mercoledì 22 luglio 2009

Lo sbarco sulla luna, vero o falso, è una formidabile macchina dei sogni


Quest'anno, il 20 luglio 2009, ricorreva il quarantennale dello sbarco sulla luna che ha rappresentato il culmine della missione Apollo 11, con un equipaggio composto da Neil Armstrong, "Buzz" Aldrin e Michael Collins.
Neil Armstrong è quello della celebre camminata sulla superficie lunare, "il primo uomo sulla luna", quello della frase che ha fatto storia perchè condensò l'epopea del viaggio lunare in poche - memorabili - parole, pronunciata mentre poggiava il piede sulla luna "E' un piccolo passo per un uomo, ma un grande salto per l'umanità".
Buzz Aldrin fu semplicemente ricordato come il "secondo uomo sulla luna": l'appannaggio del primo passo rimase ad Armstrong che, pur avendo perseguito nel corso della sua vita successiva grandi realizzazioni, viene ricordato in maniera esclusiva per quelle due ore e mezza di camminata lunare.
Michael Collins rimase un po' in ombra: lui era sul modulo orbitante per manovrarlo durante le manovre di avvicinamento del LEM e per mantenere i contatti tra la Terra (il centro di controllo di Houston, Texas) e i compagni sul modulo lunare, una funzione cruciale - a dire il vero - ma poco funzionale nella costruzione dell'"epica" dello sbarco.
L'impresa, orchestrata dalla NASA, rappresentò in modo cruciale l'evoluzione della guerra fredda tra il blocco sovietico e quello americano che si trasformò in disfida tecnico-scientifica.
L'allunaggio segnò in qualche misura il trionfo della tecnologia americana su quella sovietica e fu, a tutti gli effetti, una mossa cruciale nella partita a scacchi che i due colossi giocavano in quegli anni: dietro la tecnologia c'era - indubbiamente - un'esigenza di tipo politico che decretò in qualche misura la "necessità" di una simile riuscita.
E' chiaro tuttavia che il successo degli USA si innestò universalmente nell'immaginario collettivo del globo terracqueo, al di là delle differenze etniche, di religione e culturali.
La conquista della Luna rappresenta l’unico esempio nella storia umana di come uno scontro ideologico si sia trasformato da conflitto militare a contesa tecnico-scientifica. Tale evoluzione sembra al momento inimmaginabile per gli attriti con il mondo islamico. L’impresa lunare è stato anche il più complesso sforzo organizzativo dopo la costruzione delle piramidi sulle quali però abbiamo notizie incerte. La coralità dell’opera che ha coinvolto migliaia di persone e la sua dimensione tecnologica a volte non immediatamente comprensibile hanno però relegato i protagonisti in secondo piano a differenza di altre imprese rimaste nell’immaginario collettivo come il volo di Charles Lindberg. Cambiare il punto di vista può aiutare a rimettere l’Uomo al centro della scena. Senza dimenticare la fascinosa e inquietante compagna dei giocatori che non disdegna la frequentazione anche di austeri scienziati, la Sorte: senza i suoi favori non si torna sulla Luna né si va su Marte.
L'impresa lunare venne guardata in diretta in tutto il mondo.
Molti acquistarono i primi modelli di televisore a colori per seguire meglio l'impresa (per esempio a Papa Paolo VI ne fu procurato uno, proprio a questo scopo, per la sua residenza estiva di Castelgandolfo), mentre molti altri acquistarono per la prima volta un semplice apparecchio televisivo in bianco-nero.
Grandi ed intense furono le emozioni collettive, la contentezza, l'ansia, l'apprensione, la sensazione che un grande traguardo per l'umanità fosse stato raggiunto.
Molte grandi firme del giornalismo italiano di oggi, erano proprio lì, a Cape Canaveral, come - ad esempio - un giovanissimo Piero Angela.
Nel quarantennale dell'impresa, Barak Obama, ha ricevuto alla Casa Bianca i tre cosmonauti, tributando loro un giusto riconoscimento e ricordando che ai tempi dell'impresa, lui meno che adolescente - come tanti altri - aveva seguito l'impresa in televisione, infiammandosi di emozioni uniche e profonde.
La meraviglia, le forti ed intense passioni, le ansie suscitate dall'impresa lunare sono narrate magistralmente in uno dei migliori saggi mai pubblicati di Norman Mailer, Un fuoco sulla luna, (Mondadori, 1971), oggi difficilmente reperibile.
A distanza di tanti anni, tuttavia, non manca un po' di retorica: da tante parti si sente usare la frase roboante "la conquista della luna".
Ma di che genere di "conquista", si trattò visto che la luna non fu successivamente colonizzata, né sfruttata dal punto di vista delle sue risorse, nè si ripeterono ulteriori sbarchi di cosmonauti, anche perchè il programma spaziale "Apollo" venne bruscamente interrotto a causa della tragedia dell'Apollo 13?
E, in più, chi avrebbe conquistato cosa? L'umanità intera, oppure gli USA, oppure cos'altro?
Diciamo che, ridimensionando le cose, si trattò di un semplice sbarco.

