giovedì 26 agosto 2010

La raccolta differenziata dei rifiuti urbani solidi e le ambiguità dell'identità di genere


La raccolta differenziata, a volte, pone alla mente ancora non allenata dei cittadini diligenti dei quesiti di difficile risposta.
Dove collocare questo o quel tipo di rifiuto urbano solido? In quale categoria concettuale e, dunque, nella ricaduta pratica, in quale contenitore?
Si tratta di materiale organico oppure è altro? E se c’è una mescolanza di materie e di fluidi cosa fare? Se all’organico si mescolano carte ed altri involucri, l’organico non è più tale e dovrà seguire i percorsi dell’indifferenziato. Analogamente se il materiale cartaceo è imbevuto d’olio o di altri fluidi, non può essere più catalogato nella “carta” e diventa altro.
Unclassified: è il destino di tutto ciò che non può essere catalogato in una casella già precedentemente costituita.
L’impossibilità di catalogare è il limite di tutti coloro che si dedicano alla costruzione ossessiva di possibili liste e che perseguono il folle obiettivo di catalogare il mondo: ci sarà sempre qualcosa che sfugge alle regole classificatorie stabilite.
Per esempio, tornando alla raccolta differenziata, non si è ben chiarito ancora se anche foglie morte e rami secchi dovranno seguire i percorsi differenziati dei rifiuti solidi urbani (ricadendo, presumibilmente, in tal caso nella categoria dell’”organico”).
Per il momento, nell'incertezza della catalogazione, gli operatori ecologici (alias spazzini) le lasciano per terra.
Tutto ciò parrebbe una banalità, mentre in realtà apre una questione di estremo interesse nella relazione epistemica con la realtà.
Porto un esempio.
Anni addietro, in una Divisione di Neurologia di Palermo, adibita al trattamento disassuefattivo dei tossicodipendenti venne ricoverato uno che, oltre ad aver sviluppato una marcata dipendenza dall’eroina, era anche trans.
Di fronte all’ambiguità di genere (il tizio era di fatto un "ibrido", perché – grazie ad un trattamento con estrogeni - aveva un seno abbastanza ben sviluppato, ma nello stesso tempo pene e testicoli - che, nel regime di ricovero, non potevano essere occultati), il personale preposto decise di ricoverarlo, per attuare la disassuefazione, in una "terra di nessuno": una piccola stanzetta al limite tra il reparto maschile e quello femminile.
Una volta definito il luogo della degenza come non-luogo, rimaneva da stabilire chi del trans se ne dovesse occupare: gli infermieri (uomini) adibiti al reparto maschile o le donne (adibite al reparto femminile)?
Qui, l'incertezza si trasformò in autentico impaccio operativo: chi lo avrebbe dovuto lavare e accudire, visto che aveva attributi dell’uno e dell’altro sesso?
Una questione indubbiamente spinosa…
Il tizio se ne stava al buio nella sua stanzetta e le visite che riceveva erano molto rade, sia parte degli infermieri maschi sia da parte delle infermiere, e soprattutto veloci: insomma, nessuno desiderava soffermarsi più a lungo del necessario e palese era l’imbarazzo di tutti, perché il confronto metteva dura prova consolidate incertezze.
Le menti dei più amano confrontarsi con confini netti e del resto, a quei tempi, ancora il Trans (inteso come categoria a s[ stante) non era entrato nelle grazie di politicanti alla ricerca di svaghi personali dubbi e discutibili, come è accaduto nel caso Marrazzo che ha aperto uno scenario inquietante sulla vita "privata" di personaggi pubblici e sulle speciali attrattive che, evidentemente, posseggono i "viados", forse proprio per l'ambiguità di genere di cui sono portatori.
Anche le comunicazioni verbali erano scarne e stringate: come rivolgersi al trans, al maschile o al femminile? Andava considerato come un “lui” o come una “lei”?
Tutti lo andavano a trovare malvolentieri, anche perché man mano che trascorreva il tempo il suo aspetto si faceva decisamente metamorfico e una barbaccia ispida e scura cominciò a ricoprirgli le guancie, facendolo transitare verso una parvenza di aspetto maschile.
A questo punto, la natura l'ebbe vinta e, rassicurati da questa florida crescita di peli, gli infermieri poterono più facilmente sorvolare sul gonfiore delle tette e poterono esperire nei confronti del poveretto una certa dose di solidarietà maschile, anche se ogni tanto faceva capolino il pensiero che il trans altro non fosse che un esemplare di “donna barbuta” sfuggito al freak show di un circo Barnum di passaggio.
A causa delle difficoltà classificatorie, il tizio si era fatto l'astinenza dall'eroina praticamente da solo e senza solidarietà empatica da parte dei curanti...
Dalle foglie morte nella raccolta differenziata ad ambigua appartenenza di genere: questa mia esposizione rappresenta un tipico caso di deriva del pensiero, in cui tuttavia il percorso associativo seguito mostra in modo evidente come il nostro modo di ragionare e di conoscere il mondo è per schemi rigidi.
Gli oggetti (e gli esseri) ambigui rompono le scatole, perché non si sa mai come collocarli (anche se, in fondo, affascinano)…
Eppure, in natura, di simili esempi ne esistono diversi: prendiamo l’ornitorinco, tanto per menzionare uno di questi esseri che presenta la coesistenza di caratteri tipici di specie diverse e molto dissimili le une dalle altre. Per catalogarlo, è stato necessario creare nel regno animale - per lui e per alcune altre specie – una categoria a parte.

