giovedì 30 dicembre 2010

"La Banda dei Babbi Natale": una gustosa commedia degli equivoci che parla "milanese"


Con "La banda dei Babbi Natale" (2010, Italia) Paolo Genovese, già regista di "Incantesimo napoletano" ha prodotto un'equilibrata commedia che parla "milanese".
Aldo, Giovanni e Giacomo che, secondo la precedente tradizione filmica, interpretano se stessi, vengono catturati dalle Forze dell'Ordine, proprio alla vigilia di un nevoso natale, mentre - apparentemente - stanno mettendo in opera un furto in un appartamento.
Il forte sospetto che il trio sia una banda di ladri, a parte l'inequivocabile fragranza di reato, deriva dal fatto che nella stessa zona è in opera una banda di topi da appartamento che operano travestiti, per l'appunto, da Babbo Natale.
I tre, portati in Commissariato vi vengono trattenuti, malgrado le proteste e le dichiarazioni d'innocenza, ed interrogati. Il funzionario di turno è interpretato dalla brava Angela Finocchiaro, oscillante tra simpatia per le prodezze dei tre, incredulità, pregiudizio, irritazione, ira, fastidio per essere stata trattenuta in ufficio a causa dell'emergenza creatasi.
Il racconto delle cose "come stanno veramente" suona come una montagna di scuse e di menzogne, perchè alla fine di ogni narrazione, il ritornello è "Bella la storia, ma non ci crediamo", tanto sono paradossali ed incredibili le vicende che li hanno condotti a travestirsi da Babbo Natale.
Apparentemente, vi è nel film unità di tempo e di azione: in realtà, attraverso una serie di flashback, la vicenda si sposta di continuo al passato recente: Aldo, Giovanni e Giacomo, a turno, per spiegarsi, devono fare numerose premesse e raccontare gli antefatti, ciascuno dei quali assurge al rango di storia a sé.
Emerge così, alla fine, il quadro gustoso delle vita dei tre caratteri, ciascuno con le sue piccole (o grandi magagne), amici legati da un'intensa solidarietà - per quanto profondamente diversi l'uno dall'altro - e accomunati dalla passione per le bocce, tutti e tre parte di una squadra bocciofila "The Charlatans" che da molto tempo ambisce a conquistare un importante trofeo annuale (sia pure provinciale).
Sino al disvelamento finale: non erano andati in quell'appartamento per rubare, ma pe compiere un importante atto d'amore.
E ciò nondimeno non vengono creduti, sino alla risoluzione finale con scagionamento e cenone di Natale improvvisato, proprio nella sede del Commissariato: come dire che la vicenda finisce a "taralluci e vino", con ricomposizione delle storie e delle trame (per Aldo e Giacomo) o con la fuga da situazioni insostenibili (Giovanni).
Con la geniale e gustosa commistione tra presente e passato, l'intreccio narrativo procede agile e spedito, benché - essendo privo di gag clamorose e più centrato sui dialoghi e sui personaggi - è poco adatto ai bambini che pure gremivano la sala.
Insomma, un film godibile che vale pienamente il costo del biglietto.

Scheda film

Un film di Paolo Genovese. Interpreti: Aldo Baglio, Giovanni Storti, Giacomo Poretti, Angela Finocchiaro, Giorgio Colangeli, Sara D'Amario, Giovanni Esposito, Silvana Fallisi, Antonia Liskova, Lucia Ocone, Cochi Ponzoni, Massimo Popolizio, Remo Remotti, Mara Maionchi.
Comico, durata 100 min. - Italia 2010. - Medusa uscita venerdì 17 dicembre 2010.

TRAILER

lunedì 27 dicembre 2010

Un altro mondo è possibile, se siamo noi a cambiare...


(Maurizio Crispi) "Un altro mondo" (per la regia di Silvio Muccino, 2010) è tratto dall'omonimo romanzo di Carla Vangelista (Feltrinelli, 2009) e, essendo sia soggetto sia sceneggiatura della stessa autrice, del romanzo conserva quasi intatta la cifra e la profondità. Il tandem Muccino-Vangelista dopo la scritura a quattro mani di "Parlami d'amore" e la realizzazione dell'omonimo film (Muccino per la regia, Vangelista per la sceneggiatura), mostra di possedere ben più d'una risorsa, con la rappresentazione di una storia che, per quanto a lieto fine e forse un po' buonista, è complessa ed articolata, puntando il dito su alcuni mali del nostro tempo.
E' una storia di formazione e di crescita a partire dalle infanzie e dalle adolescenze disastrate di Andrea e Livia che, per rimediare alle ferite profonde e mai sanate che portano dentro di sé, decidono di vivere in coppia, ma rinunciando all'espressione dei sentimenti e alla consapevolezza dell'amore come legame profondo, fertile e generativo. Vivono entrambi alla giornata e all'insegna dell'eccesso, senza preoccuparsi del dopo.
Il bimbo meticcio di otto anni, che irrompe sulla scena e di cui Andrea scopre di essere fratello rappresenta per ambedue un piccolo messia che porta con sé la Buona novella della trasformazione e della crescita interiore, comprensa l'assunzione della responsabilità degli affetti e della loro esplicitazione, che dovranno vincere la freddezza e la grettezza che gli sono stati inculcati attraversol'effetto isterilente dei soldi (dati a profusione ad Andrea da una madre sostanzialmente anaffettiva) e delle cose (i doni, i vestiti, i gioielli, i pacchetti-vacanze di cui è stata ricoperta Livia da un padre rimasto precocemente vedovo ed incapace di occuparsi affettivamente della figlia).
Un altro mondo, un altro modo sono possibili: il cambiamento e la trasformazione sono però difficili ed implicano un percorso arduo e pieno di errori, di soste e di ripartenze, dal viaggio che Andrea deve compiere per arrivare in Kenya, convocato dal padre morente a quello, formativo, che compie assieme al fratellino sulle strade del Kenya, sino alle difficile prove di convivenza assieme nei primi passi di una famiglia neo-costituita grazie al casuale ritrovarsi assieme di Andrea, Livia e Charlie.
La difficoltà del cambiamento risiede tutta - ed è questa la chiave di volta dell'intera vicenda - nella frase apodittica "Le cose non cambiano mai, cambiamo noi" che pronuncia la stessa Livia, nelle sue riflessioni mute a cui il regista dà voce.
Una frase semplice che, tuttavia, apre la porta ad un mondo di complessità, dal momento che i percorsi trasformativi del proprio Sè sono lunghi, complessi e dolorosi, sia che si compiano con l'ausilio delle psicoterapie, sia che vengano catalizzati dagli eventi di vita.
Questa è la sfida del film (come del romanzo): raccontare un percorso di trasformazione gruppale ed individuale al tempo stesso, un percorso che porta individui che vivono nella sofferenza come monadi separate, fingendo che tutto vada bene, alla riscoperta degli affetti, alla loro libera espressione senza timore di delusione e di tradimenti e, infine, allo strutturarsi di una famiglia vera con la possibilità, infine, donata (e, per alcuni versi, faticosamente conquistata) di lasciarsi alle spalle le brume di un passato doloroso e di riprendere un cammino interrotto.
Il film ha dei momenti toccanti, senza tuttavia indulgere al facile sentimentalismo e senza ricorrere a mezzucci per strappare al pubblico qualche lacrima in più.

Il film è espressione di un "buonismo" intelligente e colto: ma indubbiamente non si tratta di un "cinepattone".

IL TRAILER UFFICIALE

Carla Vangelista e Silvio Muccino hanno un sito web, costruito proprio in occasione della realizzazione del film: Un altro mondo

Scheda film
Un film di Silvio Muccino. Interpreti: Silvio Muccino, Isabella Ragonese, Michael Rainey Jr., Maya Sansa, Flavio Parenti, Greta Scacchi
Drammatico, durata 110 min. - Italia, Gran Bretagna 2010. - Universal Pictures uscita mercoledì 22 dicembre 2010.

sabato 18 dicembre 2010

Con “I maledetti e gli innocenti”, Francesco Viviano e Alessandra Ziniti firmano un romanzo sulla pedofilia ispirato a una storia vera


Nel diario di un cinquantenne, sequestrato in Sicilia durante un’indagine sulla pedofilia, è documentato l'abuso sessuale sui minori, prima subìto e poi perpetrato nel corso di un’intera vita.
Da questo documento messo agli atti di un processo, Francesco Viviano e Alessandra Ziniti, già noti al grande pubblico per inchieste giornalistiche di grande spessore, hanno tratto spunto per firmare il romanzo ‘I maledetti e gli innocenti’, pubblicato da Aliberti Editore nella collana Yahoopolis diretta da Edoardo Montolli (2010).
E’ un romanzo che, nato come “instant book (ma senza le sciatterie che contraddistinguono, in genere, i libri istantanei), affronta un argomento di scottante attualità, che ha sconvolto e che, purtroppo, continua a sconvolgere la vita di tanti giovani in tutte le parti del mondo, giovani che, a volte, da vittime si trasformano in carnefici, da innocenti in maledetti.

Francesco Viviano e Alessandra Ziniti, noti per le loro ottime prove di giornalismo d'inchiesta, con questo romanzo-verità propongono - a partire da una storia vera e dal diario di un pedofilo messo agli atti d'un procedimento giudiziario - una riflessione sulla pedofilia che, per come è articolata la narrazione, offre al lettore la possibilità di osservare le cose da un duplice vertice. Il punto di vista del pedofilo (l'Enzo Gastaldi del plot narrativo, ex-seminarista e poi insegnante a domicilio per i ragazzini del vicinato e del quartiere) che prima di diventare tale è stato a sua volta una "vittima", cui fa da contraltare lo sguardo d'una vittima di Enzo (Milena che, da ragazzina, era stata oggetto delle attenzioni di Enzo).