Ma lo sbarco ci fu veramente?
Oppure non fu altro che un abile (e volgare) camuffamento, una sceneggiata messa in piedi dalla NASA, perchè in quegli anni agli USA faceva comodo poter essere i primi nella corsa alla conquista dello spazio, dimostrando che erano in grado di raggiungere un traguardo ineguagliabile dal punto di vista tecnologico?
Sono interrogativi che non troveranno mai una risposta certa, anche se innumerevoli sono le tracce che portano a ritenere che lo sbarco sulla luna fu una beffa perpetrata ai danni dell'umanità tutta. (Mondadori, 1971), oggi difficilmente reperibile.
Secondo alcuni detrattori sarebbero gli errori fotografici (e in particolare il modo in cui cadono le ombre rispetto alla fonte di luce, ma anche l'assenza di stelle dalla volta nera del cielo sulla luna che invece dovrebbero essere molto più visibili che dalla terra per via della mancanza di atmosfera) la prova più nota e comunemente riconosciuta della pantomima.
Ma vengono invocate come prova (indiretta) anche le facce da funerale esibite dai tre cosmonauti alla prima conferenza stampa cui ebbero modo di partecipare subito dopo il loro ritorno. E, in più, il fatto che - stranamente - dall'impresa tanto celebrata dell'allunaggio dagli Americani, sempre così pronti a trasformare eventi importanti che li riguardano in film celebrativo-avventurosi, non venne mai realizzato un film.
Esistono numerosi articoli e documenti che mettono in discussione la veridicità dell'evento.
Tra questi un volume pubblicato nel 1987 negli Stati Uniti e un decennio più tardi in traduzione italiana, scritto da un certo Bill Kaysing che "...ha lavorato per parecchi anni come direttore delle pubblicazioni tecniche presso i laboratori della Rocketdyne Research, la ditta che ha progettato e costruito i motori dei razzi che apparentemente hanno portatole navicelle Apollo sulla luna".
Il titolo del volume è "Non siamo mai andati sulla luna. Una beffa da 30 miliardi di dollari" (titolo originale: "We never went to the moon"), pubblicato da Cult Media Net Edizioni, "... un dossier serio e approfondito sul più dispensioso bluff del secolo".
Si tratta della cosiddetta "teoria del complotto lunare" a cui in Wikipedia è dedicata una specifica voce, corredata di una serie di argomento a supporto e di controdeduzioni.

Più o meno coevo all'anno di publicazione del volume negli USA (con una sceneggiatura direttamente ispirata allo scenario proposto dal libro di Kaysing), ci fu il film Capricorn One, uscito nel nel 1978 e diretto da Peter Hyams (prodotto dalla compagnia di produzione ITC Entertainment di Lew Grade per conto della Warner Bros).
La vicenda è incentrata sulla messa in scena di un falso atterraggio sul pianeta Marte da parte della NASA, con i cosmonauti che partecipano, complici, alla messinscena perchè mogli e familiari sono tenuti sotto minaccia. Questa la trama.
Charles Brubaker è il capo dei tre astronauti che prenderanno parte alla prima spedizione su Marte. Pochi secondi prima del lancio gli astronauti vengono fatti uscire dalla navicella, che comunque viene inviata nello spazio. I responsabili della spedizione della Nasa sono a conoscenza che problemi tecnici avrebbero causato la morte degli uomini all'interno della navetta.Per non affrontare le conseguenze negative che sarebbero senz'altro seguite nel dichiarare la verità, spediscono i tre uomini in una base aerea dimessa, da dove, fingendo di essere in viaggio nello spazio, dovranno trasmettere e tenersi in contatto con la Nasa. Il giornalista Robert Coffield, indagando sulla scomparsa di un tecnico della base spaziale, scopre qualcosa che lo lascia a bocca aperta..
Sebbene Capricorn One sia per tematica un tipico thriller anni Settanta su una cospirazione governativa (che presenta forti similutidini con il successivo Outland dello stesso regista) la storia fu ispirata ai forti dubbi, mai sopiti, che l'atterraggio sulla Luna da parte dell'Apollo fosse stato un inganno realizzato con la inconsapevole complicità dei media.
Oggi siamo un po' più "vaccinati" su queste faccende, ma una "legge" che si presenta con costanza nella comunicazione mediatica ribadisce che se una cosa viene presentata nel piccolo schermo, allora è reale e vera, per quanto in origine possa essere una mistificazione. In altri termini, il più delle volte, è il passaggio attraverso lo schermo televisivo a rendere "vere" le cose, a validarne l'esistenza...
In ogni modo, comunque siano andate le cose, quell'"impresa" - vera o simulata che fosse - diventò - ed è tuttora - un'inarrestabile macchina per sognare... qualcosa che si è insediato indelebilmente nell'immaginario collettivo: quei filmati che ci fanno vedere i primi passi di Armstrong sul suolo lunare trasmettono intatta tutta l'emozione che indussero al tempo della loro trasmissione in diretta...

