domenica 29 novembre 2009

La "principessa Palawan": una perla da due chili ed oltre! Cosa ce ne facciamo?

Una perla

Non ho potuto non sorprendermi nel leggere sul quotidiano locale questa notizia (in realtà, una foto-notizia collocata con grande risalto in prima pagina).

Londra, 27 novembre - La "Principessa Palawan", la seconda perla più grossa mai scoperta nel mondo e il cui valore è stimato a 250.000 sterline (275.246 euro), sarà messa all'asta la settimana prossima a Los Angeles.

Lo ha annunciato in un comunicato la casa d'aste britannica Bonhams.

La "Principessa Palawan", che pesa 2,25 chili e misura 15,24 centimetri di diametro, è accompagnata da una metà della conchiglia del più grosso mollusco bivalve del pianeta - ha precisato la casa d'aste.

Scoperta nelle Filippine, la perla gigante costituirà il pezzo forte dell'asta che si tiene il 6 dicembre al museo di Storia naturale di Los Angeles.

Caspita, com'è grossa! - ho esclamato io.

Mia madre mi ha chiesto: "Ma poi uno che se fa di una perla così grossa"?

Suppongo niente, ho pensato io. Uno non la vorrà certo per appendersela al collo! Rischierebbe di apparire come quelli che - nei tempi bui - venivano condannati al "pubblico ludibrio" e che, invece della gogna, dovevano portare incatenato al collo un grosso masso che essi - per rendere più umana la propria pena - nel corso degli anni finivano con lo scolpire pazientemente per dargli sembianze umane!

Forse, una simile perla se la contenderanno soltanto dei collezionisti sfegatati, per aggiudicaserla e poi tenerla rinchiusa per il resto della loro della loro vita nel caveau di qualche banca.

L'assurdità delle cose umane...

Marianna Guillonk, detta - per la sua bellezza - "La Perla di Labuan"

in Le Tigri di Mompracem (Emilio Salgari)

Per conto mio, se dovessi acquistare una perla preferirei procurarmi una buona edizione de Le tigri di Mompracem oppure il sobrio e delicato La ragazza con l'orecchino di perla: due casi, come altri, in cui l'acquisto di una perla è sicuramente molto più sostenibile.

giovedì 26 novembre 2009

L'alienista Cesare Lombroso: nel centenario della sua morte riapre il Museo di scienze criminali di Torino in veste rinnovata


Cesare Lombroso si può considerare uno dei "padri" della psicologia e dell'antropologia criminale moderne, per quanto la sua figura la si possa considerare - nella storia degli esordi della freniatria "scientifica" - alquanto controversa.
Imbevuto di concezioni positivistiche, fu un acceso sostenitore della teoria secondo cui l'attitudine criminale - come anche la follia - fosse forgiata dalla costituzione o, come si diceva allora, dalla "complessione" e che, quindi, nelle manifestazioni più estreme di pazzia, delinquenzialità, ma anche del genio e del temperamento artistico, e delle attigue - per lui - sregolatezza e anarchia, vi fosse una sorta di determinismo che prescindeva dalle circostanze, dall'apprendimento e dalle pressioni ambientali.
Fu un figlio del suo tempo, proprio perchè fu fortemente influenzato dalle correnti di pensiero del positivismo e dall'idea che anche l'Uomo potesse essere descritto per mezzo di misurazioni e utilizzando metodi esclusivamente oggettivi che nel suo caso furono principalmenti quelli dell'antropometria.
Il suo apporto originale - che, in definitiva, tramontò con la sua morte, seguita soltanto da alcuni deboli epigoni - fu quello di stabilire una serie di canoni per stabilire - predittivamente e quasi con matematica certezza se un individuo potesse avere in sé delle tendenze criminali, basandosi principalmente su rilievi metrici delle ossa e segnatamente del cranio, con l'utilizzazione di specifici punti di repere, oltre che di altri elementi quali la conformazioni del cranio e di altri segmenti scheletrici.
Per lui, parametri di riferimento furono le misurazioni ricavate dai crani e delle ossa di delinquenti acclarati, tra i quali uno dei primi ad attrarre il suo interesse fu il brigante calabrese Vilella (ucciso nel 1870) sul cui cadavere egli fece una serie di minuziosi rilievi.
Ovviamente, lo stesso Lombroso non mancò di mettersi nel mucchio e si considerò papabile per analoghe misurazioni, tanto che donò alla collezione di reperti cui egli stesso aveva dato vita il suo corpo, compreso di visceri e cranio.