Il Pedofilo, esecrabile perché miete le sue vittime tra ragazzini innocenti che non hanno possibilità di difendersi, è il parto di un meccanismo senza fine che è molto difficile smontare: il racconto ci mostra come un pedofilo non nasce per caso, ma si configuri attraverso una serie di passaggi che, pur potendo presentarsi con molte varianti, sono in certo modo obbligati. Un soggetto che da adulto diviene pedofilo (e, dunque, un "maledetto" e un "tormentatore" di bambini, di ragazzini/e e, in ogni caso, di minorenni), in tenera età, è stato fatto oggetto, a sua volta, delle concupiscenze d'un adulto pedofilo.

Non tutti i bimbi che hanno subito una tale sorte sono destinati a diventare a loro volta pedofili, ovviamente: altri reagiscono alle forme di abuso patite in altri modi, imparando a sviluppare meccanismi psichici difensivi che metteranno a repentaglio il loro futuro evolutivo oppure semplicemente rimuovendo i ricordi più penosi che potrebbero essere recuperati all'improvviso e traumaticamente, come nel caso della Milena della storia.
Nello stesso tempo, quando si tratta questa materia bisogna rifuggire il rischio di cadere in rappresentazioni stereotipate (e di tipo rigidamente binario), frutto di ignoranza e di pregiudizio.
Ciò che impressiona della storia di Viviano e Ziniti è proprio questo: a differenza dell'adulto violento nei confronti dei minori, il pedofilo immette nella sua vittima un veleno sottile e insidioso che sarà molto difficile da eliminare e che svilupperà in seguito una sua azione specifica.
Il “veleno” instillato nella giovane mente innocente, ancora in fase di latenza dal punto di vista psicosessuale o appena all’esordio dell’esplosione adolescenziale, attiva in maniera anomala livelli di eccitazione scaturenti dalla sovra-stimolazione delle zone erogene, senza che questa tempesta sensoriale possa essere sufficientemente elaborata ed inglobata armonicamente nell’organizzazione della personalità e con la funzione strutturante di educazione e cultura.
Questo è appunto uno dei meccanismi più potenti che porta alla perpetuazione della pedofilia. L’innocente, man mano che si trasforma in adulto, tenderebbe a ricercare attivamente proprio quelle forme di eccitazione sperimentate, quando la sua mente e il suo cervello emozionale erano ancora “vergini”, e – spinto dalla sua pulsione – è capace di coinvolgere abilmente nuove “vittime”, perché – sulla sua pelle – ha imparato come fare, essendo rimasta dentro di lui una memoria potente ed inestinguibile dei meccanismi di seduzione e di “deviazione” da utilizzare in ogni nuovo approccio, con una sostanziale debolezza dei freni morali nel prevalere di un bisogno di soddisfacimento sentito come ego-sintonico.
Il circuito, tuttavia, può essere interrotto, se solo la vittima innocente di ieri, candidata a divenire pedofilo nel suo domani, favorito dalle sue circostanze di vita riesce ad acquisire consapevolezza dell’anomalie delle sue pulsioni, attivando al contempo dei freni morali che lo distolgano dall’ineluttabilità della ripetizione di un’azione complementare rispetto a quella subita nel suo passato.
In alcuni casi l’esposizione al trauma iniziale è stata così massiccia e le circostanze di vita tanto avverse sono state così massicce da impedire lo svilupparsi di un benché minimo barlume di consapevolezza.
In questo senso, il romanzo-inchiesta dei due giornalisti offre una rappresentazione del fenomeno della pedofilia non convenzionale e fuori degli schemi che, in una certa misura, può indubbiamente spiazzare ed inquietare il lettore che viene a trovarsi davanti ad una scrittura in cui la divisione tra “innocenti” e “maledetti” non è così netta come si vorrebbe, a scopo di mera rassicurazione.
Tra le “soglie” del romanzo non è convincente, tuttavia, la sovrascritta nella parte alta della prima di copertina della frase “Nelle pagine di un religioso il più ignobile dei peccati”, inserita per motivi più di tipo commerciale e per attivare la curiosità morbosa del potenziale lettore.
Il protagonista della vicenda, Enzo Gastaldi, infatti, non è né un prete e nemmeno un ex-prete, ma soltanto un ex-seminarista poi tornato alla vita laica senza aver preso i voti, come accade a tanti di essere mandati in seminario dai genitori per risparmiare sulle spese scolastiche. E, in ogni caso, le sue esperienze di iniziazione sessuale omofila da parte di un adulto avvengono ben prima dell’ingresso in seminario.
“I maledetti e gli innocenti” non è di lettura agevole, proprio per la natura dell'argomento e, indubbiamente, si procede a fatica. Non perchè sia scritto male. Tutt’altro. Ma non è bello dovere scendere nel maelstrom dell'anima di un uomo, nel cui percorso di crescita esperienze precoci hanno radicalmente eroso alcuni punti di riferimento fondamentali, impedendo lo strutturarsi di corrette direttive morali.

La storia più nel dettaglio
Il titolo di un giornale, relativo all’arresto del “pedofilo del doposcuola”, risveglia nella protagonista, Milena, felicemente sposata e madre di tre figli con una vita del tutto normale fatti accaduti durante la sua infanzia e che lei sperava, completamente dimenticati. Quella notizia appresa casualmente fa riaffiorare alla sua coscienza un passato del tutto dimenticato e, per l’appunto del tutto “passato”. Quello che riemerge in lei è il trauma rimosso di un’infanzia violata, un segreto mai condiviso con nessun altro.

«Impallidii e chiusi di scatto il giornale scagliandolo con un gesto rabbioso lontano da me. Che diritto aveva, trent’anni dopo, di tornare nella mia vita, adesso che ero una donna serena, sposata con un uomo che mi aveva dato amore e fiducia, con tre figli che erano il mio orgoglio e la mia rivincita?»
«Il pedofilo del doposcuola. Solo il titolo dell’articolo mi causò un violento conato di vomito che mi costrinse a sedermi al tavolo della cucina. Per fortuna che Daniele, mio marito, era uscito per andare in università e che i ragazzi erano tutti fuori, Marco e Andrea alla solita partitella di calcio e Sofia, la piccolina, a giocare da un’amichetta. Mi costrinsi a leggere l’articolo che raccontava dell’arresto di quel mostro che conoscevo così bene».
Enzo Gastaldi, di umili origini, ex-seminarista, impiegato modello, arrotondava lo stipendio dando lezioni ai ragazzini del quartiere. Poi nel corso del tempo, aveva iniziato a servirsi della tecnologia contemporanea: foto, riprese video, internet e, a tradirlo, ormai cinquantenne è stata proprio la rete, dove è stato intercettato dagli investigatori del Nucleo telematico.
Milena , nel leggere l’articolo sul giornale, si trova a rivivere il trauma della sua infanzia violata, ma desiderosa di ricordare tutto, fare finalmente chiarezza, chiudendo definitivamente con una parte dolorosa del suo passato, decide di andare a fondo.
Ritorna nello stabile, dove da piccina abitava con la madre e utilizzando una vecchia chiave di riserva che, secondo le regole del buon vicinato, l’Enzo Gastaldi aveva affidato loro (per eventuali emergenze), entra nell’appartamento che era stato teatro della sua precoce iniziazione e va alla ricerca di una scatole contenente – come sapeva già – i ricordi più preziosi di Enzo e un suo diario.
La scatola custodita nel ripostiglio di una armadio contiene lettere, foto, una ciocca di capelli, una collanina con una croce d’argento, un Vangelo con la dedica di un sacerdote, il campanello arrugginito di una bicicletta, un soldatino di piombo, delle conchiglie e un quaderno, avvolto in carta da pacco dello stesso color legno del mobile.
Il diario di Enzo Gastaldi, in cui è lui in persona a raccontare, capitolo dopo capitolo, le sue esperienze di bambino e di adulto, inclusa l’iniziazione di Milena, illustra il percorso da innocente a maledetto.
Milena legge, a fatica e con dolore, lasciando per ultimo il capitolo che la riguarda. Quello lettura sarà il disvelamento finale di un aspetto perturbante, proprio perché rimosso a lungo della sua storia personale. La lettura del diario e, in retrospettiva, del frammento di storia che la riguarda avrà per Milena una funziona catartica e terapeutica che le consentirà di archiviare il passato una volta per tutte.

Gli autori
Francesco Viviano, inviato di «Repubblica», ha seguito tutti i maxiprocessi di mafia, analizzando l’evoluzione di Cosa nostra dalle stragi a oggi. Inviato in Iraq e in Afghanistan, è stato insignito di numerosi riconoscimenti e nominato “Cronista dell’anno” nel 2004, 2007 e nel 2008. Per Aliberti ha pubblicato Michele Greco, il memoriale (2008), Mauro De Mauro. Una verità scomoda (2009), Morti e silenzi all’università (2010) e I misteri dell’agenda rossa (2010)
Alessandra Ziniti, inviata di «Repubblica», ha seguito tutte le grandi inchieste di mafia e di cronaca in Sicilia. Insieme a Francesco Viviano ha vinto il premio Cronista dell’anno nel 2008 e sempre con lui ha pubblicato per Aliberti Morti e silenzi all’università. Il laboratorio dei veleni (2010) e I misteri dell’agenda rossa (2010).