lunedì 23 agosto 2010

Orlando e la durlindana: tenzone d'amore


Orlando paladino
tornando dalla guerra col feroce Saladino
s’inerpicò
in groppa al fidato cavallo

sino ad un erto castello
non lontano da Roncisvalle
Giunto ai piedi delle mura
udi grida imploranti e alti lai d’una fanciulla
che, per l’armoniosa voce, suppose bella

Aita, aita! A me l’arme del prode cavaliere!
Con colui che mi salverà dal perfido drago
io giacerò senza riserva alcuna!
gridava ossessa la pulzella

E Orlando, a quelle strida,
fermò il suo destriero
ratto balzando giù di sella…

Deh! Dio voglia che sia la mia pulzella!
mormorò con voce roca
e, ciò detto, prese ad inerpicarsi
su per le mura della turrita dimora
seguendo appigli e provvidi anfratti
sino al sommo d’un’alta torre
e qui, per una bifora,
sguisciò in oscuri penetrali

Poscia, guardingo ei si mosse
guatando a destra e a manca
pronto alla tenzone,
sino a che la fanciulla scarmigliata dai bei capelli neri
non si precipitò fuori da recondito anfratto,
con alte grida e gemiti di paura,
avvinghiandosi al forte abbraccio del suo salvator cortese

Deh, salvami, prode cavalier!

Deh, Angelica mia, le rispose colui,
io son Orlando
per mari e monti la mia pulzella perduta ho cercato
financo sino alla luna volai
con un destriero alato
per te trovare
ed ora eccoti qui, stretta alle mie braccia.

Sì, son io, mio prode Orlando,
son proprio io la tua Angelica,
fece la pulzella,
quella per cui tu uscisti di senno,
quella che ovunque tu cercasti,
ma son qua adesso
e tu mi trarrai in salvo
dal maleficio del drago e della perfida Morgana!

E i due corpi per anni esiliati
anelanti si stringevano l’uno all’altro,
pilotati da selvatica e corrisposta passione

Cos’è questa cosa che mi preme sul ventre,
fece Angelica ad Orlando,
deh, dimmelo! Nulla a me asconderai!

È la mia fidata durlindana,
fece il cavalier,
quella di cui giammai io a meno farei
è l’arma con cui ho lottato contro il feroce Saladino
e l’intero esercito dei suoi accoliti,
l’arma di ferro ben temperato
che mulinando vorticosa, senza pietà,
ha tagliato teste braccia e gambe di infedeli.
Toccala se vuoi!
Suvvia, non esitare e apprezzane la ferrigna consistenza!


E, così dicendo,
la mano di Angelica
condusse sino allo spadone

Ma qui Orlando, vilmente.
la dolce fanciulla trasse in inganno:

la vera Durlindana ascosa era rimasta dabbasso
ben inguainata in groppa al destriero
Ben altra durlindana era codesta,
anche questa, invero, atta a sbaragliare
ma soltanto nobildonne e pulzelle,
piegandole al suo volere,
ad arare ventri,
a dispensare inebrianti piaceri

Presto, in un attimo, il drago fu dimenticato,
armi e gesta del pari,
e sol rimasero gli amori

Angelica, estasiata da quel primo contatto
con la durlindana cotanto possente,
senza indugio la tirò fuori dalla guaina
e, con impetuoso ardore
volle subito iniziar la singolar tenzone,
sempre apprezzandone
al tocco e la durezza e il ferrigno spessore.

Fu così che il drago malefico e la perfida Morgana
fossero per alcun tempo mortificati,
ma al termine della tenzon d'amore
- così narrano le storie -
Orlando rinvigorito
contro essi tosto riprese a guerreggiare
con l'ausilio dello spadone


(da Wikipedia) - Durlindana, Durindana, Durindarda,Durendala o Durendal è, secondo la tradizione del ciclo carolingio, la spada di Orlando, paladino del re dei franchi Carlo Magno.
La leggenda vuole che la spada fosse stata donata a Orlando proprio dal sovrano.
Invece, nello Orlando Furioso di Ludovico Ariosto si dice che sarebbe stata data al cavaliere da Malagigi (Maugris) e che sarebbe un tempo appartenuta a Ettore di Troia (tuttavia non c'è menzione del nome della spada nell'Iliade).
Nella Chanson de Roland si dice che la spada conteneva un dente di San Pietro, il sangue di San Basilio, i capelli di San Dionigi e un pezzo di vestito della Vergine Maria.
Nel poema si narra che il conte tentò di distruggere la spada per evitare che cadesse in mani saracene dopo l'agguato di Roncisvalle, generando con l'impatto la cosiddetta Breccia di Orlando, nei Pirenei. Durlindana, però, non si ruppe e allora Orlando la lanciò in un fiume avvelenato. Secondo il folclore, la spada esisterebbe ancora e sarebbe conservata a Rocamadour, in Francia.
Il termine, d'etimologia sconosciuta, parrebbe derivare dal latino durus (duro).

giovedì 19 agosto 2010

Morte tra i ghiacci: una nuova avventura con il marchio della premiata ditta Preston-Child