Nel suo approccio, i conti non tornarono quando egli cercò di applicare queste sue teorie a personaggi geniali ed eccentrici, per così dire "fuori norma". Per costoro, infatti, egli si trovo nella necessità di stirare all'estremo la sua teoria, considerandoli pure essi in definitiva dei soggetti tarati che prima o poi avrebbero mostrato la loro vera natura.

Uno degli aspetti più pericolosi della sua teoria era, infatti quello secondo cui, essendo taluni segni indicativi di una "tara", se un'individuo apparentemente normale li possedeva, era destinato - prima o poi a manifestare il comportamento di cui erano indicatori ( o, per così dire, elementi di repere): la predittività, enunciata in modo forte, quasi fosse un dogma, che in un individuo così fatto si sarebbero manifestati prima o poi fenomeni di degenerazione e di caduta verso ciò da cui la cultura e l'educazione potevano soltanto riparare temporaneamente.

E' ovvio che queste teorie furono uno dei cavalli di battaglia delle concezioni - pseudo-scientifiche ed infondate - sulla razza e sui motivi per cui alcune "razze" più di altre tendessero alla degenerazione.

Un episodio poco noto della sua vita di studioso riguarda l'incontro con Lev Tolstoi che egli si recò personalmente a visitare nella sua tenuta. L'incontro tra i due non fu felice, anche perchè Lombroso guardava Tolstoj in tralice, tentando di cogliere nel grande scrittore gli aspetti patognomonici della genialità che, peraltro, secondo le sue teorie, non erano delle qualità intrinseche, ma solo un preludio alla inevitabile degenazione e alla sregolatezza. Di questo episodio ci narra Pietro Mazzarello nel suo "Il genio e l'alienista. La strana visita di Lombroso a Tolstoj" (Bollati Boringhieri, 2005).

Gran parte delle teorie di Lombroso tramontarono con lui, ma - in definitiva - hanno mantenuto nell'immaginario collettivo uno strisciante potere nel generare pregiudizi, alimentando peraltro nel campo specialistico metodi di intervento in alcune psicopatologie individuali e sociali.

Peraltro, tracce della sua impostazione teorica (fortemente ideologica) sono rimasti nella "grafologia" ma anche in alcuni aspetti della psichiatria biologica alla quale oggi, sia pure con l'opportuno mascheramento della scientificità dell'approcio neuro-psicofarmacologico, c'è un gran ritorno.

Cosa avrebbe mai detto Lombroso di Marty Feldman?

Nel 2009 ricorre il centenario della morte di Cesare Lombroso e proprio il 27 novembre, dopo anni di restauro, riaprirà al pubblico, a Torino, il Museo di scienze criminali a lui dedicato, ricco di reperti unici nel loro genere.
Questa la notizia tratta Torinoscienza.it

A cento anni dalla morte dello scienziato e criminologo, Cesare Lombroso, il 27 novembre 2009, viene riaperto, completamente rinnovato il Museo, a lui intitolato, contenente una quanto mai varia collezione di reperti di antropologia criminale.
Il coordinatore del progetto di Museo dell'Uomo, del quale il Museo Lombroso fa parte, professor Giacomo Giacobini, ci tiene a sottolineare che non si tratta di un museo dell'orrore, ma che la ricchissima collezione di crani, preparati anatomici, fotografie, corpi di reato, disegni e oggetti prodotti da carcerati, qui presentata vuole accompagnare i visitatori in un percorso storico-scientifico, in grado di fornire ai visitatori gli strumenti per comprendere il contesto nel quale il Lombroso formulò le sue teorie sull'atavismo criminale, ovvero sulla presenza di caratteristiche ancestrali e ricorrenti nei soggetti che mostrano devianze comportamentali.