lunedì 13 dicembre 2010

L'abbraccio, potente antidoto della solitudine


Un abbraccio è un gesto volto ad esprimere affetto o amore, consistente nello stringere le braccia e le mani attorno al corpo di un'altra persona.
Si tratta di una delle forme di effusione più diffuse fra gli umani, insieme al bacio.
Rispetto a quest'ultimo, però, viene di norma considerato un'espressione di generico affetto, tanto è vero che nella maggior parte delle culture e società può essere praticato indifferentemente fra familiari e amici, oltre ovviamente che fra amanti, senza limitazioni di sesso o di età e tanto in pubblico quanto in privato senza incorrere in alcuna forma di stigmatizzazione o riprovazione sociale.
In generale, un abbraccio può rappresentare un'effusione romantica o una generica forma di affetto verso una persona, ad esempio un modo per manifestare gioia o felicità nell'incontrare o salutare qualcuno. Alternativamente, un abbraccio può essere volto a confortare o rincuorare qualcuno.
In definitiva, si tratta di un gesto che esprime affetto in una vasta gamma di gradi.
Esistono evidenze scientifiche secondo le quali gli abbracci avrebbe un effetto benefico a livello fisiologico: alcuni studi avrebbero infatti dimostrato come essere abbracciati aumenti il livello di ossitocina e abbassi contemporaneamente la pressione sanguigna.
Pur essendo particolarmente diffuso fra gli esseri umani, l'atto di abbracciare non è esclusivo di questa specie, in quanto sono state osservate forme equivalenti di questa effusione fra diversi mammiferi, specialmente fra le scimmie antropomorfe, tra le quali è un elemento importante per la coesione sociale, come anche il grooming ampiamente descritto dagli etologi, cioè l'operazione di spulciamento reciproco.
Sul tema dell'abbraccio è uscito di recente il delicato e profondo libretto scritto da David Grossman, corredato dalle splendide ed eteree illustrazioni di Michal Rovner (Mondadori, 2010).
E' un breve, folgorante apologo sulla solitudine e sull'amore, scritto da uno dei più amati autori della grande letteratura contemporanea, e illustrato con i disegni di Michal Rovner, un'artista nota in campo internazionale, che ha esposto anche al Madre di Napoli e di cui è in allestimento una personale al Jeu de Paume di Parigi.
Piccolo libro, elegante e raffinato, L'Abbraccio è quasi un dono di David Grossman ai suoi lettori, perché ne facciano a loro volta dono alle persone che amano.

L'individulaità e l'unicità di ciascun individuo presuppongono la solitudine.
Come fare a superare la solitudine indistricabilmente scaturente dalla consapevolezza dell'unicità di se stessi come singolo individuo?
Una madre, camminando con il proprio figlio, gli dice che lui è unico. Il bambino le risponde che questa unicità lo spaventa, perchè lo fa sentire solo e, a sua volta, chiede alla mamma, se anche lei sia unica e se questa consapevolezza non la faccia sentire sola.
Anche le formiche a prima vista così uguali, sono uniche secondo la mamma.

Il bambino con una sua logica stringente ribatte che se tutti sono unici, allora tutti sono soli.
La mamma gli dice che questo è vero: anche lei è unica e sola come lui, ma se si abbracciano non sono più soli.

"Allora abbracciami", dice il bambino. La mamma allora lo stringe a sé, sentendo il cuore del bambino battere forte e lasciando che lui potesse sentire di rimando il suo.
"Adesso non sono più solo"
si disse il bambino.
E così la madre gli spiegò che era per questo che era stato inventato l'abbraccio.

Noi contemporanei ci siamo dimenticati della potenza e dell'intimità di un abbraccio
Un esperto di piscologia della coppia asserisce che, oggi, molti non sono più in grado di abbracciare (e soprattutto di mantenere a lungo l'abbraccio), perchè non riescono a reggere l'intensità della comunicazione non verbale e il grado di intimità che, proprio attraverso l'abbraccio, si realizzano.
L'abbraccio è un modo di stabilire un contatto, consolidando il senso di unione e di appartenenza, a prescindere dalla dimensione dell'Eros (che non ne è l'unica componente, anche se ne costituisce l'humus fertile, considerando l'Eors nel senso più universale possibile).
Il inguaggio dell'abbraccio è veramente universale.
L'apologo di Grossman ci riconduce a questo significato primigenio dell'abbraccio, riallacciandosi senza volerlo al movimento dei "free hugs", inventato dall'australiano Juan Mann che cominciò a mettere in pratica la libertà di ricevere e dispensare abbracci "gratis" (free hugs, appunto).
Chi ha praticato i free hug può testimoniare che si tratta di un'esperienza davvero intensa (ed anche gratificante), sia per chi dispensa gli gli abbracci, sia per chi li riceve, proprio perchè nell'abbraccio c'è una totale reciprocità e si attiva un dono scambievole, se soltanto si riesce a venir fuori dalle interpretazioni monocordi, monolitiche e sostanzialmente prive di fantasie dell'immaginario televisivo, omologante e piatto.


Dal sito Free Hugs. Abbracci liberi. La libertà di regalare abbracci
(liberamente modificato).
A volte ricevere un abbraccio è tutto ciò che ci serve. “Free Hugs” (abbracci gratis. ma anche liberi) è la reale e controversa storia di un ragazzo australiano: Juan Mann, un uomo ed il suo obiettivo, l’unico ed importante, quello di raggiungere una persona sconosciuta ed abbracciarla, illuminando e portando gioia alla vite di entrambi.
In questa epoca di separazioni sociali e di mancanza di contatti umani gli effetti della campagna di abbracci liberi lanciata da Juan Mann sono sensazionali. Mentre Juan Mann, icona di una nuova umanità, spargeva la speranza per la città, la polizia e l’amministrazione pubblica vietarono la campagna per la diffusione degli abbracci.
Quello che successe poi e di cui siamo testimoni rappresenta la vera essenza di una umanità che si unisce, unione che diventa un’onda e che si diffonde per il mondo divenendo fonte di ispirazione e di crescita.
Furono raccolte 10,000 firme per chiedere di annullare i divieti, e il 22 settembre 2006 il filmato sugli abbracci di Juan Mann fu messo on-line su youtube, raggiungendo in un mese il tetto di ben 4 milioni di download.
Tanti presero ad emularlo ed il movimento dell' “abbraccio libero” si diffuse nel il mondo.

Chiunque, volendolo, puà diventare un "freehugger", scendere per strada a liberare abbracci, liberando se stesso abbracciando.
In fondo, se si riuscisse a condividere anche un solo abbraccio, ciò sarebbe un grandissimo dono che si fa e si riceve… e il mondo sarebbe sicuramente migliore.

Il libro di Grossman si innesta proprio in questo filone di pensiero, fornendone una rappresentazione delicata e poetica.

mercoledì 1 dicembre 2010

"Tecniche di resurrezione", un grande affresco storico in cui Gianfranco Manfredi racconta la nascita della Medicina moderna



Tecniche di resurrezione (Tdr) è l’ultimo romanzo di Gianfranco Manfredi (Gargoyle, settembre 2010) che, pur ponendosi come il seguito delle avventure di Aline e Valcour de Valmont, iniziate in Ho freddo, può essere letto in modo del tutto autonomo.
Aline e Valcour sono ritornati nel Vecchio Mondo, ma all’esordio della vicenda sono separati: mentre il secondo si ritrova a Londra, Aline è a Parigi, per tentare di rientrare in possesso del patrimonio di famiglia. Entrambi, pur separati e in contesti diversi (anche ideologicamente) continuano a coltivare i propri interessi scientifici.
La narrazione propone un impressionante affresco storico del periodo di transizione tra la Rivoluzione Francese e il trionfo dell’impero napoleonico, in una dimensione in cui lo scientismo prende sempre più piede grazie alle recenti scoperte del galvanismo con il riconoscimento degli effetti di correnti elettriche applicate ad esseri, viventi o morti, o a parti di tessuti anatomici dissezionati e del loro potere “resuscitante”.
Gli scenari narrativi sono complessi, caratterizzati dall’intersezione tra la ricostruzione storica e d’ambiente – sempre accuratissima – e la disamina delle ossessioni dei medici del tempo scaturenti dai progressi della scienza medica, ma ancora gravati dalle incrostazioni d’un passato di superstizioni e false credenze: l’elettrogalvanismo, gli interrogativi sulla facoltà della nuova scienza di poter resuscitare chi fosse già stato dichiarato morto (almeno sulla base delle conoscenze del tempo), sino alla possibilità di creare la vita ex-novo, ossessione quest’ultima che, nelle sue declinazioni demiurgiche, prenderà corpo in modo emblematico – poco più di un decennio più tardi dell’epoca degli eventi narrati da Manfredi – nel romanzo di Mary Shelley, Frankenstein o il Moderno Prometeo, ma anche l’identificazione di meccanismi fisiologici sino a prima sconosciuti e delle correlazioni possibili tra funzioni e parti anatomiche prima trascurate e un’attenzione nuova e attenta al cervello e alle leggi del suo funzionamento.
Se Ho freddo includeva nella sua trama l’ossessione per le epidemie vampiriche del XVIII secolo quando superstizione e scienza si incontravano in un groviglio ancora difficile da dipanare, in Tdr, invece, si entra più direttamente nel positivismo e nello scientismo, nelle cui pieghe – tuttavia – fantasmi e paure oscure continuano a sopravvivere.
Il vero orrore, nella narrazione di Manfredi, sta tutto nella rappresentazione della scienza medica che per potersi evolvere deve esercitarsi in consuetudini macabre e terribili, come l’applicazione di correnti elettriche al corpo di coloro che erano stati giustiziati, oppure tollerare (se non addirittura incoraggiare) tutte le necessarie pratiche clandestine messe in atto dai profanatori di tombe per il reperimento dei cadaveri da dissezionare in sala settoria: una merce importante e preziosa per potere incrementare sempre di più la precisione delle conoscenze anatomiche e la corrispondenza tra alterazioni di organi e tessuti e le malattie.
Non è facile (ed è forse riduttivo) rubricare il romanzo di Manfredi come narrativa “horror”: sì, alcuni elementi propri dell’horror ci sono, ma sembrerebbe che siano piuttosto degli elementi “incastonati” nell’intreccio e che servono ad approfondire (arricchendone le sfaccettature) un testo di ampio respiro che ha le qualità del romanzo storico (più decisamente “storico” di quanto non fosse Ho freddo che, invece, possedeva maggiormente le caratteristiche del conte philosofique).