lunedì 20 luglio 2009

Tu dentro di me: uteri in affitto e maternità surrogate entrano nella trama di un nuovo ed attuale romanzo


Emilia Costantini, giornalista, autrice di saggi di teatro e radiodrammi, è con questo romanzo alla sua prima prova nel campo della narrativa.
Tu dentro di me ha le caratteristiche del dramma che, a tratti, si stempera nella commedia, con un'attenzione marcata sui trucchi atroci e beffardi d'un destino impietoso (fato, caso o necessità che sia) nel creare un pastiche che ha un po' il sapore della tragedia edipica.
I tre personaggi fondamentali della vicenda, Livia, Edoardo e Luisa ruotano e sono vincolati l'uno all'altra da una trama sottile, dominata in apparenza dalla casualità, ma - a scavare più a fondo - da una necessità che regola il generarsi dell'attrazione reciproca, delle dinamiche dell'incontro e le successive scelte.
In breve, Livia conosce Edoardo un giovane e promettente pianista, molto più giovane di lei e subito tra i due scatta una magnetica attrazione reciproca, tanto potente quanto inspiegabile, per alcuni versi.
Edoardo è figlio di Luisa, amica e datrice di lavoro di Livia.
Quella che evolve tra loro sarebbe una "normale" storia d'amore, se non fosse che - come si viene a scoprire - Edoardo è "figlio" di Livia, il cui utero, anni prima, è stato utilizzato per una fecondazione eterologa per accogliere la cellula uovo di Luisa che, dunque, del nascituro era stata soltanto la madre genetica.
Livia, in gioventù, in cambio di un compenso, aveva preso parte ad un programma di "fecondazione assistita" (semi-clandestino, con il favore di un medico compiacente), prevedente il ricorso alla maternità surrogata: un'azione che le aveva causato molta sofferenza e che poi per reazione difensiva era stata rimossa dal panorama dei suoi ricordi coscienti.
Attraverso l'incontro con Edoardo, il rimosso riemerge con tutta la potenzialità drammatica ancora inespressa di un materiale mnestico mai sottoposto ad un processo di elaborazione.
Si configura, nella trama, la dinamica propria dell'incesto e - non a caso - anche Dacia Maraini, nella sua breve ma incisiva introduzione al volume, non esita a parlare d'un dramma edipico in versione moderna.
Il passato di Livia s'abbatte come un tornado sulla sua vita, sconvolgendola, i
n termini sia di rimorsi e sensi di colpa (l'aver portato in grembo un bimbo per tutto il periodo della gestazione, per poi vederselo sottratto, secondo gli accordi presi) sia di effetti pesanti ed ingestibili nel presente.
L'essere madre di Luisa subisce un fiero colpo.
Edoardo, che già anni prima aveva scoperto di essere "figlio della provetta", per aver carpito casualmente una conversazione tra i genitori, entra in crisi e, dopo un tentativo di suicidio, si spezza la sua carriera di giovane e promettente pianista.
La conclusione ha dei toni tragici.
Il cerchio si chiude suggellato dall'impossibilità per Livia di avere una nuova maternità che riscatti quella surrogata di tanti anni prima.
Livia muore, alla fine, e forse, questo, è l'unico "eccesso" del plot disegnato dall'autrice.