Egli sviluppò infatti le sue teorie nel periodo dominato dal positivismo scientifico, movimento che si diffuse in Europa nell'Ottocento, e che influenzò sia il pensiero filosofico che quello scientifico, con un modello del sapere basato su fatti piuttosto che su intuizioni irrazionali. Seguendo il principio secondo il quale l'applicazione del metodo rigoroso delle scienze deve essere allargato anche all'analisi del comportamento umano, Lombroso dedicò gran parte della sua vita allo studio dei criminali e dei pazzi.

Genio o ciarlatano? Illuminato o razzista? Le sue teorie sono state confutate, spesso con veemenza, e sono in gran parte morte con lui. Ciò non toglie che Lombroso possa comunque considerarsi come il primo antropologo-criminale della storia, egli arrivò, infatti, a interessarsi anche al modo di esprimersi dei carcerati, raccogliendo alcuni reperti decorati con scritte e disegni dei detenuti.

Potremmo dunque definirlo un precursore della psicologia criminale.

Fin dal 1859, anno in cui inizia a lavorare come medico militare nell'esercito piemontese, Cesare Lombroso si dedica alla raccolta di crani, scheletri, cervelli e oggetti di vario tipo, dando vita al primo nucleo del museo privato inizialmente conservato nella sua abitazione torinese. La prima esposizione pubblica dei reperti raccolti nel corso della sua instancabile attività Lombroso la realizza nel 1884, nell'ambito dell'Esposizione Nazionale di Torino.

La successiva esposizione della raccolta lombrosiana al Congresso Penitenziario Internazionale di Roma nel 1885 risultò più ricca della precedente, anche per il notevole apporto di reperti fatti giungere da altri studiosi conquistati dalle teorie lombrosiane e che rispondevano entusiasti all'invito «a spedire per quell'epoca in Roma crani, cervelli, fotografie di criminali, di pazzi morali, di epilettici e lavori dei medesimi; carte grafiche e geografiche dell'andamento dei delitti in Europa.

L'esposizione venne riproposta, arricchita, nel 1889 in occasione del Secondo Congresso Internazionale di Antropologia criminale di Parigi. Il Museo Psichiatrico e Criminologico venne ufficialmente inaugurato a Torino nel 1892 con la dignità di strumento di ricerca scientifica.

Nel 1909, con la morte di Cesare Lombroso, il museo accolse alcuni resti della sua salma: lo scheletro, il volto, il cervello e le visceri.
La morte dell'antropologo, però, segnerà anche una fase di declino del museo, fino a che, superato il periodo della guerra, nel 1948 il museo venne trasferito nei locali appositamente costruiti per l'Istituto di Medicina Legale.

Tra i pezzi da non perdere nel moderno riallestimento del Museo segnaliamo il cranio del brigante calabrese Giuseppe Vilella, celebre perché proprio in questo cranio, nel 1870, lo studioso riconobbe alcune forme somatiche ancestrali che lo portarono a giungere alla conclusione che esiste la tipologia dell'"uomo delinquente", e che la si può riconoscere attraverso specifiche caratteristiche somatiche. Troviamo anche la forca di Torino, in funzione sino al 1865, data dell’ultima impiccagione, e i paramenti di Cervo Bianco, celebre impostore che incantò l’Europa raccontando d’essere una gran capo indiano.

Un museo, insomma, pieno di oggetti e di storia, che garantisce ai visitatori un arricchimento culturale con un pizzico di horror.

