiore.
E mentre nella stagione estiva il colore dominante è il giallo delle stoppie, inframmezzato dal blu azzurrino degli ulivi e dalle bordure di fico d’India, nel terreno dominato dell’agriturismo, si può godere di una profusione di essenze arbustive, rosmarino, salvia, lavanda a bordure, e poi piante di falso pepe, ginestre, cespugli di alloro e ancora cipressi accanto ad ulivi di recente impianto, in una convivenza classica che evoca certi panorami della Grecia, ma anche Foscolo e altri poeti della classicità o anche Carducci con i cipressi maestosi che bordano la via che da Bolgheri conduce a San Guido.
Più distante, un selvatico boschetto di eucalipti, mentre incastonata nel verde, una piccola piscina cattura l’azzurro del cielo, conferendo al panorama una discreta nota esotica.
Entrando in questo spazio, delimitato (alle spalle rimane pur sempre l’antico casolare e la sua ombra densa) eppure aperto si può godere di un’inusitata pace bucolica, mentre si vagabonda lungo i passaggi delimitati da siepi o ci si ferma al bordo della piscina.
Poi, con l'animo rasserenato, ci si potrà soffermare a consumare un pasto sobrio, cucinato da un cuoco giovanissimo che ammannisce agli ospiti piatti paesani confezionati seguendo le antiche ricette della nonna (proprio così!).
E, poi, alla fine, dopo aver trascorso alcune ore di disambientamento, si può tornare alla “civiltà”, soddisfatti eppure nostalgici per aver lasciato un luogo di pace edenica, al quale – appena lo si è lasciato - si vorrebbe subito tornare.
Si immagina come sarebbe lo stesso luogo nella transizione da una stagione all’altra e si vorrebbe tornare per osservarne le trasmutazioni cromatiche, ma anche di odori e fragranze.
Il viaggio di ritorno lungo questo tratto di strada regala una veduta inusitata su Monte San Calogero che con la sua mole domina la valle del fiume Torto e la cui cima è sovente incappucciata di nubi che si accendono di splendidi colori al calare del sole.
 
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