giovedì 16 settembre 2010

In "The american" il thriller si trasforma in storia melanconica di impossibile fuga


"The american" (per la regia di Anton Corbijn, 2010) è un film che, nelle recensioni e nelle locandine, viene ascritto al genere "thriller". Da questo punto di vista manca un po' il segno rispetto ai canoni attuali di questo genere che vogliono scene velocizzate, tensione, colonna sonora studiata ad hoc per rinforzare le sensazioni piuttosto che stemperarle, uccisioni e spargimenti di sangue.
E' invece un film lento, a volte di una lentezza insopportabile.
In questo senso, si potrebbe dire che il film di Corbijn, pur avendo la vocazione del thriller, ne ha mancato il segno.
Invece, inaspettatamente assume la cifra del film intimista che rappresenta la storia di uomo che, avendo vissuto pericolosamente ed essendo divenuto "preda" di un'organizzazione criminale che, dopo essersi servita delle sue abilità, ora è decisa a "terminarlo", vorrebbe cambiar vita mettendosi su di una via in cui si possono coltivare sentimenti e relazioni, entrambi da preservare e da custodire (in una parola da "curare"), abbandonando quegli schemi di decodifica del mondo paranoici, propri di chi si è assuefatto ad una vita fatta di rischio ed incontri infidi.
Tutto si gioca nell'intimismo d'una foresta nordica innevata, in un luogo sperduto della Svezia ai bordi d'un lago ghiacciato, e nella pace malinconica d'un paesino pietroso in terra di Abruzzo (Castel del Monte), costruito sulla cima di un monte, dalle case assiepate le une sulle altre, quasi a sostenersi a vicenda, vicoli e scale deserte.
Il paesaggio riflette gli stati d'animo di Jack/Edward (George Clooney). Prima il freddo glaciale della tundra e poi le strade deserte e silenziose di un borgo antico che, inaspettamente e per veloci attimi, possono animarsi di presenze ed incontri in cui ciò che domina sono la curiosità e la voglia di sapere e conoscere il mondo ostile dello "straniero".
Sin quasi dall'inizio si direbbe che sono i luoghi a raccontare la storia, piegando le esigenze di una sceneggiatura che doveva essere d'azione al proprio specifico linguaggio, così come recita uno dei motivi conduttori della poetica di Wim Wenders.
Il film, in larga parte, rende omaggio, al luogo in cui è stato girato: Castel del Monte, l'antico paese in provincia dell'Aquila miracolosamente lasciato indenne dal recente terremoto (ad eccezione di qualche lieve danno alla torre campanaria dominante le case del borgo antico), ricorda bene la presenza della troupe cinematografica durante le riprese; i suoi abitanti mostrano con orgoglio la casa dove alloggiava George Cloneey e riflettono nostalgicamente sulla ventata di movimentazione e di inconsueta velocizzazione di quei giorni, rispetto ai ritmi lenti di una cittadina che un tempo ospitava quasi 5000 residenti (per la più parte famiglie che avevano nella pastorizia il fulcro della propria economia) e che adesso ne raccoglie, di anime, soltanto, poco più di 400. Un paesino, per alcuni aspetti, vicino al cielo, dal momento che si trova collocato proprio sulla via d'accesso a Campo Imperatore, l'altopiano più esteso d'Europa, di cui il film ci regala alcuni straordinari scorci dall'alto.
A Castel del Monte io ci sono stato, ho percorso quelle strade, ho visitato il borgo antico con le sue piccole case di pietra con le sue strade ripide e a stretti gradini e ci ho camminato per lungo e per largo, in su e in giù: quindi lo so che è uno splendido scenario per raccontare il percorso di un'anima, purtroppo destinato a fallire, dal momento che è difficile dimenticare e lasciarsi alle spalle gli schemi comportamentali appresi nel corso d'una vita precedente e, soprattutto, è quasi impossibile disinvischiarsi da una rete di rapporti dominati da violenza e sopraffazione.
Il progetto/desiderio di Jack/Edward alla fine fallirà: e il film, in definitiva, è tutto qui. La storia di un'anima smarrita alla ricerca di una luce, che alla fine tuttavia incontrerà soltanto il buio, pur avendo compreso ciò che desidererebbe avere in una nuova vita.
E' una storia che lascia un po' spiazzati, perchè si entra con la convinzione di vaccingersi a vedere uno dei consueti thriller, mentre invece la storia si dipana su scenari interiori assolutamente imprevisti.
E, in genere, quando ci si accosta ad un opera che si suppone essere di puro intrattenimento, non si è del tutto predisposti a guardare gli ardui e sofferenti percorsi di un protagonista.
Non ci si è preparati, così come può risultare difficile guardare dentro se stessi.
All'uscita dalla sala cinematografica un piccola comitiva di signore di mezza età commentava il film appena visto: il desiderio di vedere George Clooney in uno dei consueti ruoli era stato chiaramente spiazzato da questa aporia e dall'inevitabile lentezza del ritmo narrativo.
La chiave "depressiva" (ed uso questa parola in modo specifico) impone scenari in cui, apparentemente, nulla di eclatante appare allo sguardo: ma il registro depressivo nell'elaborazione psichica rappresenta sempre un punto di svolta trasformativo del proprio Sé che impone una riflessione sui danni (interiori ed esteriori) prodotti e sui modi di porre rimedio ad essi, laddove sia possibile e di imparare a convivere con guasti non più emendabili.

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