Il Museo di antropologia criminale Cesare Lombroso sarà aperto al pubblico dal 27 novembre 2009 a Torino, in via Pietro Giuria 15, www.museounito.it

[Articolo a cura di Redazione Torinoscienza - Barbara Girardi, aggiornato il 10.11.2009]

...per finire!

martedì 24 novembre 2009

Uno scrittore a confronto con i giovani sui temi della droga e del disagio adolescenziale

Mi è capitato di leggere con un certo interesse un libro pubblicato di recente (Ferdinando Camon, Figli perduti. La droga discussa con i ragazzi, Garzanti, 2009).
In esso, Ferdinando Camon, uno scrittore italiano molto conosciuto (e molto premiato) discute con i ragazzi di un liceo dei temi della droga e del disagio adolescenziale. Il libro è tutto qui: possiede un'unità di tempo e di luogo, anche se il dialogo è spezzato in una molteplicità di sotto-argomenti, dal momento che la conversazione va e e viene, si muove di continuo toccando i temi più vari.Evidentemente, i ragazzi erano stati preparati a questo incontro e si comprende che vi era stata una riunione preliminare in cui era stato succintamente dato, con l'aiuto dei professore, un "metodo" alla discussione, oltre che distribuito un opuscolo informativo sulle droghe, contenente notizie oggettive, dati, indirizzi, ai quali viene fatto rimando nel corso della conversazione.
Quello che piace di questo smilzo libro è l'impianto conversativo del confronto tra i ragazzi di un liceo e l'Autore che si presenta non in veste di "esperto", ma di interlocutore che sa qualcosa di diverso su argomenti cogenti nella vita di... questi adolescenti (la droga e lo svago, in primis, ma anche il modo di affrontare le relazioni con i pari e con gli adulti), ma che - nello stesso tempo - si pone nei confronti dei più giovani con un atteggiamento ricettivo e, a sua volta, di apprendimento.
Il dialogo, dunque, (da qui il sottotitolo "La droga discussa con i ragazzi") si dipana toccando gli argomenti più diversi: Camon stimola i ragazzi a parlare delle proprie esperienze, di ciò che hanno visto e sentito, dei film che conoscono e dei libri che hanno letto, insomma di tutto ciò che li ha indotti a riflettere sui temi della droga (e della condizione giovanile) e a porsi degli interrogativi.
La conversazione é lieve e profonda al tempo stesso, aperta nel senso che non propone (apparentemente) alcuna conclusione ultima. La posizione di Camone è quella di offrire all'esperienza dei giovani degli stimoli che inducano alla riflessione e alla voglia di approfondimento piuttosto che delle verità monolitiche, ingombranti e troppo difficili da accettare (soprattutto se rimarcano il divario generazionale e l'incomprensione di fondo tra la stabilità dell'adulto e la turbolenza adolescenziale).
Di quando in quando, tuttavia nelle parole di Camon, soggetto adulto e formato, con un background di base che sembra essere profondamente cattolico (a mio avviso), trapela su certe questioni il pregiudizio e, malgrado il tentativo lodevole di operare dei distinguo, si ricade nella tendenza a fare di ogni erba un fascio (ma lo sconfinamento nellaposizione ideologica è un tranello tipico di tutte le discussioni che riguardano la droga e le dipendenze in generale).
Ma si tratta solo di sfumature che solo una mente esperta nelle questioni pedagogiche e formative e nei sottili inquinamenti che l'ideologia può determinare in questi ambiti può cogliere in una cornice di confronto che programmaticamente vuole presentarsi del tutto aperto, liberale e rispettoso delle diversità di opinione.
Mi pare evidente che, dietro un modo di pensare "debole", tuttavia, in Camon si nasconda un pensiero "forte" e di monolitiche convinzioni. Sintomatico di ciò è il risalto particolare (con esplicita approvazione espresso al suo uditorio, ma con stile, senza far nomi) che Camon dà delle Comunità terapeutiche "chiuse" come unica via per risolvere radicalmente il problema della dipendenza da droghe.
Il riferimento ovvio, come modello vincente di questo approccio risolutorio, è alla comunità di San Patrignano.
Non una parola viene spesa, invece, sulla cattiva influenza educativa di una società "normalmente" tossicofila. E questo è, a mio avviso, una rave mancanza.
Il libro di Camon, tuttavia, malgrado le piccole insidie pedagogiche di cui è costellato si legge con piacere perchè nel dialogo trapela, comunque, la freschezza del di un confronto vivace ed articolato.