Un romanzo che si muove tra storia e filosofia della scienza
Guardando più nel dettaglio, la storicità del romanzo di Manfredi si muove su due diversi binari: da un lato, vi è la contestualizzazione storica nel periodo che vede l’Inghilterra allarmata per l’imporsi sullo scenario europeo di Napoleone Bonaparte, primo Console e prossimo all’incoronazione come Imperatore (evento che chiudeva di fatto gli anni della Rivoluzione Francese, pur non estinguendo la ventata libertaria e indipendentista che percorre l’Europa), ma vi sono anche aperture verso il Nuovo Mondo (che risuona nelle narrazioni dei due protagonisti reduci dall’avventura in America e del pastore Jan Vos, con la cui morte si concludeva Ho freddo) e verso il mondo esotico, misterioso ed esoterico dell’Egitto, portato alla ribalta dalla spedizione napoleonica in Africa; in parallelo, vi ritroviamo una dimensione storica di tipo scientifico, con il progresso della scienza in generale, illustrato ad esempio con l’episodio, gustoso e singolare, del viaggio attraverso La Manica in mongolfiera, e della scienza medica più nel dettaglio.
Alcuni, nel commentare Tdr hanno proposto un parallelismo (e un’assonanza) con il citato romanzo della Shelley, ma in verità i punti di contatto tra i due romanzi sono da rinvenire esclusivamente nella potenzialità della correnti elettriche che, applicate a un corpo apparentemente morto, possono ridare la vita e “resuscitare”.
Il testo della Shelley, fortemente imbevuto di quesiti filosofici, si occupava principalmente dell’estrapolazione demiurgica della nuova scienza: e, in questo, vi si può ravvisare una persistente modernità (che non manca di stupire il lettore moderno), proprio perché senza volerlo si pone come atto di denuncia sulla pericolosa disinvoltura dello Scienziato che ritiene di potere agire come demiurgo che “crea” la vita, anziché astenersi sulla base del semplice “principio di precauzione”); e in tal senso attiva una riflessione sempre d’attualità.

La letteratura e l’avanzata della scienza: da Frankenstein a Next…
Frankenstein è entrato con forza nell’immaginario di molti, anche grazie alla mediazione delle molteplici rappresentazioni cinematografiche della storia (non ultima quella in chiave satirica e nondimeno geniale del grande Mel Brooks).
Lo si può considerare uno dei primi romanzi che si pone degli interrogativi filosofici sull’avanzare della scienza e sulla responsabilità morale dello scienziato sui guasti che potrebbero verificarsi a causa dell’applicazione avventata di nuove tecnologie e con il mancato rispetto del “principio di precauzione”.
In questo senso, ha rappresentato una pietra miliare, perché ha importato nella letteratura gli interrogativi più inquietanti posti dal progresso.
Non a caso, il “mostro” rimane senza nome, il “Frankestein” del titolo è lo scienzato-demiurgo, perseguitato come da un’ombra dalla creatura infelice cui ha dato vita che è la testimonianza vivente della sua hubris.
Dentro ogni scienziato, oggi – come ieri – alberga un Frankenstein che si protende sull’abisso, pronto ad infrangere i limiti posti dall’etica per inseguire la sua brama epistemofilica.
Anche in Tdr sono presenti diversi aspetti che attengono alla ricerca scientifica di quel tempo e che trascinano con sé altrettanti quesiti filosofici:
1. il confine tra la vita e la morte: quando un essere vivente può considerarsi veramente morto? Quando cessa la possibilità di rianimarlo? Qual è la differenza tra interventi di rianimazione e “resuscitanti”? È lecito mettere in opera simili interventi?;
2. la correlazione tra le correnti elettriche e il funzionamento della macchina-uomo. Se le correnti elettriche provocano dei fenomeni cinetici nei tessuti o in parti anatomiche isolate, possono essere utilizzati per ridare vita ad un corpo morto;
3. le correlazioni tra certe parti del cervello che secernono delle sostanze chimiche e il funzionamento corporeo (su quest'aspetto si innesta la ricerca dell’inquietante figura costituita dal Doctor Ending);
4. la correlazione tra il progredire della Scienza e l’estendersi delle conoscenze, da un lato, e – dall’altro – la persistenze influenza di esoterismo e sottili forme di superstizione (e di conseguenza, attiva indagine sui fenomeni parapsicologici). Come integrare questi aspetti così diversi? Sono compatibili in una visione sempre più moderna delle cose?.
È chiaro che quesiti come questi che a noi appaiono normali (o addirittura superati) potessero apparire agli albori della scienza medica esoterici o addirittura pericolosi, in quanto frutto dell’esercizio di stregoneria o di arti magiche o occulte, sino a sconfinare nel reame delle scienze “oscure”.
Proprio contro questi pregiudizi, i pionieri della ricerca medica nei primi decenni dell’Ottocento si trovarono a lottare per affermare il primato della ragione, a volte scivolando proprio su quei pregiudizi che intendevano combattere, e senza volerlo alimentandoli.
Nel corso del tempo, il limite tra ciò che è morale e ciò che è immorale si va spostando di continuo: questo è un dato di fatto.
Tuttavia, è anche giusto e opportuno che debbano essere posti dei confini non tanto alla ricerca scientifica, quanto piuttosto ad alcune possibili applicazioni ed estrapolazioni di ritrovati della scienza, come ci avverte il recentissimo film Splice o sembra dirci Next (uno degli ultimi romanzi di Michael Crichton prima della sua scomparsa) nei quali si vede bene come gli scienziati operano esclusivamente al servizio di interessi privati o del proprio stesso interesse (ambizione, desiderio di gloria, personali ossessioni), portando quindi la ricerca in quelle direzioni che potranno essere potenzialmente remunerative o sollecitanti/gratificanti per il proprio Ego, senza tenere in alcun modo in conto la necessaria prudenza nell’andare dritti alle applicazioni commerciali delle proprie scoperte (e rispettosi del cosiddetto “principio di precauzione”).
Il tema scientifico presentato in Tecniche non è tanto quello dell’immortalità – come alcuni hanno ventilato – che è al di là della scienza o del potere demiurgo dei prometeici Frankenstein della Scienza, bensì quello della a messa a punto e dell’applicazione di “tecniche di resurrezione” sempre più efficaci, dal momento che esattamente in quegli anni gli uomini (i medici, gli scienziati, ma anche gli umanisti e i filosofi) cominciavano a riflettere sui confini della vita e sulla definizione di morte.
Quando si è definitivamente e completamente morti?
Come si fa a riconoscere uno che è completamente morto, da uno che, pur sembrando morto, potrebbe ancora risvegliarsi?

Questo l’interrogativo che i medici del tempo e le persone comuni cominciarono a porsi con sempre maggiore insistenza, in alcuni casi sino a rasentare l’ossessione.
Il galvanismo, cioè l’applicazione delle correnti elettriche ai cadaveri e ai soggetti morti da poco tempo, sposò efficacemente questa ossessione, mentre in parallelo si cominciava ad approfondire l’importanza delle correnti elettriche nel funzionamento degli esseri viventi.
L’applicazione della corrente elettrica ai cadaveri, e il fatto che i muscoli – se adeguatamente stimolati – potessero avere delle contrazioni alimentò la fantasia che, pur sembrando morti, si potesse essere ancora in vita: da qui una serie di consuetudini che si radicarono proprio in quegli anni per garantire che in caso di risveglio il “morto” potesse essere messo in salvo.
L’attesa di molte ore prima di procedere alla sepoltura, il collegare uno degli arti del defunto ad una cordicella che avrebbe fatto suonare una campanella in caso di improvvisi movimenti: furono tra i tanti dispositivi messi a punto per placare l’ansia (e in alcuni la fobia) del seppellimento prematuro (di cui è un magistrale esempio il racconto di Edgar Allan Poe, “La sepoltura prematura”) che ci accompagna sino ai giorni nostri in molte varianti della narrativa horror (nota 1).
D’altra parte è noto che proprio l’applicazione di una forte corrente elettrica al cuore faccia parte del protocollo delle tecniche di rianimazione utilizzate oggigiorno in caso di arresto cardiaco, come step ulteriore rispetto al cosiddetto “massaggio cardiaco” accompagnato da insufflazioni polmonari.
Il romanzo di Manfredi ci parla di queste cose e del difficile percorso compiuto dalla medicina scientifica (rappresentata da Aline e Valcour) sia nel suo approccio “curativo” sia nelle sue funzioni più estreme di un insieme di pratiche “resuscitanti” e quasi miracolose.
È chiaro che, quando il medico – pur in nome della scienza – applica in modo avveniristico delle tecniche resuscitanti ancora non consolidate e di tipo “sperimentale” si riveste – senza nemmeno volerlo di un’aura carismatica e stregonesca, dal momento che il potere di “ridare” vita confina inevitabilmente con quello – speculare – di somministrare la morte (vedi ancora l’inquietante figura del Doctor Ending in Tdr).
È questo il difficile percorso che Aline e Valcour sono stimolati a percorrere, dovendo contrastare, da un lato, l’interessamento – ben poco umanitario – di chi vuole sfruttare questi nuovi ritrovati per consolidare il proprio potere politico e, dall’altro, l’opposizione anche violenta di chi vorrebbe frenare lo sviluppo di conoscenze scientifiche limpide e certe, mantenendo invece sugli ignoranti un potere derivante dalla forza delle superstizioni (il Doctor Ending tra questi personaggi occupa una posizione sicuramente emblematica).
Nello stesso tempo, lo sforzo scientista di Aline e Valcour non è alieno dal cogliere anche certe istanze sociali.
Se Aline rappresenta la ricerca “pura”, Valcour – pur ricercatore – è anche un medico pragmatico e “filantropo” che piega le scoperte della scienza e le nuove acquisizioni in tema di metodi terapeutici alle esigenze della “cura”, rivolgendosi sia ai ricchi e agli aristocratici benestanti, sia ai meno abbienti che, a quei tempi, vivevano in condizioni di grande disagio e di totale assenza di igiene, cause primarie di patologie.
Con Valcour vengono tratteggiati i grandi temi della Medicina applicata che, accanto a quello della ricerca e dell’applicazione di nuovi metodi di cura, è quello dell’impegno sociale e filantropico con l’avvio di interventi di educazione sanitaria e curativo/terapeutici, indirizzati ai poveri, con la ricerca di luoghi idonei per lo svolgimento di questa “mission” (grazie alle donazioni dei ricchi, sensibilizzati a questa causa), a tutti gli effetti precursori dei moderni ospedali.