Il romanzo della Costantini ha il pregio di attivare una riflessione complessa ed articolata, sia sulle esasperazioni della procrezione assistita eterologa (compresa la pratica-business degli uteri "in affitto" e delle maternità surrogate che, oggi, come conseguenza delle forti restrizioni imposte dalla legge 40 voluta dall'allora ministro Giovanardi (1), è in pieno rigoglio in alcuni paesi esteri, come gli Stati Uniti - dove il costo dell'intera operazione si aggira attorno ai 100.000 euro o della concorrenziale Ucraina - dove il costo è attorno ai 42.000 euro, e che alimentano forme discutibili di "turismo procreativo"), ma soprattutto sui risvolti psicologici e sulle ricadute devastanti in termini emozionali e di scompenso psicologico (sino all'estremo dell'espressività psicopatologica) che tali prassi possono produrre negli attori a diverso titolo implicati, anche a distanza di diversi anni - madre surrogata, madre genetica, padre - e sul prodotto del concepimento stesso che, raggiunta l'età della ragione e apprendendo in modo casuale - evenienza sempre possibile - della sua origine, potrebbe produrre crisi di identità (di chi sono figlio veramente? Sono nato come un fungo... Quali sono le mie radici?, etc., etc.) e di rifiuto nei confronti dei propri genitori genetici.
Ma la storia di Livia e Edoardo pone anche un interrogativo sulla liceità di pratiche che forzano un limite posto dalla natura: in fondo, si chiede l'autrice attraverso i suoi personaggi, - e con lei - si chiedono i suoi lettori - se non sia un voler andare contro natura persevare nel progetto di avere un figlio, quando è la natura stessa ad averci posto un limite in ciò.
Afferma Livia in un acceso confronto con Luisa:
Vedi, io credo che tutta l'operazione che è stata fatta e di cui siamo state protagoniste a diverso titolo, sia stata contro natura. Non credi che se una donna non riesce a portare avanti una gravidanza, ci debba essere una ragione? Non credi che nella natura nulla sia affidato al caso? Non ti ha mai sfiorato il pensiero che, forse, sta proprio nel corso naturale delle cose la mancata possibilità di avere figli?
In effetti, dietro all'impossibilità di generare, ci saranno pure dei motivi imperscrutabili (che, a noi, non è dato di conoscere) ma che - con filosofia - occorrerebbe accettare.
La selezione naturale, di cui ha posto le basi Darwin, in fondo faceva leva anche su questa chiave di volta fondamentale: sono avvantaggiati quei rappresentanti della specie che abbiano una maggiore forza riproduttiva e, quindi, se l'istinto riproduttivo o il desiderio di paternità o maternità non possono essere soddisfatti con mezzi naturali ci sarà alla base un motivo biologico ostativo (che magari si manifesterà come un'ineluttabile nemesi nelle generazioni future scaturite da una singola nascita prodotta con mezzi di intervento artificiali).
Il "figlio a tutti i costi" sembra rientrare nel panorama degli oggetti ottenibili nella cultura (o non-cultura) del consumismo: a pagamento si può avere (o rifiutare di avere) tutto ciò che si vuole.
Peraltro, come sostengono alcuni studiosi, l'impossibilità di generare sembrerebbe essere l'altra faccia della medaglia, misteriosa e ancora non sufficientemente studiata, del controllo esasperato della fertilità. Come se l'abbandono delle misure di controllo delle nascite non potesse più lasciare il campo ad una libera ed incondizionata capacità di generare: e allora subentra l'apparato medico che fa di tale incapacità una malattia, entrando nella dimensione privata della riproduttività con tecniche moritificanti ed invasive.
Quale la possibile soluzione per il ritorno ad un approccio più naturale alle tematiche della fertilità e della gravidanza?
Forse, smettere di desiderare con esasperazione che un figlio arrivi a tutti i costi.
Quando la mente abbandona la sua presa ferrea sul delicato equilibrio neuro-ormonale che governa il ciclo femminile, l'ovulazione e la preparazione della mucosa uterina all'accoglimento dell'uovo fecondato, quando la mente e il corpo cessano di desiderare ossessivamente l'arrivo della gravidanza, quando avviene una sorta di abbandono/resa a ritmi fisiologici più naturali e, si potrebbe dire, più "spensierati", come testimonia una psicoanalista francese che ha prestato per anni la sua competenza professionale in consulenze psicologiche presso un Centro per la maternità assistita (Marie-Magdeleine Chatel, Il disagio della procrezione. Le donne e la medicina della maternità, Il Saggiatore, 1995), spesso la donna (o per meglio dire la coppia) ritorna ad essere inaspettatatamente fertile, cioè - in altri termini - si ha la ripresa di un ciclo ovulatorio regolare.
Semplicemente, non ci si deve pensare più, secondo questa scuola di pensiero: si deve smettere di "volere" e occorre imparare a "desiderare", ma a desiderare veramente e che non si tratti d'una volontà, mascherata da desiderio.
L'onnipotenza della medicina, secondo l'autrice francese citata, portà con sé la minaccia di una nuova - e più insidiosa - forma di sterilità, nel senso che il "volere" i figli, secondo la consuetudinaria prassi attuale, è l'altra faccia della medaglia del "non volerli" (attraverso le pratiche della contraccezione). E non è detto che "volerli", equivalga a "desiderarli", nel senso che il desiderio inconscio può andare contro corrente rispetto alla volontà esplicitata.
Tutto ciò è inquinato dall'attivarsi, dietro le pieghe del "desiderio" di maternità e paternità alimentato da coppie che si sentono infelici e non realizzate senza un figlio, dal business della procreazione assistita con fecondazione eterologa su donne disponibili per una maternità surrogata e dalla creazione - attraverso l'amplificarsi e il differenziarsi dell'offerta - di un vero e proprio neo-bisogno che ha come oggetto il "voler figli".

Una brevissima carrellata di flash news tratte a caso da internet

In Gran Bretagna risale al 1985 il primo Surrogacy Arrangements Act e la maternità surrogata è legale dal 1990. Al contrario degli Stati Uniti - dove è ormai un vero e proprio business lucroso -, in Inghilterra non sono ammessi fini commerciali e le organizzazioni che se ne occupano non possono fare pubblicità. È considerato accettabile prestare il proprio utero solo per altruismo o per amicizia e le madri surrogate possono ricevere soltanto un rimborso spese. Non esiste un pendolarismo della speranza da altri Paesi in cui la maternità surrogata è ancora vietata.
(20.01.2000).