venerdì 6 novembre 2009

Lucidi corpi: dietro l'ossessione del corpo grosso Thanatos è al lavoro


Non ho letto altre opere di Harry Crews (in tutto sono quattro i suoi romanzi tradotti in italiano), ma ho trovato questo "Lucidi corpi" (Meridiano Zero, 2009), titolo originale "Body", godibilissimo per l'intreccio irresistibile di commedia e dramma in cui si muove la vicenda.
Lo scenario è un importantissimo Campionato del mondo di Body building "Mr Cosmos" che si svolge presso l'Hotel Flamingo,Miami.
Shereel Dupont (nome d'arte, perchè il suo vero nome è Dorothy Turnipseed che significherebbe , troppo prosaicamente, "seme di rapa") è una delle candidate alla vittoria in antagonismo con Marvella, la sua più diretta avversaria.
Le due rappresentano due diversi modi d'intendere il bodybuilding: allenata con mezzi più naturali la prima, pompata di testosterone la seconda.
Naturalmente, viene illustrato per entrambe, il ruolo particolare del coach/manager di ciascuna delle due (rispettivamente Russell Morgan, detto "Muscle", e Wallace) e la natura sui generis e strana della relazione che intercorre tra ciascuno di loro due e la propria "pupilla": una relazione in cui si intrecciano inestricalbimente erotismo, paternalismo, atteggiamenti dittatoriali e messaggi di ferrea disciplina.
Dal vertice di osservazione di Shereel si dipana una vicenda in cui si intrecciano la "violenza" della competizione, segnata dalla feroce aggressità tra gli avversari e il tono farsesco, determinato dall'arrivo - non desiderato - dell'intera famiglia di Shereel (i Turnipseed, da una piccola località del profondo Sud degli Stati Uniti, Tennessee) assieme al suo patibolare ex-fidanzato, portato alla rissa e alla prevaricazione violenta.
La narrazione è scoppiettante, brillante, piena di verve: gustosissimo il capitolo in cui si accende la passione travolgente tra Billy Bat (uno dei papabili alla vittoria maschile) e Earline la sorella ultra-cicciona di Shereel.
Magistrali le pagine sulla celebrazione del concorso Mr Cosmos con tutti i suoi backstage, con le quali dal tono leggero della commedia si ritorna alla più cupa tragedia di cui non si dà qui alcuna anticipazione per non levare il piacere e il brivido della scoperta ai lettori.
Il romanzo si presenta con forti contrasti, a tinte forti che non prevedono i chiaroscuri.
Dietro l'ossessione per il corpo grosso e muscoloso, con i singoli muscoli pompati e definiti fino all'esasperazione, si cela l'ossessione degli Americani (e, si potrebbe dire, contemporanea) altrettanto forte per obesità e ciccia.
L'altra faccia della medaglia di un'alimentazione severissima in cui vale soltanto il principio - assolutamente asettico - del cibo visto esclusivamente come veicolo dell'apporto di sostanze nutrienti alle masse muscolari in crescita è la dieta sfrenata, mossa dal bisogno d'ingurgitare qualsiasi cosa, purchè sia densa di grassi e zuccheri.
Ben celata dall'apparente vitalità di corpi muscolari mostruosi ed inverosimili c'è una continua tensione verso la morte: il piacere ha un ruolo secondario rispetto alla sofferenza, al sudore e al sangue, al sacrificio continuativo e alla rinuncia.
Eros si manifesta unicamente nell'ipertrofia del narcisimo e nella c
ura del proprio corpo portata all'esasperazione (con identiche valenze , in definitiva, se questo corpo sia grasso o muscolare), ma alla fine - come mostra il finale - è Thanatos a stravincere.
Non a caso il romanzo in linguaggio originale è titolato semplicemente "Body". Nell'ossessione per il corpo si manifesta in modo insidioso una forma di "cupio disssolvi".