Tecniche di resurrezione, un grande affresco storico…
Detto questo, a me sembra che Tdr di Manfredi sia veramente un grande romanzo, perché presenta un affresco della società inglese (in clima di restaurazione) e francese (reduce dalla Rivoluzione),con tutti i fermenti culturali del tempo in cui lo scientismo, tipico prodotto dell’Illuminismo, comincia a ricevere potenti contaminazioni dalla nascente anima romantica. Un testo costruito abilmente con una miriade di personaggi, in cui ciascun capitolo è in se stesso una sorta di “puntata”: Manfredi, anche per via del suo curriculum di sceneggiatore di fumetti cult come Magico Vento e Volto Nascosto ha saputo abilmente importare nell’elaborazione del romanzo la sua capacità di dar vita a delle narrazioni che, pur rispondendo a un’unica trama molto articolata, presentano nello stesso tempo dei micro-episodi ciascuno dei quali è compiuto in se stesso come, ad esempio, le storie attorno all’ex-guida napoleonica Salvy San Subra, affetto da una misteriosa sindrome, al cui capezzale viene chiamato Valcour dal Primo Console in persona, o altri episodi sulla campagna d’Egitto).
E, in effetti, nel leggere l’opera di Manfredi quello che succede è proprio questo: si finisce un capitolo, si fa una pausa e subito si desidera passare ad immergersi in quello successivo. E, intanto, la schiera dei personaggi (molti dei quali “storici”) tratteggiati a tutto tondo dalla penna dell’autore si va infoltendo sempre di più.
Ho freddo, così come Tdr, è fondato su di un’approfondita attenzione storiografica, su ricerche d’archivio, ma anche su sopraluoghi minuziosi, effettuati nei luoghi descritti.
È quest’aspetto che rende unica e originale la storia che, a differenza di altre (anche nella forma filmica) in cui viene, invece, presentato sempre lo stesso canovaccio (in cui a cambiare sono solo i luoghi, le date, i nomi dei personaggi, ma non la sostanza).
La godibilità di un romanzo sta nel fatto che aiuti il lettore a sognare (quando l’accento è posto sulla dimensione fantastica) oppure a viaggiare nel tempo e nello spazio.
Un viaggiatore (che non sia semplicemente turista) ha bisogno di informazioni attendibili e soprattutto gli deve essere data la possibilità di immergersi nel contesto, impregnandosi della sua sensibilità (che è anche quella della struttura intrinseca del pensare e di costruire rappresentazioni del mondo di chi lo abita).
In un romanzo che sia ambientato in un luogo e in epoca precisi del passato, un passato che è nostro e che, nello stesso tempo, non ci appartiene più, è estremamente importante l’accuratezza delle ricostruzioni storiche (perché nel frattempo noi siamo andati avanti sia sotto il profilo delle tecnologie, sia sotto quello della sensibilità e del modo di pensare). Ci sono due modi di scrivere del passato (oppure di farne dei film), profondamente divergenti uno dall’altro: ricostruirlo con le categorie mentali del Presente, oppure cercare di farlo rivivere così com’era, con accuratezza e precisione.
In tanti film made in USA quello che accade è l’americanizzazione del passato: nel senso che vicende, anche lontanissime, vengono rivisitate in modo da essere in sintonia con il gusto americano contemporaneo e, se tale processo implica, un imbastardimento della verità storica e della rappresentazione dei costumi e delle tecnologie, poco importa.
Il passato diventa così il luogo delle nostre proiezioni di uomini del presente, una mera convenzione: il racconto è ambientato nel passato, ma ad esso sono applicate spudoratamente tutte le categorie e i modi di sentire propri del presente.
Credo che questi due romanzi di Gianfranco Manfredi, proprio per questi motivi, escano dal genere ed entrino a pieno titolo nel solco della grande letteratura
Tdr è un romanzo assolutamente da leggere: un romanzo che anche grazie alla profusione dell’apparato di note che lo arricchiscono consente di imparare la storia, dedicandosi ad una lettura che solo apparentemente è leisure e intrattenimento.
Il romanzo è arricchito da un’introduzione di Carlo Bordoni, intitolata “Prima di Frankenstein”, in cui si pone l’accento sui progressi della scienza e delle conoscenze neurofisiologiche “prima di Frankenstein”.
Mentre al termine del volume, una nota finale redatta dallo stesso Manfredi racconta cosa accadde ad alcuni dei personaggi storici, dopo le vicende immaginarie in cui sono stati coinvolti.

La trama

1803. I gemelli Aline e Valcour de Valmont, ricercatrice scientifica lei e medico-chirurgo lui, sono tornati in Europa dopo una tragica esperienza americana che ha lasciato in entrambi ricordi angosciosi. A Londra, Valcour assiste a una dimostrazione galvanica dello studioso Giovanni Aldini, condotta sul cadavere di un impiccato. Nel corso dell'esperimento, Valcour rianima un uomo colpito da infarto.
Il brillante successo riportato lo precipita però in un agghiacciante intrigo.
Proprio mentre gli esperimenti di rianimazione stanno aprendo nuove prospettive alla medicina, un chirurgo folle conosciuto come Doctor Ending si rende responsabile di feroci delitti, trafugamenti di salme e clamorose provocazioni. Aline si trova, intanto, a Parigi, nella speranza di recuperare alcuni beni di famiglia sequestrati dopo la Rivoluzione, entrando in contatto con la Corte di Napoleone. In Francia, una generazione di novelli "medici dell'anima" si avvale delle prime esperienze ipnotiche per esplorare i segreti della psiche umana. Un caso in particolare, per quanto tenuto segreto, suscita inquietanti interrogativi.
Salvy San Subra, un'ex guida di Napoleone durante la campagna d'Egitto, è vittima di un processo di degenerazione cellulare che lo sta progressivamente mummificando. Quando Valcour raggiunge sua sorella a Parigi, scopre che tra il caso di Doctor Ending e quello di San Subra, intercorrono sotterranei quanto inspiegabili legami. La vicenda assume presto i contorni di un incubo che rischia di inghiottire i due fratelli.

Una nota bio-bibliografica su Gianfranco Manfredi
Cantautore, sceneggiatore, attore, scrittore, Gianfranco Manfredi nasce a Senigallia nel 1948, ma si trasferisce a Milano all'età di otto anni.
Studia Filosofia e si laurea con Mario Dal Pra.
Agli inizi degli anni Settanta, si divide tra la ricerca universitaria sull'Illuminismo francese e l'attività di cantautore: escono gli album La crisi (1972), Ma non è una malattia (1976), e il saggio L'amore e gli amori in Jean-Jacques Rousseau (1978). A un passo dall'ottenimento della cattedra in Storia della Filosofia, Manfredi decide di dare spazio esclusivamente alla sua vena artistica. Come cantautore realizza gli album Biberon, 1978; Liquirizia, 1979 (colonna sonora dell'omonimo film di Salvatore Samperi); Gianfranco Manfredi, 1981; Dodici, 1985 (in coppia con Ricky Gianco); In Paradiso fa troppo caldo, 1993; Danni collaterali, 2003; firma, altresì, brani per interpreti del calibro di Mia Martini, Gianna Nannini, e Gino Paoli. Inoltre, comincia a lavorare per il cinema come sceneggiatore: Samperi (Liquirizia, 1979, e Fotografando Patrizia, 1981) e Steno (Quando la coppia scoppia, 1981) sono solo alcuni dei registi con cui collabora. Come attore recita in Un amore in prima classe, 1980, e Fotografando Patrizia, è protagonista del Tv movie Kamikaze di Corbucci (1986), ed è tra gli interpreti di Via Montenapoleone di Carlo Vanzina (1987). Nel contempo inizia a farsi conoscere come romanziere distinguendosi da subito per la sua raffinata propensione a ibridare i registri narrativi e a rimaneggiare in modo del tutto nuovo i tòpoi della letteratura di genere, ottenendo il plauso di personalità come Oreste Del Buono e Pier Vittorio Tondelli. È autore di: Magia Rossa (Feltrinelli 1983, Gargoyle 2006), Cromantica (1985), Ultimi vampiri (Feltrinelli 1987, Gargoyle 2009 in Extended Version), Trainspotter (1989), Il peggio deve venire (1992), Una fortuna d'annata (2000) e Il piccolo diavolo nero (2001), Ho freddo (Gargoyle 2008, www.hofreddo.it - finalista Premio letterario Francesco Alziator - Comune di Cagliari 2009), Tecniche di resurrezione (Gargoyle 2010).
Manfredi è, inoltre, il creatore delle seguitissime serie Magico Vento (tradotta in diversi Paesi, attualmente al vaglio di opzioni cinematografiche americane) e di Volto Nascosto, editi dalla Sergio Bonelli.Gianfranco Manfredi vive e lavora a Gordona (Sondrio).
Ha un suo sito web: www.gianfrancomanfredi.com
(Nota 1) - -“La sepoltura prematura” (titolo originale:”The premature burial”) è un racconto di Edgar Allan Poe appartenente alla raccolta Racconti del terrore. Fu pubblicato per la prima volta nel 1844 su “The Philadelphia Dollar Newspaper”.
Il racconto, in verità un piccolo saggio, è costituito da alcuni esempi paradigmatici tratte dalla cronaca o circolanti come storie narrate a voce, di sepoltura di esseri umani ancora in vita, creduti morti a causa di un prolungato stato di coma o catalessi. Il brano evidenzia ripetutamente il terrore e l’angoscia che si provavano spesso, all'epoca, di fronte alla prospettiva di essere sepolti vivi.
Tale paura molto diffusa in passato si strutturava talora in forma di fobia: la cosiddetta “tafofobia” (dal greco taphos, sepolcro) con possibili correlati psicopatologici, derivante dalla paura di essere sepolti vivi, quale risultato dell’errata constatazione della propria morte.
Questa paura, soprattutto al giorno d’oggi, sembra essere abbastanza rara e appare più che altro come una forma estrema di claustrofobia. Oltretutto si è notato che il picco di tafofobia lo si ritrova in persone anziane che, nella loro giovinezza, sono rimaste profondamente colpite dalla lettura di racconti ispirati a questo fenomeno. Per questi motivi la tafofobia sembra non rivestire, oggi, eccessiva rilevanza clinica.