Lincoln Child e Douglas Preston sono più conosciuti come coppia di scrittori, esattamente come il duo Fruttero-Lucentini di casa nostra, I due, in tandem perfettamente coordinato, compongono delle belle storie (in genere al ritmo di una all'anno) di marca avventurosa (con una combinazione di elementi diversi horror, mistery, SF), molte delle quali sono state trasposte in film (non si può non citare Relic, perchè è proprio dopo aver visto questo film o al cinema o in repliche TV che molti sono approdati al romanzo omonimo da cui era stato tratto, divenendo dal quel momento fan dei due scrittori statunitensi, alla ricerca di tutto ciò - di loro - già pubblicato o di prossima pubblicazione).
Particolarmente intrigante è la serie di romanzi che hanno come protagonista il bizzarro agente speciale dell'FBI Aloysious Pendergast il quale, per alcuni versi, si presenta come una rivisitazione in chiave moderna e lievemente demonica di Sherlock Holmes, con una propensione a farsi "indagatore" dell'occulto.
Da alcuni anni a questa parte, i due hanno preso l'abitudine di pubblicare anche dei romanzi a firma separata: anche in questo caso, uno all'anno.
I loro fan, possono avere così il piacere di leggere non uno, bensì tre romanzi all'anno, della stessa rinomata ditta.
Infatti, dopo una lunga consuetudine compositiva a quattro mani, le differenze stilistiche tra i due scrittori, quando operano da soli, sono poco rilevanti: la cifra stilistica è identica, anche se è diversa la prevalente polarizzazione di interesse sui contenuti. Douglas Preston sembra puntare maggiormente sulla dimensione avventurosa delle sue trame, mentre Lincoln Child cura maggiormente d'occhio l'estrapolazione scientifica dei suoi testi e l’attendibilità degli elementi scientifici che vengono estrapolati nelle sue trame.
Anche quest'ultimo romanzo di Lincoln Child reca lo stesso imprinting di tutti quelli già usciti (inclusi quelli del collega Douglas Preston da solo): si tratta di una bella storia di avventura e mistero con un pizzico di horror esoterico che poi sfocia in un'ipotesi aliena, appena accennata, ma non sviluppata.
Gli ingredienti perché il romanzo possa piacere ai lettori cui piacciono questi ingredienti fondati su una base di attendibili spiegazioni scientifiche ci sono tutti: c'è la bestia intrappolata nei ghiacci, c'è una concatenazioni di morti atroci ed inspiegabili, c'è un'antica maledizione per difendersi dalla quale gli abitanti del luogo fanno esorcismi, c'è il mistero di ciò che è accaduto decenni prima nella base artica dove si svolgono i fatti odierni e del perché una misteriosa sperimentazione sia stata abbandonata del tutto e poi secretata nei file top-secret, ci sono claustrofobici sotterranei.
Fatte le debite differenze, tuttavia, il romanzo è una ripetizione di altri già letti e non c'è nessuna originalità. Peraltro, i lettori di genere vogliono proprio questo: muoversi in un contesto che è loro familiare nel quale potere cogliere piccole differenze,.avendo a disposizione in altri termini uno scenario in cui il già noto e il conosciuto (e per alcuni versi prevedibile) si mescoli con quel tanto che basti di sorpresa e di novum atti a generare meraviglia e curiosità.
Ma, in ogni caso, anche questo romanzo - per quanto "seriale" è pur sempre una buona porta d'accesso per cominciare ad esplorare l'universo narrativo dei due scrittori statunitensi (che, per inciso, hanno la passione per l'Italia, dove – nel cuore dei colli senesi, risiedono per diversi mesi ogni anno).

Questa la sintesi della storia nel primo risguardo di copertina.

Doveva essere una spedizione di routine, quella dello scienziato Evan Marshall nel cuore dell'Alaska. Il ghiacciaio del Mount Fear, in lento ma inesorabile scioglimento, sembrava l'ideale per le sue ricerche sui cambiamenti climatici. Ma l'imponente montagna, che i nativi Tunit credono abitata da spiriti della natura vendicativi e intoccabili, riserva all'equipe di Marshall una sorpresa di tutt'altro genere: quando una grossa lastra di ghiaccio si stacca da un fianco, un enorme occhio giallo appare a fissarli. È una spaventosa creatura preistorica, quella che Marshall e i suoi hanno scoperto, un animale finora sconosciuto rimasto per millenni prigioniero dei ghiacci. Un ritrovamento senza precedenti, che accende immediatamente l'interesse del rapace network televisivo che finanzia le ricerche di Marshall. Ma quando, nel buio della notte artica, il corpo della bestia scompare, e intanto vengono ritrovati i cadaveri sventrati di tre membri della troupe, il monito dei nativi risuona finalmente in tutta la sua inascoltata e profetica saggezza: la montagna si è ribellata all'avidità degli uomini, risvegliando da un sonno senza tempo un mostro che doveva restare sepolto nelle sue profondità. E che è tornato per spargere terrore, uccidere e, forse, mettere in discussione per sempre le certezze più radicate.

giovedì 12 agosto 2010

Ne "Il segreto dei suoi occhi", il thriller giudiziario si interseca con una riflessione sull'amore e sulla forza dei sentimenti