L'Olanda prima ha accettato questa pratica e poi ci ha ripensato.
Si è rivelata nel tempo troppo grande e destabilizzante, infatti, la confusione su chi e perché debba vedersi attribuito il ruolo di genitore: se la coppia committente o la donna che, a titolo più o meno gratuito, porta avanti la gravidanza e partorisce. .
Sì all'utero in affitto per una coppia romana. La decisione presa dal tribunale di Roma ha già provocato reazioni polemiche.
Le gravidanze in affitto sono consentite negli Usa ma vietate in molti Paesi europei. E da noi la legge sulla fecondazione assistita in discussione al Senato prevede addirittura la reclusione per il medico che utilizza questa pratica.
"Difendo la legge 40 perche' ho sempre pensato che i figli debbano nascere dall'incontro di un uomo e di una donna, ovvero di due persone che si assumano la responsabilità di mettere al mondo una persona. Ma so anche che, in giro per il mondo, invece, si possono comprare i fattori della produzione, perche' oggi si può assemblare un figlio, si può comprare il seme, selezionato da un donatore, che magari con lo stesso seme mette al mondo centinaia di figli, si possono affittare gli uteri e, quindi, si può mettere assieme, come fosse una macchina, un essere umano''.
Un tema delicato, che chiama in ballo etica, scienza, politica, deontologia professionale ma anche i sentimenti. Il dibattito, volendo semplificare, si può sintetizzare in una domanda: fin dove arriva il "diritto alla maternità" affermato dal giudice romano e dove invece queste "esperienze estreme" devono trovare un limite etico?
Uteri in affitto all'estero per far nascere bimbi italiani: ultima frontiera per aggirare la legge 40. Preferiti gli Usa. Pacchetti «tutto compreso»
. Infatti è anche questo che accade nel nostro folle paese: fatta una legge restrittiva trovato l'inganno di aggirarla soprattutto se ci sono le possibilità economiche e la voglia di maternità a tutti i costi. Non bastassero i viaggi - semiclandestini - della speranza, ora c'è la possibilità (cacciando da un minimo di 10000 euro ad un massimo di 100000 euro a seconda del paese cui ci si rivolge e del grado di sicurezza per mettersi al riparo da noie legali e quant'altro) di procedere all'affitto dell'utero altrui per avere quel figlio negato per un qualunque motivo dalla natura. L'affitto degli uteri in Italia è illegale, naturalmente, e i nostri concittadini si "organizzano" per l'estero con l'ausilio di agenzie specializzate che forniscono kit e assistenza di tutti i tipi (da quella legale a quella sanitaria).


Note
(1) Il riferimento è alla Legge 19 febbraio 2004, n. 40 "Norme in materia di procreazione medicalmente assistita", pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 45 del 24 febbraio 2004.

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giovedì 16 luglio 2009

Io credo nei vampiri: ritorna, in nuova edizione, un introvabile volume cult



Quando ero appena alle soglie dell'adolescenza, mio padre portò a casa uno strano volume, autore un certo Emilio de' Rossignoli che, appunto venne pubblicato nel 1961, io appena undicenne.
Titolo del volume: "Io credo nei vampiri".
Si trattava di una bella edizione rilegata (per i tipi di Ferriani, per l'esattezza Luciano Ferriani Editore), corredata d'una magnifica sovraccoperta in quadricromia, raffigurante una sinistra scena di deposizione (realizzata da un'incisione dello stesso Ferriani che, a quanto pare, oltre ad essere editore era anche amtiquario, collezionista, poeta, incisore e soprattutto pittore).
Il volume inaugurava una "Collana del macabro" diretta dallo stesso de' Rossignoli.
Mio padre - anche per il lavoro che faceva (era giornalista) - aveva una grande curiosità nei confronti di tutto ciò che aveva attinenza con gli aspetti "marginali" della cultura, quelli che dalla corrente "mainstream" della critica letteraria venivano bollati come elementi "di genere" o appartenenti a forme di cultura "popolare" che - secondo i cascami accademici dell'dealismo crociano e della critica gentiliana - erano di scarso rilievo e da non prendere in considerazione in maniera seria.
Anche semplicemente occuparsi di simili esemplari di letteratura "bassa" era un modo per danneggiare la propria affidabilità professionale.
Quindi, nessuno - di norma - con simili materiali voleva averci a che fare. E questo spiega il ritardo con cui in Italia si affermò la letteratura del soprannaturale e dell'orrore che, pure, nel XIX secolo aveva avuto, tra gli autori italiani, alcuni rappresentanti di rilievo.
Il nostro de' Rossignoli, supportato dal suo editore e indubbiamente animato da forza visionaria, derivante da una ferma credenza nelle diverse manifestazioni dell'occulto, come del resto dichiara con veemenza lo stesso titolo, s'è posto decisamente in controtendenza rispetto alle derive culturali di quegli anni.
Il mio primo incontro con questo libro venne facilitato dal fatto che mio padre , coltivando con costanza i suoi interessi professionali e la sua curiosità culturale, portava sempre a casa nuovi volumi, a decine. Alcuni li comprava, altri glieli davano per via del suo lavoro.
E, tra queste new entry, mi imbattei casualmente in Io credo nei vampiri e cominciai ad esplorarlo, con cautela ma anche sostenuto da quella bruciante curiosità che, da ragazzi, si riserva ai libri "proibiti" e il cui contenuto sia ritenuto - in modo istintivo e non ragionato - in qualche misura "scabroso".
Inizialmente, fui attratto dal ricchissimo apparato iconografico dell'opera: fatto di immagini tratte dall'immaginario filmico degli anni '60 (culminato, proprio in quegli anni, con il Dracula di Terence Fisher nell'interpretazione di Christopher Lee) e che, a sua volta, s'era andato costruendo a partire da alcuni classici della cinematografia muta e dell'Espressionismo tedesco, ma anche di riproduzioni di incisioni e di opere pittoriche di epoche diverse (tra cui alcuni dei dipinti più visionari di Goya) .
Immagini di vampiri (con il loro sottinteso erotismo che, in alcuni casi, diveniva più che esplicito), della Bella e la Bestia, della Mummia, del Lupo mannaro, dei Cadaveri viventi: insomma tutte le tipologie dei cosiddetti "revenant" vi erano ampiamente rappresentate.
E di argomenti ce n'erano in abbondanza per suscitare in una giovane mente curiosità e piacere morboso, per alcuni versi, per la mente naif di un ragazzino quale ero io, ma anche - ovviamente - angoscie e terrori notturni, dal momento che - come ha spiegato la psicoanalisi (e soprattutto Ernest Jones - allievo e biografo di Freud - in suo famoso saggio di psiconalisi applicata ai fenomeni dell'occulto) - si trattava di fenomeni e di credenze che hanno tutte a che vedere con il "perturbante" e, dunque, con il ritorno del rimosso.