In più il romanzo è una bella carrellata, in chiave ficition, sul mondo del bodybuilding professionale e agonistico e sul modo di pensare e sentire dei bodybuilder.
Secondo me, reso in modo assolutamente verosimile, anche se l'autore avverte in una sua nota in incipit:
"I miei amici nel mondo del body building si accorgeranno che ho preso in prestito elementi dello sport amatoriale e di quello professionistico e li ho mischiati insieme dando vita a una cosa che non esiste e non è mai esistita: in altre parole ho messo il bodybuilding al servizio della narrativa molto più che la narrativa al servizio del bodybuilding".
Harry Crews

Harry Crews è nato e cresciuto nella contea di Bacon, in Georgia. Oggi insegna all’Università della Florida ed è uno dei direttori della rivista Southern, per la quale scrive anche, così come scrive per moltre altre riviste e giornali.

Da "Lucidi corpi" è stato realizzato un film per la regia di George Clooney. Questa notizia la do con beneficio d'inventario, perchè - pur avendo trovato una pagina web dedicata al film (
clicca qui
per visualizzarla), con tanto di cast di attori, in internet non ho trovato altri riscontri (come, per esempio, in www.mymovies.it)


Assolutamente pregevole l'iniziativa di Meridiano Zero di portare all'attenzione dei lettori italiani questo romanzo pubblicato negli Stati Uniti nel lontano 1990 (che, peraltro, cade nel pieno degli anni d'oro del bodybuilding), nella nbella traduzione di Massimo Bocchiola.

Per leggere il primo capitolo del romanzo di Harry Crews, su "Carmilla online" cliccare qui.

lunedì 2 novembre 2009

I luoghi della morte, oggi: luoghi della memoria e del dialogo

Palermo, Via dell'Olimpo (foto di Maurizio Crispi)

In quest'ultimo periodo, si verifica un fenomeno strano e sempre più diffuso.
I luoghi dove un giovane ha perso la vita traumaticamente, il più delle volte per un incidente d'auto, diventano sempre di più luoghi di pellegrinaggio, di dialogo imperituro, di dolente scambio con chi non è più e di conservazione della memoria.
Ma anche il luogo in cui vengono deposti messaggi che, per quanto fittizzi, in questa cornice finiscono con il diventare veri, messaggi in cui è lo stesso defunto a dialogare con i vivi, specialmente con i suoi amici, più intimi o i suoi coetanei, invitandoli alla prudenza per non dover vedere finire precocemente anche loro la propria vita, così come è accaduto a lui/lei (e molto spesso si tratta di ragazzi, 17-19 anni, che guidavano un motorino o che, ancora alle prime armi, erano alla guida di un auto).
Sì, un tempo, i luoghi della morte traumatica di qualcuno venivano abbelliti con un piccolo vaso di fiori che, periodicamente, venivano cambiati e poi, a distanza di anni, sostituiti a permanenza con fiori di plastica. Qualche volta, proprio nel punto del maledetto impatto, sul tronco di un albero assassino o sulla scabra superficie di una roccia o su di un muro, veniva collocata una semplice targhetta a memoria, oppure una sobria croce di ferro, spesso corredata di una foto in stile cimiteriale.