Il segreto dei suoi occhi (Juan José Campanella, 2009), di ambientazione argentina, è un thriller giudiziario che, nello stesso tempo, riesce a parlare di altro, presentando in maniera fluida e ben articolata con la vicenda lo sfondo politico dell’Argentina tra gli anni ’70 e ’80 con la svolta autoritaria del Peronismo e i conseguenti abusi polizieschi, assieme al fallimento dell’idealismo di chi lavora per la Giustizia, perché i criminali condannati vengono poi reclutati come manovalanza del regime, e poi, come filo conduttore unico, presenta il tema dell’amore e il modo di rapportarsi con esso.
Benjamín Esposito è un assistente del Pubblico Ministero in pensione.
Dopo una vita passata a rincorrere assassini e delinquenti, decide di utilizzare il tempo libero che ha ora in abbondanza per dedicarsi completamente alla stesura di un romanzo, utilizzando un caso che lo aveva molto colpito più di 25 anni prima.
Si tratta del caso Morales degli anni Settanta, archiviato dalla polizia negli scaffali polverosi dello Stato, giunto ad una sua conclusione con l’identificazione e la condanna del colpevole, ma per Esposito rimasto sospeso in un tessuto di pensieri senza possibilità di scioglimento.
La scelta di quel caso dipende dal fatto che, per lui, sia inestricabilmente collegato con le sue vicissitudini personali e con svolte esistenziali mancate.
Il caso Morale: una giovane sposa era stata stuprata e uccisa brutalmente.
La sua morte lascia il marito, Ricardo Morales, profondamente innamorato, nello sconforto e nella disperazione a macerarsi in un desiderio di vendetta, anche se in apparenza è tranquillo e pacato (ma dietro s'intravede una fredda determinazione).
Dopo una falsa partenza, le indagini vengono riprese e portano all’identificazione e alla cattura di un colpevole che, pur condannato, rimane impunito, perché viene reclutato come solerte esecutore di crimini per il regime.
Esposito, nella sua rivisitazione del passato, lascia riemergere anche l’amore per Irene Hastings, segretaria del Pubblico Ministero, un sentimento coltivato tenacemente, mai dichiarato e, a volte, esplicitamente negato e, soprattutto, mai vissuto.
La scrittura del romanzo è per Esposito l’occasione per rivivere nostalgicamente il passato, per gettare dei ponti con il presente (ritorna a trovare Irene per farle leggere il romanzo e per chiederle un parere) e per interrogarsi sui motivi per cui alcune cose siano rimaste confinate nell’ambito del non detto e mai vissute.
L’elemento catalizzante è la riflessione che si attiva in lui sull’amore totale che Ricardo Morales provava per la giovane moglie uccisa barbaramente e sulla percezione che, dopo aver visto quel sentimento brillare ancora nei suoi occhi, nessun’altra forma di amore avrebbe mai potuto essere tanto profonda ed intensa.
In qualche misura la forza di quell’amore che attraversa intatto quasi tre decenni lo sorprende e lo inibisce, annichilendo la sua stessa capacità di amare (poiché sente che non potrebbe mai essere all’altezza di quel modo di amare sino alle conseguenze più estreme).
Ed è questa percezione che lo fa desistere dallo svelare perfino a se stesso il sentimento che prova per Irene, salvo quando, nel momento degli addii è troppo tardi per fare un passo indietro.
La scrittura del romanzo fornisce ad Esposito l’occasione di tornare ad indagare sul passato, di mettersi di nuovo sulle tracce dei protagonisti del caso Morales per capire quali percorsi di vita abbiano compiuto, ma anche per comprendere meglio se stesso e per ricollocarsi nel presente e capire se deve rimanere ancorato sterilmente ad un passato che può produrre solo nostalgia e dolore, com'è accaduto a Morales, oppure se è ancora in suo potere fare qualcosa per modificare un’architettura degli eventi irrigidita, introducendo nel presente dei cambiamenti e degli elementi di plasticità, tali da riconsentire una ri-partenza, un “resettaggio” dei sentimenti, per così dire.
Scrivere un romanzo sulle proprie vicende passate (quelle che, emozionalmente, ci hanno coinvolto con più forza) è certo una faccenda rischiosa, poiché si mette subito in gioco uno sguardo penetrante su se stessi e impietoso sul mondo dei sentimenti, sulle scelte compiute e su tutto ciò che non è stato detto.
Esposito è alla ricerca di indizi rivelatori: è per questo che, come metodo di scrittura, ha preso ad utilizzare gli stimoli che provengono dall’inconscio, sia in forma di rievocazione allucinatoria del passato, sia in quella di immagini e associazioni proveniente dall’attività onirica.
Risvegliandosi turbato da qualche immagine onirica particolarmente vivida, Esposito trascrive rapide parole su di blocnotes posato sul comodino accanto a lui. E chiave di volta del film e della delicata vicenda di sentimenti è, appunto, proprio quel “Temo” che egli si trova a trascrivere al suo risveglio.
In ogni parola ne possono essere contenute molte altre, ma negazione e rimozione fanno la loro parte e, quindi, ciò che appare (il frutto di un mascheramento), non è ciò che è. E inoltre ciò che è voluto e fortemente desiderato, è anche ciò che fa paura e da cui ci si adopera per fuggire lontano. Occorre molto lavoro di chiarificazione con se stessi per giungere alla verità e per fare ripartire una vita che è rimasta per così dire come cristallizzata e bloccata.
Un film straordinario. Indubbiamente meritato l'Oscar come migliore film straniero.
Da vedere.

Il film è tratto dall'omonimo romanzo di Eduardo A. Sacheri (Rizzoli, 2010). Questa la sintesi, contenuta nel risguardo di copertina.
Fine anni Sessanta. Benjamin Chaparro, giovane funzionario incastrato nella cancelleria di un tribunale di Buenos Aires, assiste alle indagini frettolose, approssimative e tutt'altro che limpide sull'uccisione di una giovane donna. Venticinque anni dopo, ormai pensionato, Benjamin ripercorre la storia delle ricerche e della privata caccia all'assassino che, dopo la chiusura ufficiale del caso, lo hanno visto protagonista insieme a Ricardo Morales, marito della vittima. Questo doloroso scavo nel passato gli consente di rivivere l'amore mai dichiarato per Irene - giudice nello stesso tribunale in cui lavorava all'epoca dei fatti - ma lo costringe anche a fare i conti con i tormentosi sensi di colpa legati alla morte di un amico, e soprattutto lo porta a ricomporre gradualmente il puzzle dell'omicidio insoluto. Un noir di grande atmosfera, un percorso nella memoria individuale e in quella collettiva di un'Argentina sprofondata nella violenza politica.

mercoledì 11 agosto 2010

Jack London: uno scrittore tuttora attuale, modello di vita e maestro della narrativa nordamericana


Jack London (1876-1916) è indubbiamente uno dei scrittori della letteratura nordamericana e mondiale, se vogliamo, che – a causa dell’imperante cultura crociana – da noi in Italia è stato confinato quasi esclusivamente al territorio della letteratura per ragazzi.