Sfogliavo e risfogliavo quelle pagine, guardando le illustrazioni, studiandole quasi.
Non chiesi mai nulla a mio padre: spiegazioni, delucidazioni, racconti. E sì che lui non avrebbe mai esitato a dispensarmeli.
Poi, a distanza di due o tre anni, nella neonata collana dei "Pocket" Longanesi, venne fuori una riedizione del classico "Dracula" di Bram Stoker che lessi avidamente, in alcuni pomeriggi assolati d'estate.
Con questo bagaglio di lettura ritornai febbrilmente al volume di de' Rossignoli, questa volta non solo per riguardare con un occhio più attento le illustrazioni, ma per leggere il testo che - tra l'altro - si presentava agile e scorrevole, suddiviso in numerosi piccoli paragrafi, ciascuno dei quali era dedicato ad una singola figura "perturbante", talvolta trattata con il ricorso ad aneddoti o a fatti di cronaca e con ricchi riferimenti ad antichi testi e a testimonianze di autori classici.
Nacque così in me una profonda passione per la letteratura sui vampiri (e, in genere, del "perturbante") che, nel corso del tempo, continuai a coltivare sia nella cinematografia sia nei libri, (romanzi e saggistica) raccogliendo a poco a poco una vasta bibliografia sull'argomento, a somiglianza di quanto ha fatto Fabio Giovannini, considerato oggi uno dei massimi esperti di letteratura e credenze sui vampiri.
Non v'è ombra di dubbio che "Io credo nei vampiri", con le sue caratteristiche enciclopediche, e il Dracula di Bram Stoker per me rappresentarono, di questa passione, l'esordio folgorante.
Il volume di de' Rossignoli è rimasto introvabile per oltre 40 anni, sino al nuovo rigurgito d'interesse per il vampirismo di recente suscitato da Twlights (sia dalla saga in quattro volumi della Stephanie Meyer, sia dall'omonimo film).
Ed è davvero meritoria l'iniziativa della Gargoyle Books di farne una nuova edizione, arricchita da una prefazione di Danilo Arona ("In viaggio con Emilio"), da una postfazione di Loredana Lipperini ("Bruciare le stoppie") e da una nota iniziale di Angelica Tintori.
Nella nuova edizione, ci sono dunque alcuni pregevoli plus rispetto alla prima introvabile edizione e, tra questi, va menzionato un aggiornamento bibliografico redatto in ordine alfabetico per autore che non era del tutto completo nell'edizione originale.
Vi è anche un minus, purtroppo.
La ricchezza dell'apparato iconografico in questa nuova edizione è andata
purtroppo perduta: il bello del volume di de' Rossignoli e la sua forza comunicativa risiedevano, invece, proprio in questa commistione di testo ed immagini: mediamente ogni otto pagine, nel volume edito da Ferriani, ricorrevano o una o due pagine di tavole in bianco nero che fornivano un immediato riferimento visivo al testo (suddiviso per singole "voci" enciclopediche, per quanto non in ordine alfabetico) e ne accrescevano la suggestione, dando corpo tra l'altro alla forte dichiarazione di fede dell'autore su questi fenomeni,(esplicitato nel paragrafo conclusivo dell'opera, "Il mio credo", il 121° dell'odierna edizione), poichè le illustrazioni mostravano come la storia dell'uomo fosse percorsa da secoli dalla loro rappresentazione e davano corpo all'idea ripresa in modo magistrale dal cineasta Carpenter che "i vampiri sono tra noi".
Del resto, il "Credo" enunciato da de' Rossignoli è di un'attualità sconvolgente, poichè riguarda una drammatica presa d'atto del "lato oscuro" dell'uomo che, in tutte le epoche ed in tutti i tempi, si manifesta non soltanto nell'espressività psicopatologica del serial killer, ma soprattutto nella quotidiana "banalità del male".
Afferma de' Rossignoli, nel suo "Credo", tra le altre cose:
I vampiri sono tra noi, la cronaca stessa ve ne offre la prova.
Il medico che si aggira nella stanza di un illustre morente, cercando di eternare sulla pellicola di una ridotta macchina fotografica (ferro del mestiere delle spie) gli ultimi spasimi di un'agonia che verrà profumatamente pagata dai rotocalchi; la donna che segue in gramaglie il marito morto, appoggiandosi al braccio dell'amante; l'uomo politico che specula sulla fame dei poveri e la baratta con un pugno; la nuova teppa che sfoga i suoi istinti primordiali picchiando, assalendo le donne, violentando le bambine; i pirati della strada che uccidono e fuggono dopo aver violato ogni regola, come se fossero veramente i padroni della vita e della morte; gli squallidi mantenuti della prostituzione; coloro che si arricchiscono vendendo armi, stupefacenti e donne; i commercianti di morte; le compiacenti facitrici d'angeli, che dietro la maschera untuosa della comare pronta a "trarre d'impaccio, celano il ghigno orrendo e secolare della strega: è un elenco che può seguitare per molte pagine.
Parole notevoli che rendono le descrizioni dei mostri e delle nefandezze di cui ha parlato prima, in modi tanto vasti ed enciclopedici non più soltanto come un gratuito esercizio intellettuale e di pura abilità didascalica. ma come il
drammatico tentativo di stabilire delle coordinate descrittive della crudeltà e del male che si aggiravano nel mondo dei suoi tempi - e che, intatti o addirittura amplificati, ritroviamo nel nostro.
Parole attualissime ancor di più oggi, considerando che l'elenco abbozzato da de' Rossignoli non si è sfoltito. Per nulla: semmai s'è fatto ancor più fitto ed articolato, in un'epoca dominata dal cinico sfruttamento delle risorse e degli uomini, dalle guerre, dalla tortura, dalla pornografia dell'informazione, dall'esibizione della malattia e della morte come spettacolo.
E allora, come sostiene de' Rossignoli, davanti a tutto questo, davanti all'impossibilità di poter confidare in un mondo migliore, non si può che credere ai vampiri, ai Mostri&Co che, tutto sommato, rispetto alle molte forme del Male esercitate con la rispettabilità del doppiopetto, sono rassicuranti e prevedibili.