mercoledì 17 novembre 2010

In Bloody Mary la denuncia delle" nuove" schiavitù: lavoranti extracomunicatori dei campi e del sesso,entrambi trattati con metodi inumani


Bloody Mary (di Marco Vichi, Leonardo Gori, Einaudi 2010) era già stato pubblicato nel 2008 per le Edizioni Ambiente, Collana VerdeNero, una collana che una serie di brevi romanzi "concept" o mini-raccolte di racconti "tematici", tratti da spunti relativi ai crimini ambientali perpretati dalle cosiddette ecomafie. Ognuno dei volumi della collana che oggi vanta già una ventina di titoli, per dare al lettore la posibilità di documentarsi, segue a mo' di postfazione un breve scritto intitolato "I fatti" che fornisce una cornice di decodifica sui fatti reali cui nel romanzo o nei racconti ci si riferisce.
Bloody Mary è un breve romanzo, denso e scorrevole al tempo stesso che tratta di due destini apparentemente separati, di due parabole di vita, una originata (è la storia di Aleya) dal profondo Sud (dal Niger, per l'esattezza) e l'altra (con le vicissitudini di Marek) dalla fredda Europa del Nord (la Polonia di Cracovia): per gran parte della narrazione si tratta di due destini separati e di due storie diverse, ma accomunate da molte affinità che, ad un certo punto, per puro caso si intrecciano.
E l'inatteso convergere ad aprire nei due protagonisti degli orizzonti di speranza, lasciando spazio ad un empito di libertà.
Tuttavia, questa volta i “fatti”, relativi alle attività delle “ecomafie”, (l'interramento dei rifiuti tossici non trattati nei campi destinati alle colture), toccano soltanto tangenzialmente il nucleo più profondo della storia che affronta con durezza il tema delle “nuove schiavitù” e del traffco immondo e bieco di esseri umani all’insegna del profitto.
Il polacco Marek con la sua storia rappresenta in maniera emblematica i nuovi schiavi la cui mano d'opera consente ai big della distribuzione commerciale agro-alimentare di tenere bassi i prezzi al consumo, riuscendo comunque ad avere margini di guadagno importanti. Aleya, invece, bellissima e desiderata, dà voce con il suo racconto al corteo di sventurate che vengono tratte in schiavitù per essere immesse nel mercato del sesso a pagamento, tenute in ostaggio e spogliate scientemente e con metodo di qualsiasi dignità umana.
Il romanzo è davvero ben costruito sino all’inaspettato - e tristissimo - finale in “noir”.
Il "bloody mary" del titolo che si riferisce, ovviamente, al noto cocktail a base di superalcoolici e succo di pomodoro, rimanda quindi, al rosso sangue del pomodoro, la cui raccolta viene effettuata nel SUD d'Italia, avvalendosi di mano d'opera straniera il più della volte costituita da extracomunitari (giunti per vie clandestine) e tenuti in ostaggio dai "caporali" quasi fossero schiavi (e pagati a prezzi da fame, con una serie di tangenti espunte dalla paga giornaliera).
Il poco denaro che riescono a prendere da questo improbo lavoro è al prezzo di sudore e sangue...

Sintesi dalla quarta di copertina
Marek arriva da Cracovia. Educato, bravo figliolo, diploma appeso al muro che vorrebbe prendere a sputi, per quanto è inutile. E partito con il miraggio del lavoro sicuro in Italia: poco importa che sia la raccolta di pomodori, non disdegna certo il lavoro dei campi. Non sospetta lo sfruttamento estremo, la fatica che distrugge, i traffici nauseanti. Aleya invece non ha potuto fare nessuna scelta mentre diventava ragazza in un villaggio nigeriano. Troppo bella per passare inosservata, dunque violentata, rapita e scaricata sulle coste italiane come bestiame da piacere. Dai bordelli di lusso giù fino alla strada. Due giovanissimi, due storie opposte. Il loro incontro innescherà un incendio.

sabato 13 novembre 2010

In "Mano Nera", il balcanico turbo-noir di Custerlina, le vicissitudini della Haggadah, il libro della fratellanza tra fedi ed etnie diverse

Mano Nera (Alberto Custerlina, B.C.Dalai, 2010), per definizione data dallo stesso autore (in un post su "turbo folk - "turbo noir", consultabile nel suo sito web), sua opera seconda, è un "turbo noir", un noir cioè ad ambientazione balcanica e impregnato della concitazione e delle tinte forti e sanguigne proprie del genere musicale balcanico, detto appunto "turbo folk", che rappresenta gli umori popolari e i gusti di quelle genti dai tempi del famigerato Arkan in avanti.

L'intreccio di Mano Nera è semplice: l'omonima organizzazione criminale decide di trafugare la Haggadah, un antico libro custodito in un Museo di Sarajevo e reputato dai popoli balcanici simbolo della tolleranza religiosa e della fratellanza tra etnie di fedi religiose diverse. Lo scopo di tale "rapimento" è quello di far sì che un gruppo religioso si schieri contro l'altro, ritenendolo responsabile del furto, e che si attivino nuovamente le faide e i conflitti etnici con giovamento dei traffici illeciti della stessa organizzazione.
Forze apparentemente avverse lottano per impedire un simile epilogo e per ricondurre il rispettato e venerato Codice nella sua sede naturale a far da garante, con il suo esserci, della pace tra le diverse genti.
La let­tura del romanzo, con la sua nar­ra­zione ser­rata e avvin­cente con per­so­naggi cre­di­bili e trat­teg­giati impres­sio­ni­sti­ca­mente — quasi a unghiate — ma “tri­di­men­sio­nali” e per­fet­ta­mente calati nel con­te­sto, è godibilissima, anche per un lettore colto, visto lo spessore dei riferimenti storici e culturali (basta cercare in internet la voce "Haggadah", per rendersene conto).

La Hag­ga­dah di Sarajevo, il libro rubato dalla Mano Nera e custo­dito nel Museo nazionale della Bosnia-Erzegovina, è impor­tante per­chè è il sim­bolo della tol­le­ranza e, proprio per questo, ha valore per tutti e non deve essere posseduto da nessuno.

E' un libro ebraico di cerimonie, che contiene una collezione di storie bibliche, di preghiere e di salmi che riguardano la Pesach, la festa che celebra la liberazione degli ebrei dall'Egitto. Al mondo esistono tantissime haggadah, più o meno preziose e conosciute. L'Haggadah di Sarajevo è considerata di valore inestimabile, sia per la sua antichità (oltre 600 anni), sia per la bellezza delle sue immagini, per i colori arricchiti con oro e rame, per il fantastico mondo degli animali che vi sono rapprresentati, per gli ornamenti floreali e geometrici, ma anche perchè possiede la particolarità di mostrare immagini di persone, nonostante la religione ebraica lo vieti. Il manoscritto si distingue anche per alcuni concetti insoliti, come ad esempio, quello di immaginare la terra come rotonda. Ciò accadeva duecento anni prima che Giordano Bruno venisse mandato al rogo perché sosteneva una simile, eretica teoria.
Nel corso dei bombardamenti, durante l'assedio di Sarajevo, furono fatti diversi tentativi di devastare il Museo che la custodisce, per distruggerla proprio perchè la continuità della sua esistenza, pe il suo valore simbolico, rappresentava un ostacolo per i fomentatori di discordie.

La storia si dipana con un ritmo incalzante, che non con­sente al lettore di tirare il respiro, quasi da mon­tag­gio cine­ma­to­gra­fico.
Romanzi come que­sto di Custer­lina aiu­tano a capire la sto­ria e realtà che, pur geo­gra­fi­ca­mente vicine a noi, rimangono lon­tane anni luce.
Sono ancora oggi vera­mente pochi quelli che hanno capito cosa sia veramente acca­duto nei Bal­cani e cosa lì stia con­ti­nuando ad acca­dere, nel riac­cen­dersi e nell’evolversi attuale di anti­che osti­lità tra Serbi, Croati, Bosniaci e tra Cri­stiani cat­to­lici, Cri­stiani orto­dossi e Musul­mani, ostilità che - a tratti sedate, come nel momento attuale - rmangono sotterranee e pronte a riaccendersi.
Mano nera, pur sem­pli­fi­cando la com­ples­sità esistente in quei contesti ai fini nar­ra­tivi, getta una luce di com­pren­sione su con­flitti e con­tra­sti ancora vivi.
La nar­ra­tiva di que­sto tipo è straor­di­na­ria per­chè, se ben costruita e docu­men­tata, con­sente di immer­gersi nella sto­ria e venire fuori da que­sto bagno con cono­scenze e idee in più e soprattutto con una forte curiosità a saperne di più. E lo fa meglio di qual­siasi sag­gio.

Alberto Custerlina (Trieste, 6 ottobre 1965) è un insegnante e scrittore italiano. In passato legato al settore dell'informatica, ora affianca la scrittura di romanzi noir alle attività di insegnante e consulente informatico.
È stato finalista 2009 al Premio Camaiore di Letteratura Gialla con il suo romanzo d'esordio Balkan Bang! I suoi romanzi rappresentano un caso particolare nel panorama italiano (lo stesso Custerlina li definisce "Turbo Noir") e sono apprezzati anche per la dettagliata descrizione dei panorami balcanici, di cui l'autore è profondo conoscitore.
Ha un suo sito web personale: http://custerlina.com/

martedì 2 novembre 2010

Nella corsa di lunga lena, traiettorie di vita e destini individuali per pochi attimi si incrociano e poi divergono


Nella nostra vita ci sono traiettorie che s'incrociano e che, a volte, si affiancano per poi divergere.