Invece, lo si deve considerare un autore capostipite di tutto un filone di percorsi culturali propri della modernità.

Da piccolo e, poi, da adolescente, mio padre - sempre con l'idea di stimolare le mie curiosità e di trasmettermi le sue passioni, mi andava passando i romanzi di Jack London,. Si trattava di edizioni povere del dopoguerra della casa editrice Bietti, in pagine pesanti e ingiallite, come Il lupo dei mari, Radiosa aurora, Jerry delle isole, Il richiamo della foresta, Zanna bianca, La piccola signora della grande casa (questo romanzo era stato suo da giovane e me lo fece anche rilegare, perché lo potessi leggere senza che le pagine sciolte si disperdessero da tutte le parti). Altri li comprai io: vecchi residui remainder di una collana storica della Sonzogno: piccoli volumi brossurati con una robusta copertina di cartoncino rosso e sovraccoperta in quadricromia.

Innanzitutto, Jack London fu uno che non scrisse di avventura e di viaggi stando confinato nella calma ovattata del proprio studio di scrittore, ma fu uomo d'azione, della strada e dei grandi spazi aperti, per alcuni versi un uomo della "frontiera" (nel senso molto americano del termine), proteso alla sua esplorazione e conquista.

Visse molto sulla strada, spostandosi di continuo ed accettando di fare i mestieri più strani e disparati. Per un breve periodo di tempo fece anche il pugile, esperienza di cui poi scrisse in numerosi racconti. (La sfida e altre storie di boxe, Newton Compton o del recente La classica faccia da pugile, 2010 Mattioli 1885).

Ma fece anche il mestiere del marinaio, fu contadino, visitò il Grande Nord e lì lavorò a lungo (Yukon, Klondike) come cercatore d’oro, viaggio in lungo in largo e in largo per gli States, diventò socialista e si batté attivamente per questa causa, ebbe un’esperienza di dedizione all’alcool: ogni sua esperienza si tramutò in racconto, romanzo, saggio, memoria diaristica.

Jack London si pose come punto di riferimento delle generazioni successive sia come modello di vita - quello stile del vivere “pericolosamente” (“strenously”) e “al limite” sposato ed amplificato al massimo da Theodore Roosevelt, 26° Presidente degli Stati Uniti) con il suo anticonformismo, per la sua passione per la caccia e per la sua vocazione a essere sempre in prima linea nelle situazioni difficili e pericolose - sia come modello da emulare di scrittore e giornalista (visto che molte delle sue esperienze sono appunto sovrapponibili a quelle dell’”inviato speciale” come è possibile intenderlo nel senso più moderno.

Ha lasciato un solco profondo nella successiva letteratura nordamericana. Ernest Hemingway lo prese a modello, nella sua passione per le esperienze pericolose, la caccia, la corrida, muoversi in giro per il mondo sui più disparati teatri di guerra, per non parlare di John Steinbeck con il suo grande affresco sui diseredati d’America in viaggio alla ricerca di lavoro, mentre Jack Kerouac lo emulò per quanto concerne la realizzazione di un vita in continuo movimento sulla strada, “on the road”.

Ma seguendo le tracce di London si può arrivare sino agli autori più attuali e, perfino in Cormac McCarthy con la sua vocazione a descrivere i grandi spazi aperti e i maestosi scenari naturali degli stati USA al confine con il Messico, in cui si svolgono vicende di uomini piccoli ed insignificanti; oppure nella narrativa d’anticipazione moderna e soprattutto in quel filone definito utopico e/o sociologico, per non parlare poi dell’influenza straordinaria di alcune opere non catalogabili eppure di grande impatto e ricche di intuizioni come l’affascinante “Il vagabondo delle stelle” e altri in cui, sviluppando quasi da “precursore” alcuni temi propri della narrativa d’anticipazione, riversa le sue convinzioni in un mondo migliore e più giusto permeate della sua fede nel socialismo.

E’ stato uno dei gli autori americani più tradotti all’estero: da noi un po’ meno, perché, come dicevo prima sino ad un certo punto, le scelte editoriali si limitavano a quelle opere che venissero ritenute più idonee all’infanzia e all’adolescenza, il più delle volte in versione ridotta.

Facendo un giro in internet si nota che, oggi, invece c’è un grande revival di proposte editoriali (il più delle volte promosse dalla piccola editoria indipendente) di testi brevi ancora poco conosciuti in nuove traduzioni.

Tra le ultime cose di Jack London esce La strada. Diari di un vagabondo (per i tipi di Castelvecchi, 2010), grazie ancora una volta a Davide Sapienza che con la sua passione per Jack London ci sta facendo riscoprire ed amare questo geniale scrittore. Questa volta tocca alle avventure di Jack London da giovane, quando da vagabondo (hobo, più che homeless) saltava sui treni per vivere l'avventura di attraversare gli Stati Uniti da est a ovest e viceversa, con l'unico obiettivo di non essere "affossato", cioè fatto scendere dai treni da frenatori, macchinisti, vigilantes o poliziotti.

Più che una storia di cammino, questi Diari sono una storia di folli corse per salire sui treni, per buttarcisi giù, per scappare, ma anche una storia di pasti elemosinati, di un esercito straccione di vagabondi che attraversa l'America, di giorni in carcere.