giovedì 9 luglio 2009

Cosa sono le nuvole per noi? Vanno, vengono, ritornano...

I libri più belli da leggere sono quelli che ci "capitano" in modo imprevisto e che, come ho detto più volte, in una certa misura, "vengono a noi" senza che siano stati cercati esplicitamente.
Sono libri nei quali ci si trova ad inciampare e che, incuriositi, raccogliamo ed esaminiamo per dire - improvvisamente illuminati da un senso di appagamento - "E' questo quello che stavo cercando"
e poi sentirci, a lettura ultimata, totalmente appagati.
Tempo addietro, avevo pensato di scrivere un articolo sulle nuvole e su quello che per noi significano, stimolato da un altro libro - questa volta un saggio - di cui parlerò in un altro momento.
L'articolo cominciai a scriverlo, in effetti, ma poi è rimasto appena abbozzato, sepolto da qualche parte nei meandri della directory del mio PC.
Ed ecco che, meno di un mese fa, mi sono imbattutto nel volume - ancora fresco di stampa - della francese Stéphane Audeguy, La teoria delle nuvole (Fazi, 2009).
Ci sono due modi per descrivere le nuvole: uno è quello scientifico (con un linguaggio descrittivo tipico dell'osservazione naturalistica), l'altro è quello immaginifico e contemplativo.
Ma la cosa curiosa è che, anche per descriverle con il linguaggio distaccato dello scienzato, bisogna prima volgere lo sguardo proprio al cielo e osservare questi strani oggetti flottanti e cangianti che lo popolano con un'attenzione che non è disgiunta dalla passione monomaniacale.
Sicchè anche i primi osservatori delle natura, per forza di cose, non potevano che essere dei visionari e, intimamente, dei poeti.

Il romanzo della Audeguy, in un colpo solo, unisce nella sua trama narrativa le vicissitudini dell'osservazione scientifica (e non dimentichiamo che fu proprio l'osservazione delle nuvole a porre le basi della moderna metereologia, a partire dal commento descrittivo del quacchero inglese Luke Howard) e del loro potere immaginifico.
Questa la trama.