Correre le maratone e, ancor di più le ultramaratone, espone un po' a questo tipo di esperienza.

Ci si ritrova tutti assieme su di un campo di gara, a volte in poche decine, a volte in centinaia o a migliaia.

Si respira tutti quanti allo stesso ritmo, i cuori battono all'unisono in un'emozionante esperienza di condivisione.

Ognuno, poi, inizia a percorrere la strada data, intento alla conquista del proprio personale traguardo.

Nel corso della via - come del resto accade nei pellegrinaggi - ci si affianca a qualcuno che va al nostro stesso passo e gli si procede accanto per un tempo più o meno lungo.

L'esperienza interiore della condivisione si fa, in questi casi, ancora più forte ed intensa.

A volte si parla, a volte no.

Anche l'esperienza del silenzio è condivisa.

La nostra mente inevitabilmente fantastica sul nostro compagno di via.

Emozioni e curiosità si accendono velocemente e poi svaniscono in dissolvenza.

Poi, il passo di uno prevale su quell'altro, oppure uno dei due viene risucchiato indietro a causa della stanchezza o di un improvviso malessere, mentre l'altro continua ad andare avanti cavalcando la freccia del tempo, al suo ritmo cadenzato come un metronomo.

Quei destini che un attimo prima si erano incrociati, si disincrociano, divergendo.

Forse, con quella particolare persona con la quale si erano pure divisi intensamente dei momenti interminabili e densi (anche senza dover parlare) non ci si incontrerà più per il resto della nostra vita, per quanto si continuino a percorrere senza sosta le vie del mondo.

Eppure, in noi, una traccia - una scintilla - di quell'incontro permarrà a lungo.

Tra i miei cimeli di maratona e di gare cui ho partecipato c'è una foto di grande formato (incorniciata e appesa al muro) scattata all'uscita del Queesborough Bridge (al 25° chilometro della maratona di New York, in occasione di quella che fu la mia seconda esperienza di partecipazione alla maratona della Grande Mela).

Io sono in mezzo a tanti altri e sembra che arranchi di buona lena.

Ci sono accanto a me alcuni anziani, altri più giovani, uomini, donne: siamo tutti intenti in un'esperienza condivisa - compagni di viaggi - tutti con lo sguardo rivolto lontano verso la fine della nostra strada, ma ancora il traguardo è ben lontano ed è meglio non pensarci.

La guardo spesso pensosamente, questa foto, e mi chiedo: Che fine avranno fatto queste persone? Sono ancora vive? Sono morte e se la risposta è sì, come? Quali destini avrà riservato loro la vita?

Tutte domande alle quali non posso purtroppo dare risposte.

Perchè so soltanto di me.

Non di altri.

Il destino ha voluto che in quel particolare momento e in quel luogo noi fossimo lì tutti assieme in un'esperienza condivisa, in un'irripetibile unità di intenti, desideri ed azione.

Ho letto di recente un bel ibro, più che altro un racconto lungo, che parla proprio di questo tipo di esperienza.

Si tratta di Un incontro (del cinese Lin Ychang, per i tipi di Einaudi, 2005) che è la storia di un incontro tra un uomo e una donna, appunto.

Un uomo (Chunyu Bay), ormai anziano, cammina per le vie di Hong Kong, ripercorrendo - mentre si muove lungo quelle strade - le memorie del suo passato, che sente ormai remoto: tanto è cambiato, ma tanti dettagli sono sopravvisssuti all'avanzare della modernità (cosìda indurre in lui un miscuglio di nostalgia e conforto).

Anche una giovane donna (Ya Xing) si ritrova a camminare per le vie della stessa città: lei, invece, è tutta protesa verso il futuro e coltiva una serie di sogni (un po' ingenui, ma pieni di entusiasmo) sul modo in cui si svilupperà la sua vita e sui doni che le sono riservati.

Vivono entrambi nel presente, ma ciascuno dei due segue dei percorsi e ritmi temporali diversi.

Entrambi si trovano ad osservare le stesse cose in maniera speculare (arrivano al punto di incontro ciascuno per vie diverse).

Entrambi si ritrovano per puro caso (il destino?) seduti accanto, gomito a gomito, nel buio di una sala cinematografica.

Ciascuno dei due pensa qualcosa dell'altro, sperimenta curiosità e sente vibrare emozioni.

Poi, alla fine del film, i due si alzano, proseguendo ciascuno per la sua strada.

E' come se i due fossero in movimento lungo due traiettorie diverse che s'incrociano in quell'unico punto.

Eppure, per quanto non sia stata pronunciata nemmeno una parola, l'incontro - per quanto puntiforme - c'è stato e qualcosa si è consumato, con la mediazione dell'esperire comune e condiviso, prima, del camminare per le stesse vie e, poi, dell'osservazione dello scorrere della pellicola cinematografica davanti agli occhi.

Tante volte, questi sono gli incontri della nostra vita.

Incontri muti, eppure densi. Fuggevoli, eppure destinati a durare nel tempo e a radicarsi nel proprio bagaglio di esperienze cruciali.

La storia struggente di un amore non consumato. Il libro, che ha ispirato il film del regista Wong Kar-wai, "In the Mood for Love", segue il percorso di due personaggi nel cuore di Hong Kong. Un uomo e una donna. Un uomo maturo e una donna giovane. Lui, immerso nella memoria, lei, proiettata verso il futuro, sognatrice. Opposti e paralleli, i due percorrono le stesse strade di Hong Kong, incontrano le stesse persone, lo stesso cane nero, la stessa gioielleria, ma tutto ispira loro pensieri e sentimenti rovesciati.

"Visto dall'alto, secondo un procedimento di astrazione progressiva, il diagramma della storia si sviluppa secondo due linee che procedono nel medesimo campo visivo e che arrivano a toccarsi in un punto per poi continuare il proprio tracciato separate" (dalla recensione di Francesco Pettinari su L'Indice).

Il racconto è stato trasposto in film dal regista Wong Kar-wai con l'interpretazione di Maggie Cheung (la donna) e di Tony Leung (l'uomo) con il titolo In the mood for love, con un'interpretazione diversa, eppure al tempo stesso molto aderente: lì, infatti, un incontro fisico, corporale, per quanto fuggente si attiva: ma il senso della storia sotanzialmente non cambia.
Era giorno fatto quando Chunyu Bay si risvegliò e tornò alla realtà. Si stiracchiò, si alzò e andò alla finestra per respirare una boccata d'aria fresca. Il sole del mattino aveva scacciato le tenebre. Fuori dalla finestra c'era un filo per stendere i panni. Un passero arrivò da lontano e si posò sul filo. Dopo un po' un altro passero arrivò da lontano e si posò sul filo. I due si guardarono. Poi spiccarono il volo insieme, uno diretto a est, uno diretto a ovest. (da Un incontro, cap. 42).


La foto, all'inizio, è stata scattata in occasione della 100 km Madrid-Segovia 2010 che ha unito in modo splendida un percorso di pellegrinaggio con la pratica del podismo non competitivo per quanto di lunghissima lena.

mercoledì 27 ottobre 2010

Uomini di Dio: un film sul senso più profondo della fede e insieme manifesto contro i fondamentalismi


Uomini di Dio (Des hommes e des Dieux, di Simon Beauvois, France, 2010) si fonda su di un fatto realmente accaduto nel 1996, in Algeria: sette monaci benedettini, integrati armoniosamente in una piccola comunità algerina,dopo essere stati minacciati, vennero rapiti dalla Jihad islamica e successivamente trucidati. Di essi, dopo qualche tempo dall'eccidio, vennero ritrovate le sole teste.
I film ci mostra questi minuscolo gruppo di uomini che vivono semplicemente (ma intensamente), impegnati nell'alternarsi quotidiano degli atti previsti dalla loro regola fondamentale dell'"ora et labora".
Vivono per Dio, per la preghiera - che con l'ausilio del canto si eleva al cielo - e per la comunità.
Uno dei monaci è medico e con i pochi farmaci disponibili, indeffesamente malgrado l'età avanzata e gli acciacchi, si occupa della salute della piccola comunità di Algerini che sono rimasti a vivere lì, proprio perchè hanno nel monastero un punto di riferimento ("...voi siete il ramo e noi gli uccelli che si fermano a riposare su di esso. Dove andremmo noi, se il ramo se ne va?, chiede una donna della comunità ai monaci perplessi sul da farsi di fronte alle minacce ricevute).
Nel fare dei monaci vige il rispetto: a loro non interessa convertire altri alla loro fede, semmai occuparsi convivialmente del prossimo, e con amorevolezza e dedizione. Dio è per tutti, senza distinzione.
Il film è toccante, anche perchè nel momento del pericolo, i monaci non si offrono come martiri, ma mostrano in pieno le loro debolezze, dubbi, perplessità: poi, alla fine, decidono di restare, perchè la loro missione è lì tra quella gente, in quel luogo. E, andandosene per legittima (e non condannabile) paura, tradirebbero se stessi e il loro voto, prima ancora che la propria fede.
La stessa idea del martirio, in quanto tale, viene ricusata da questi monaci che esprimono senza remore e senza vergogne la paura di morire, sia pur supportati dal loro profondo e sofferto credo). L'epitome di ciò è nella frase pronunciata dal capo spirituale della piccola congrega: ‎"...non ho paura della morte, sono un uomo libero...".
E' una storia che illustra il valore delle proprie convinzioni (non solo in materia di fede, ma anche e soprattutto umane): e riesce a far ciò, proponendo una rappresentanzione degli "uomini di Dio" molto umana e predicando il valore dell'universalità della fede e della possibilità di una convivenza pacifica di convinzioni religiose diverse, messe in crisi e distrutte dalla cupezza omicida del fondamentalismo più estremo.
In questi tempi di odio forsennato, c'è bisogno di film come questi.
Non a caso il titolo originale del film è "Des hommes e des dieux", proprio per sottolineare il valore dell'universalità della Fede e di tutte le fedi e di tutti i credo, che non devono essere fine ultimo e assoluto (perchè così sevono soltanto a tracciare la via del fondamentalismo e dell'intolleranza), ma strumento per affrontare con carità, comprensione ed empatia il mondo e le relazioni con gli altri.