Il testo principale contenuto nel libro è un scritto elaborato da London per Cosmopolitan molti anni dopo aver fatto il vagabondo e pubblicato a puntate.

Ma il libro contiene anche altro: gli appunti grezzi del London vagabondo (inediti: Il vagabondo), utili per capire il passaggio dalla realtà alla scrittura.

Questa parte in particolare è di grande interesse storico e sociologico.

Mentre gli Stati Uniti della rivoluzione industriale e del nascente imperialismo costruivano l'immagine patinata e vincente del "sogno americano", uno scrittore dava voce agli angoli più bui del nuovo continente, mettendo nero su bianco - accanto alla vita dei barboni, dei disoccupati e dei diseredati - le contraddizioni di un sistema in cui il benessere di pochi veniva pagato con la povertà di molti.

È in questo modo che, tra il 1906 e il 1907, Jack London scrive "La Strada": nove capitoli di una saga a cui il padre di capolavori come Zanna Bianca e Martin Eden dava il nome di "vagabonlandia".

La Strada non è soltanto il libro che anticipa di mezzo secolo On the Road di Kerouac e che, con il passare del tempo, alimenterà la poetica di scrittori come Steinbeck (Furore) e Orwell, ma, nella versione curata da Davide Sapienza, fornisce le coordinate di un percorso artistico ed esistenziale ancora poco conosciuto.

Per completare la "vagabonlandia" di London, infatti, questa edizione raccoglie oltre all'inedito "Il diario del vagabondo" anchei due racconti Come sono diventato socialista e Principessa, quest’ultimo una vera e propria “chicca”: uno degli ultimi racconti, scritto da London poco prima di morire (a 40 anni!) e pubblicato postumo.

Nel complesso, il volume rappresenta il tributo di un grande viaggiatore all'arte di (soprav)vivere alla giornata.

L’interesse per Jack London si evidenzia anche nel fatto che proprio in questi Marco Paolini sta dando una rilettura di alcuni testi londoniani, nello spettacolo Uomini e cani che narra di uomini e di cani alle prese con il freddo dello Yukon, del rapporto tra uomini e natura, di senso del limite e di lotta per la sopravvivenza, ispirandosi al racconto di Jack London "To build a fire", nell’originale traduzione dello scrittore Davide Sapienza (Mattioli 1881).

Si tratta di un testo che gli amanti della montagna dovrebbero conoscere, nelle due versioni, quella con finale ottimista, e quella scritta molti anni dopo, più matura, con finale più tragico.

Per riflettere sui pericoli della montagna, vale più di mille raccomandazioni o di manuali di sicurezza in montagna, perché parla al nostro istinto di sopravvivenza. Per ora Paolini ha rappresentato solo due volte lo spettacolo, una volta in Val di Fassa per i Suoni delle Dolomiti, un'altra in Val Clusone. In entrambe le sedi, lo spettacolo, molto in linea con la poetica di Jack London prevedeva un avvicinamento a piedi. E c’è da sperare che il progetto giri l'Italia!

lunedì 9 agosto 2010

Finisce in tragedia il Campionato del mondo di sauna: una riflessione psico-sociologica


Occorre interrogarsi sul senso e l'utilità di certe tipologie di competizioni sedicenti sportive che perdono, di fatto, qualsiasi dignità di sport, per diventare puro azzardo e rischio.
Colpisce indubbiamente la notizia che, al culmine del Campionato del mondo di sauna, in Finlandia (nella città di Heinola, 135 km a nordest di Helsinki), giunto alla sua 13 ^edizione, sia morto uno dei due finalisti (il russo Vladimir Lazyzhenskiy), mentre l'altro (il finladese Timo Kaukonen) è rimasto gravemente ustionato ed è ancora ricoverato in ospedale in prognosi riservata.
Questa la notizia.
Un russo è morto ieri durante la finale dei campionati del mondo di sauna in Finlandia, dopo aver trascorso sei minuti nella soffocante temperatura di 110 gradi centigradi. "Dopo questo incidente abbiamo deciso che il campionato è finito", ha detto Saija Jappinen, segretario culturale della città di Heinola all'agenzia Reuters, annunciando la fine della manifestazione.
I campionati mondiali di sauna si sono tenuti sinora 12 volte a Heinola, città che si trova a circa 138 chilometri a nordest della capitale Helsinki, in Finlandia. La singolare competizione consiste nel resistere il più a lungo possibile in una sauna riscaldata a 110 gradi.
Decine di concorrenti (più di 130, provenienti da tutte le parti del mondo) hanno partecipato alla competizione e alla fine si sono ridotti solo a due, ma sei minuti dopo l'inizio della finale i giudici hanno notato che qualcosa non andava con i campioni rimasti: il russo Vladimir Lazyzhenskiy e il finlandese Timo Kaukonen. Entrambi sono stati portati in ospedale nella città di Lahti, dove Ladizhensky è morto poco dopo l’arrivo. Kaukonen, che ha vinto il titolo lo scorso anno, gravemente ustionato resta ricoverato in ospedale. Gli organizzatori del campionato hanno annunciato in un comunicato pubblico di aver compiuto tutte le procedure di sicurezza. “Abbiamo seguito tutte le regole e vi era abbastanza personale medico. Inoltre, tutti i concorrenti devono iscriversi all’evento, con un certificato medico che attesti il loro ottimo stato di salute”, ha detto il direttore dell’evento, Ossi Arvelo.
La polizia locale tuttavia, ha avviato un’indagine sul luogo sta specificatamente indagando sulle cause della morte di Lazyzhenskiy per individuare eventualità responsabilità penali.Gli organizzatori dell'evento hanno fatto intendere che probabilmente il campionato non si farà mai più.