Akira Rumo, un anziano stilista giapponese, vive a Parigi in una casa piena di libri. Le sue origini sono misteriose: non si sa da dove venga, non si sa che età abbia. Un giorno come tanti Akira decide di assumere una giovane bibliotecaria, Virginie Latour, per catalogare la sua immensa collezione di opere dedicate al più mutevole dei soggetti: le nuvole. A lei, che lentamente saprà conquistarne la fiducia, confida il segreto di una genealogia della scienza e della poesia meteorologica, in parte reale in parte immaginaria, cui hanno partecipato uomini che la Storia ha spesso ignorato. Luke Howard, lettore appassionato delle geografie del cielo, che all'inizio del XlX secolo ha per primo classificato e dato un nome alle nubi; il pittore inglese Carmichael, che per sottrazioni successive giunse a dipingere solo nuvole e ad eliminare tutto il resto; lo scienziato Richard Abercrombie, soggiogato da una tale passione enciclopedica da fare il giro del mondo per scoprire come mutano i cicli del pianeta e, per una bizzarra concordanza, le varie forme del sesso femminile.

Una parte della storia è pura immaginazione o - meglio - alcuni dei personaggi che la popolano subiscono un'estrapolazione fantastica come sono appunto le vicissitudini di Richard Abercrombie e del suo "famoso" protocollo che conduce alla verità ultima (molto moderna e attuale) che le nubi e tanti altri oggetti complessi contengono analogie e similitudini profonde per cui, nell'irregolarità di cui danno prova, posseggono molteplici dettagli ricorrenti (analogie ed isomorfismi) che, oggi, grazie alla teoria dei frattali possono essere descritti con equazioni matematiche unificanti.
Al termine del suo percorso il romanzo sui generis della Audeguy, infatti, approda (senza menzionarle esplicitamente) al fascino delle moderne teorie del caos e della complessità e alla correlata teoria dei frattali che - come dicevo - ha fornito un modello matematico per descrivere oggetti complessi ed apparentemente irregolari (come ad esempio, una linea costiera, le circonvoluzioni dell'orecchio umano, le cangianti forme delle nuvole, la geometria microscopica dei fiocchi di neve).
Il tutto è intersecato con il senso di meraviglia derivante dalla lussureggiante tessitura di storie e sottostorie che, tutte, inevitabilmente portano a celebrare il senso di stupore di fronte al mistero ineffabile del mondo e al fondamentale fallimento della scienza non supportata da un atteggiamento di umiltà e di fondamentale meraviglia.
Questo libro (attraverso la visione di Richard Abercrombie) ci dice che l'approccio oggettivante e scientista non è nulla, se gli strumenti di misurazione e l'occhio dell'osservatore non sono tarati anche su di una mistica dell'osservazione dei fenomeni naturali.
E ci dice anche, come monito, che ogni tanto dobbiamo volgere lo sguardo al cielo e guardare le nuvole per lasciarci inondare dalla sorpresa per le loro forme bizzarre, per le loro continue metamorfosi, fusioni, defusioni, danze ed inseguimenti.

Per quanto possano dire gli scienzati, per noi comuni mortali, le nuvole rimangono quelle che ci ha lasciato Fabrizio De Andrè, uno tra i tanti che si sono occupati di esse in maniera poetica.
Vanno
vengono
ogni tanto si fermano
e quando si fermano
sono nere come il corvo
sembra che ti guardano con malocchio

Certe volte sono bianche
e corrono
e prendono la forma dell’airone
o della pecora
o di qualche altra bestia
ma questo lo vedono meglio i bambini
che giocano a corrergli dietro per tanti metri

Certe volte ti avvisano con rumore
prima di arrivare
e la terra si trema
e gli animali si stanno zitti
certe volte ti avvisano con rumore

Vanno
vengono
ritornano
e magari si fermano tanti giorni
che non vedi più il sole e le stelle
e ti sembra di non conoscere più
il posto dove stai

Vanno
vengono
per una vera
mille sono finte
e si mettono li tra noi e il cielo
per lasciarci soltanto una voglia di pioggia.

(Fabrizio De André, Le Nuvole)


Una storia tutta da scrivere...


Un libro che è come un ponte che si estende all'improvviso, collegando due sponde diverse.



Gabbiani in volo...

Potenti ed evocativi...



Una piuma...
Una remigante di gabbiano, ad esser precisi.


In mezzo, una storia da scrivere...

Le storie che ci capitano sono belle, come quelle che leggiamo nei romanzi.

Le storie più belle che ci capita di leggere sono quelle che hanno pochi dettagli e che propongono al lettore una semplice trama che poi lui stesso dovrà completare, come è del resto con i ricordi di una vita, i cui dettagli (come del resto il loro ordine cronologico) vengono collocati in modi variabili a seconda dei momenti in cui si vuole raccontare a se stessi oppure ad altri la propria storia.
Una stessa storia può essere narrata in molti modi diversi e sempre avere una sua profonda verità psicologica ed emozionale...

 
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