"Peppe resterai sempre nei nostri cuori"
(Palermo via dell'Olimpo. Foto di Maurizio Crispi)

Questi "nuovi" luoghi si presentano in modo ben diverso: sì, a volte, ci sono delle piccole lapidi marmoree in stile cimiteriale, con iscrizioni in lettere di bronzo a sbalzo e relative fotografie, ma il più delle volte sono arredati con oggetti "freschi" che nulla hanno di funebre e che sono finalizzati a tenere vivi il ricordo e gli affetti. Per esempio, delle fotografie spontanee, istantanee che colgono chi non è più in compagnia dei suoi amici in una delle tante attività che hanno svolto assieme.
E non mancano dichiarazioni di imperituro affetto e ricordo da parte dei compagni di classe, oppure messaggi più personali da parte di amici e amiche che vengono affissi assieme ad altri oggetti nel punto di appoggio più disponibile.
E si va dal biglietto discreto (collocato senza esibizionismi), ai fogli in formato A4 o A3, sino a lenzuoli scritti a lettere cubitali.

Vi prego siate sempre sempre prudenti!
(Palermo, via dell'Olimpo; foto di Maurizio Crispi)

A poco a poco a poco, in questi luoghi, crescono dei veri e propri totem (come è stato ed è , per altri motivi, con l'"Albero Falcone") o anche altari "laici" a cielo aperto.
Non so perchè questo accada.
E' come se i cimiteri fossero divenuti dei luoghi desueti e non adatti a mantenere il ricordo per questa particolare tipologia di trapassati.
Oppure può anche darsi che, in questo caso, i cimiteri tradizionali parlino troppo di morte e di staticità e non siano rispondenti alle necessità dei vivi.
La frequentazione dei luoghi in cui è avvenuto il trapasso è anche un riconoscimento del fatto (peraltro rispondente ad un'antica credenza) che qualcosa di chi è morto continui ad aleggiare nel luogo in cui si è verificato l'accidente.
Si tratta, per alcuni, dell'anima, che - soprattutto nel caso di una morte traumatica ed improvvisa, rimane stordita e vincolata al luogo della morte e non riesce a darsi pace perchè non può conquistare la consapevolezza del suo nuovo stato.
Dal punto di vista sociologico, è come se i luoghi della morte di individui - per lo più giovani - prematuramente strappati al proprio mondo a causa della propria (o di terzi) imperizia o del proprio azzardo, divenuti meta di pellegrinaggio, fossero sentiti - molto più dei cimiteri - i luoghi della "perpetuazione" del vincolo e, in qualche misura anche, come luoghi identitari e come punto d'incontro del gruppo dei pari.
Mentre si va al cimitero per ricordare chi non è più, prendendo atto del fatto che appunto quella persona "non è più" perchè lì sono custodite le sue spoglie mortali, in questi luoghi si va in pellegrinaggio perchè vi si riconosce un potere particolare, che è quello di poter perpetuare il vincolo, coltivarlo, mantenerlo vivo.
I vivi, in questo, mostrano di aver paura a confrontarsi con l'inettulabilità della morte e di non volere lasciare la presa sui propri morti.
E' come se lasciarli andare per sempre, fosse un modo (sentito come pericoloso) di lasciar andar via una parte di se stessi, perdendola definitivamente.
E' così che i luoghi del trapasso (e quindi, per definizione, anche dell'impermanenza in questa terra) divenissero attraverso questa diuturna frequentazione e dell'incessante dialogo, in un rovesciamento paradossale i luoghi della permanenza e della stabilità.
Sono i luoghi che confortano, anzichè indurre alla disperazione e alla vera elaborazione del lutto.
In ogni caso, sono luoghi in cui rimane una forte traccia di energia, legata ai modi violenti ed irreversibili in cui è avvenuto il trauma che ha colpito individui nel pieno della loro vitalità.

Il messaggio di Simo e Marti all'amico Peppe
che se ne è andato da poco più di un mese

(Palermo, discesa di Valdesi; foto di Maurizio Crispi)
 
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