Se non fosse per il dramma di due vite umane, una portata a termine e l'altra gravemente compromessa, la notizia avrebbe una sua qualità indubbiamente demenziale.
Chi sano di mente, potrebbe sottoporsi per il più lungo tempo possibile, al limite della ressitenza fisiologica o superandola, al micidiale effetto del caldo umido, spinto al massimo?
Qualsiasi competizione in qualsiasi disciplina sportiva esprime in forma sublimata il tentativo dell'uomo di superare i propri limiti, ma sempre nenell'ambito dell'agone dell'esistenza, come correre più veloce, saltare più in alto, resistere più a lungo nella corsa di lunga durata o nel nuoto: tutte attivtà funzionali, in qualche misura, all'impegno nella caccia o nella guerra, oppure - andando ancora più indietro nel tempo, all'origine dei tempi - alla capacità di sopravvivenza in un mondo fondamentalmente ostile ed irto di pericoli.
Dare un simile valore alla Competizione di sauna, farne un Campionato del Mondo, è davvero incomprensibile: spostando i termini, si potrebbe ipotizzare allora una gara di resistenza nello stare a bagno in un grande calderone pieno di acqua portata all'ebollizione, oppure nel giacere su di una graticola arroventata, oppure nel camminare il più a lungo possibile su di un letto di braci ardenti.
Come leggere simili cimenti?
Prove fachiresche ed insensate, scuola di resistenza alla tortura, propensione masochistica, algolagnia, oppure iniziazione a forme di superominismo becero e idiota?
Non saprei.
Penso che chiunque debba essere lasciato libero di mettersi alla prova se vuole imparare a resistere al dolore e alla sofferenza, a cimentarsi in prove di coraggio, a tentare riti ordalici: ma nel suo privato.
Molti possono ricordarsi che, da ragazzi, si infliggevano piccole sofferenze (pizzicotti a sangue, punturine di spillo, aghi traforanti la pelle), per capire quale potesse essere il proprio limite al dolore e, a poco a poco, imparare a forzarlo., ma anche per "temprarsi".
Una sorta di mitriditasmo al dolore, si potrebbe dire.
E questo fa parte dello sviluppo psicologico e viene a colmare il vuoto - in alcuni casi - di quei riti di passaggio che un tempo segnavano il transito dall'infanzia all'età adulta senza la moratoria dell'adolescenza, invenzione tutta moderna, e guadagnarsi a pieno titolo il riconoscimento di essere un guerriero di valore, come ci mostra bene una delle sequenze-chiave de "L'uomo chiamato cavallo".
Ci sono quelli che spinti da una vera deformazione psicopatologica del proprio io, si infliggono ferite con armi da punta e da taglio (i cosiddetti "cutter" che sviluppano nel corso del tempo dipendenza dal dolore e che dal dolore traggono piacere, cioè intense scariche di dopamina, utilizzando il linguaggio dei mediatori chimici)
Penso, tuttavia, che sia criminale che un'organizzazione qualsivoglia si faccia carico di ufficializzare simili tendenze che - amplificate dal teatro mediatico - diventano anche occasione di istrioniche propensioni suicide e autolesionistiche.
E' una fortuna che, di fronte alla tragedia, gli organizzatori della manifestazione finlandese abbiano affermato di non essere sicuri se il campionato del mondo di sauna si rifarà ancora negli anni futuri.
Ma è un modo tardivo di chiudere i portoni delle stalle dopo che i buoi sono fuggiti.

Quello sollevato da questo drammatico evento è un tema che meriterebbe ulteriori approfonimenti, considerando anche il peso non indifferente della società dello spettacolo, che favorisce una serie di "stranezze" proprio per trarne alimento nello sviluppo sempre più marcato di quello che potrebbe definirsi un "teatro della crudeltà".
La foto del russo giù deceduto, diffusa dai media, ne è la prova cogente.
.