Scheda film
Regia:i Xavier Beauvois.
Interpreti principali: Lambert Wilson, Michael Lonsdale, Olivier Rabourdin, Philippe Laudenbach, Jacques Herlin, Loïc Pichon, Xavier Maly, Jean-Marie Frin, Sabrina Ouazani, Adel Bencherif, Abdelhafid Metalsi, Abdellah Moundy, Farid Larbi, Benhaïssa Ahouari, Idriss Karimi, Abdellah Chakiri, Farid Bouslam, Maria Bouslam, Soukaïna Bouslam, Hamid Aboutaieb, Saïd Naciri, Rabii Ben Johail, Fadia Assal, Zhour Laamri, Olivier Perrier
Titolo originale: Des hommes et des dieux.
Drammatico, durata 120 minuti.
Francia 2010. - Lucky Red
Uscita venerdì 22 ottobre 2010


Il trailer

lunedì 25 ottobre 2010

Cercatori




Un uomo passeggia con il suo cane, al mattino presto.

Raccoglie bicchieri di ogni tipo abbandonati fuori da pub, bar e drinkerie e altri oggettini senza valore

Che, però, ne acquistano, in quanto "trovatelli", come fossero orfanelli da adottare con sollecitudine.


Un uomo

In un giorno di sole autunnale se ne sta immerso sino alla vita nell'acqua bassa vicino alla spiaggia,

con indosso una muta umida da sub vecchia e stinta e un buffo cappidduzzu di lana rossa sulla testa

Cerca, con l'ausilio di un metal detector,

gli oggetti di metallo persi dai bagnanti nei mesi estivi

Ha una cuffia con auricolari giganteschi poggiati sulle orecchie

per captare le variazioni rivelatrici del bip

Con questo tocco sembra un Bug Bunny buffo al bagno, con la muta addosso

Eppure è serio, così profondamente immerso nella sua cerca


Una suorina

Con abito quotidiano, grigio e bianco, i cappelli coperti dal velo,

cammina al mattino lungo una strada di città, deserta

Forse per sbrigare una commissione o recarsi a pregare nella chiesa che si staglia poco più in là

Panchine ad intervalli regolari portano segni rivelatori di bivacchi notturni dei tiratardi del sabato

La suorina si sofferma vicino ad una di esse

La sua attenzione è stata attratta da qualcosa

Si china e si protende verso lo spazio sottostante, ingombro di ogni genere di detriti

Chi sà, forse si aspetta di trovare un rosario abbandonato, un vecchio crocifisso o un'immaginetta sacra

per trarle in salvo e dar loro nuova sacralità riponendole in un'urna o in un sacello

Per lei sono solo queste le cose che veramente contano


Tre cercatori, diversi indubbiamente, ma accomunati da una cosa eguale

Tutti e tre alla ricerca di piccole cose cui danno valore

Più spesso non raccoglierano nulla.

Talvolta riporteranno con sé qualcosa a casa,

cose che per loro avranno un significato, per quel giorno

Sarà la buona sorte, il caso oppure un segno di dio

In ogni caso, un segno di buon auspicio

o anche, come nel caso del cercatore di oggetti di metallo, questione di sopravvivenza


Lontano da qui,

nella mitica Arabia Felix,

ogni giorno uno sceicco depone la sua merda

in uno sfavillante cesso in oro massiccio, circondato dallo sfavillio degli ori della rubinetteria

Nel far ciò, egli dà testimonianza della ben nota equivalenza tra merda e oro.

E' possibile che gli stronzi del nobiluomo, precipitando dentro un WC siffatto,

possano trasformarsi pur essi in oro.

Ma lo sceicco, circondato da tutto quell'oro, non ha nulla da cercare e da trovare.

Tutto quello che vuole ce l'ha, immediatamente.

Ma intanto, giorno per giorno, perde qualcosa di prezioso

Ciò che non potrà mai avere, sarà la benedizione del dio delle piccole cose,

quella benedizione che, in modi diversi, tutti i cercatori del mondo desiderano ottenere e che dà un senso alle loro modeste vite


venerdì 15 ottobre 2010

Aracne davanti a Scilla e Cariddi


E questo ragno minaccioso che ci fa qui?
Con il favore delle tenebre aveva deciso di fare una lunga scarpinata (sempre lunga, malgrado le sue otto zampe) attraverso un deserto, ma proprio quando stava per arrivare al suo porto sicuro (un arbusto su cui finalmente in tutta calma avrebbe potuto tessere la sua tela) si è dovuto arrestare guardingo davanti a due imprevedibili Scilla e a Cariddi di guardia proprio sul punto del suo passaggio.
Scilla e Cariddi si sono protesi in avanti per osservarlo e misurarlo.
Non si sa chi fosse più spaventato, se lo fossero i due guardiani giganteschi o il piccolo ragno.
Il ragno se ne è stato immobile per un bel po', come morto.
Poi, improvvisamente, cogliendo un attimo di distrazione dei due guardiani è scomparso, volatilizzandosi.
Prima c'era e poi non c'è stato più...
In verità, Scilla e Cariddi erano molto timorosi di poter essere tarantolati...
Che lario incontro, però!

Scilla e Cariddi - Sullo scoglio situato nello Stretto di Messina viveva una creatura mostruosa, chiamata Cariddi. Era la figlia della Terra e di Poseidone e, durante la sua vita di donna, aveva mostrato grande voracità. Quando Eracle attraversò lo Stretto con le mandrie di Gerione, Cariddi divorò gli animali.
Zeus la punì colpendola con uno dei suoi fulmini e la fece precipitare in mare, trasformandola in mostro: tre volte al giorno Cariddi ingurgitava masse d'acqua con tutto ciò che in essa si trovava, e così inghiottiva le navi che si avventuravano nei suoi paraggi, poi vomitando l'acqua assorbita.
Quando Ulisse transitò la prima volta per lo Stretto, sfuggì al mostro ma, dopo il naufragio provocato dal sacrilegio contro i buoi del Sole, fu aspirato dalla corrente di Cariddi.
Ebbe tuttavia la furbizia di aggrapparsi a un albero di fico, che cresceva rigoglioso all'entrata della grotta in cui si nascondeva il mostro, cosicché, quando ella vomitò l'albero, Ulisse poté mettersi in salvo e riprendere la navigazione. A un tiro d'arco da Cariddi, sull'opposta sponda dello Stretto, un altro mostro attendeva
al varco i naviganti. Era Scilla, nascosta nell'antro profondo e tenebroso, che si apriva nella roccia liscia e levigata, inaccessibile ai mortali.
A questo nome si ricollegano due distinte leggende. Secondo la prima, Scilla è una figura femminile, figlia di divinità diverse a seconda delle differenti versioni, circondata da sei cani feroci, che divorano tutto ciò che transita nei paraggi.
Anche la storia di come Scilla sia diventata un mostro cambia nelle diverse tradizioni.
Nell'Odissea Omero racconta come Glauco, innamorato di Scilla, rifiutasse l'amore della maga Circe. Costei, per vendicarsi della rivale, mescolò erbe malefiche all'acqua della fonte nella quale Scilla si bagnava. Il corpo della giovane fu trasformato, cosicché dal suo bacino spuntavano i cani
mostruosi.
Secondo altre versioni, Circe aveva trasformato la giovane su istigazione di Anfitrite, innamorata di Poseidone, che le aveva preferito Scilla. Oppure che Scilla era stata punita da Poseidone, per essersi innamorata di Glauco.
Ancora una versione diversa attribuisce la morte della giovane allo stesso Eracle: quando questi transitò nella zona con i buoi di Gerione, Scilla ne mangiò alcuni; ne seguì un combattimento e Scilla fu uccisa.
Secondo la seconda leggenda, Scilla era figlia di Niso, re di Megara. Questi restava invincibile fintanto che avesse conservato in testa un capello d'oro (o di porpora). Quando la Città fu assediata da Minosse, che voleva vendicare l'uccisione di Androgeo, Scilla s'innamorò di lui e, per farlo vincere, tagliò il capello del padre, dopo essersi fatta promettere da Minosse che l'avrebbe sposata, se ella avesse tradito la propria città per amor suo.
Minosse infatti sconfisse Niso ma poi, scoperto con quale crimine Scilla lo aveva aiutato, inorridito la legò alla prua della sua nave e la fece annegare. Gli dei si impietosirono e la trasformarono in airone.

Aracne è una figura mitologica narrata da Ovidio nelle "Metamorfosi", ma che pare sia d'origine greca.
Aracne viveva a Colofone, nella Lidia. La fanciulla, figlia del tintore Idmone e sorella di Falance, era
abilissima nel tessere, tanto girava voce che avesse imparato l'arte direttamente da Atena, mentre lei affermava che fosse la dea ad aver imparato da lei. Ne era cotanto sicura, che sfidò la dea a duello. Di lì a poco un'anziana signora si presentò ad Aracne, consigliandole di ritirare la sfida
per non causare l'ira della dea.
Quando lei replicò con sgarbo, la vecchia uscì dalle proprie spoglie rivelandosi come la dea Atena, e la gara iniziò.
Aracne scelse come tema della sua tessitura gli amori degli dei; il suo lavoro era così perfetto ed ironico verso le astuzie usate dagli dei per raggiungere i propri fini che Atena si adirò, distrusse la tela e colpì Aracne con la sua spola.
Aracne, disperata, si impiccò, ma la dea la trasformò in un ragno costringendola a filare e tessere per tutta la vita dalla bocca, punita per l'arroganza dimostrata (hýbris), nell'aver osato sfidare la
dea.

 
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