venerdì 6 agosto 2010

Varney precursore di tutti i vampiri dell’immaginario letterario


Varney il vampiro, che l’editore Gargoyle sta meritoriamente pubblicando per la prima volta in italiano in forma integrale (con traduzione unica e omogenea di Chiara Vatteroni), giunge al secondo capitolo della sua saga con il titolo “L’inafferrabile”.
Il primo volume della saga-affresco dei britannici Thomas Preskett Prest e James Malcolm Rymer, dal titolo “Il banchetto di sangue”, era, infatti, uscito nelle librerie il 25 marzo scorso, con un’introduzione del professor Carlo Pagetti, il terzo “All’ombra del Vesuvio”, arriverà in libreria il 25 novembre 2010, con l’arricchimento di un intervento di Mauro Boselli.
Si tratta certamente di un progetto editoriale ambizioso e d’indubbio interesse filologico, oltre che di un importante approfondimento della conoscenza delle fonti letterarie che hanno portato alla costruzione del vampiro e come personaggio letterario e come icona che vive nell’immaginario dei popoli del mondo occidentale - e non esclusivamente lettori appassionati del genere - dal momento che la figura del vampiro si è anche riversata pienamente nell’iconografia cinematografica.
Com’è noto, si tratta di un’opera che uscì per due anni di seguito – dal 1845 al 1847 – in dispense settimanali illustrate di otto pagine ciascuna, successivamente pubblicata in tre volumi dall’editore londinese Edward Lloyd.
Tali fascicoli erano denominati penny dreadful (terrori da un penny) perché, per la modica cifra di un 1 penny, era assicurata una bella dose di paura, con piena soddisfazione dell’attitudine morbosa dei lettori vittoriani per i quali il forzato pudore nei confronti di alcuni aspetti della vita (tutto ciò che era attinente alla corporeità e al sesso) e la messa al bando d’una serie di altri, ritenuti vergognosi e disdicevoli, comportava che quegli importi energetici che non potevano essere esplicitamente orientati in modo corretto e “naturale” venissero direzionati verso altri campi, in cui il sesso e l’erotismo c’entravano pure, ma in maniera implicita, poco evidente e soprattutto distorta (per una serie di spostamenti e mascheramenti). Non è un caso che in tale periodo andassero a ruba delle macchinette a “gettoni”, nelle quali introducendo una monetina si attivavano delle scene macabre come, ad esempio, l’esecuzione capitale mediante impiccagione.
La diffusione dei penny dreadful fu parte di un più ampio interesse della narrativa come mezzo di acculturazione e intrattenimento in un momento in cui – grazie alla rivoluzione industriale, alle maggiori possibilità lavorative e alla qualità di istruzione superiore più universalmente estesa – era favorita la diffusione della lettura anche a strati sociali cui era prima preclusa, sia in termini di possibilità sia di voglia a cimentarsi con essa.
La forma della narrativa popolare a dispense periodiche venne a costituire in quel periodo un efficace strumento per la crescita d’una cultura di massa, ancora allo stato embrionale: ricordiamo che, proprio in questi stessi anni, veniva pubblicato – sempre in dispense settimanali – il romanzo di Charles Dickens, Dombey e Figlio.
Pur non essendo ancora arrivati al feuilleton vero e proprio (la narrazione a puntate giornaliere) che prende piede, con il rinforzarsi dei quotidiani, come strumento per sollecitare i lettori all’acquisto del giornale, di certo ci stiamo avvicinando a quel tipo di narrativa popolare: basti pensare a I Misteri di Parigi di Eugène Sue, o a I Beati Paoli di William Galt e ai successivi loro cascami, arricchiti dal gusto primo-novecentesco per il macabro, quali le avventure di Fantomas o Rocambole che, spesso storie di mistero e di intrigo, conducono nei sotterranei più cupi di Parigi o di altre città d’Europa (dal mistero puro e semplice, alle bravure ladresche di un Rocambole sino alle efferatezze e alla malvagità di un Fantomas), atte a sollecitare l’interesse morboso e la voglia di brivido dei lettori.
Questo secondo volume di Varney il vampiro – che contiene i capitoli 66-126 della saga – si apre con un’accurata introduzione di Fabio Giovannini – uno dei maggiori esperti italiani di horror e “vampirologia” – dal titolo “Varney il contaminatore”.
Giovannini illustra come l’opera abbia influenzato in modo determinante tutto il successivo immaginario vampirico, di cui traccia l’evoluzione attraverso alcune fondamentali tappe, mostrando come la figura di Sir Francis Varney si ponga come punto di snodo essenziale tra Lord Ruthven (The Vampyre di John W. Polidori, 1819) e il Dracula stokeriano (pubblicato nel 1897) e fornendo agli autori successivi alcuni elementi iconici fondamentali che rimarranno poi come tratti permanenti del personaggio letterario.
Dalla creazione del primo vampiro letterario al Dracula di Bram Stoker decorrono quasi 80 anni, tanto il tempo necessario per il costituirsi d’un robusto immaginario collettivo nel quale potrà innestarsi con facilità – suscitando subito ampio consenso – il personaggio stokeriano, nel quale confluiscono – a rafforzarlo – antiche leggende più antiche e aspetti del folklore mitteleuropeo e transilvano, nonché il fenomeno tutto settecentesco delle “epidemie” vampiriche”.
La diffusione capillare e “popolare” di Varney il vampiro ha dunque un ruolo fondamentale nell’assicurare l’innesto dell’icona del succhiasangue nell’immaginario popolare.
Il saggio di Giovannini, inoltre, è di particolare interesse poiché individua due aspetti più prettamente sociologici sia dell’opera di Prest e Rymer sia, più in generale, dell’iconografia del vampiro, entrambi presenti peraltro nel personaggio delineato nella saga. Innanzitutto, il vampiro letterario con Varney (attraverso la distribuzione di dispense settimanali a basso prezzo e, successivamente, in volume, attraverso le biblioteche itineranti) giunge alle masse uscendo dal fenomeno cult di passatempo per aristocratici annoiati e diventando, invece, prodotto di "consumo" e di intenso interesse per le moltitudini benché proprio esse, nel romanzo, fossero oggetto di strali e rappresentate in modo decisamente poco onorevole, preda di bassi istinti, di scarso controllo e dominate dalle superstizioni.
Il vampiro, in realtà – come fa notare Giovannini – si pone quale insidia per le classi abbienti, con particolare riferimento a una middle class che emergeva proprio allora, fatta di artigiani e commercianti, e che, con il lavoro industrioso era riuscita a distinguersi dalle masse indifferenziate e amorfe, accedendo, per la prima volta, agli strumenti della cultura.
Questo nuovo - e fiero - ceto medio era dunque determinato a dimenticare il passato da cui proveniva, vivendo nello stesso tempo nel costante timore di essere depredato di ciò che aveva faticosamente acquisito: una minaccia proveniente, da un lato, dal volgo (anche se, nella forte gerarchizzazione dei ruoli della società di quel tempo, ciò restava assai improbabile), dall’altro lato, dagli aristocratici, strenui difensori dei propri privilegi, che nutrivano verso gli operosi ceti emergenti invidia malevola, se non disprezzo.
In un certo senso, l’epopea di Varney il vampiro potrebbe leggersi anche come quella dell’aristocratico che vuole acquisire possessi in terra d’Inghilterra e che succhia il sangue alla classe emergente, asservendola ai suoi scopi.
Con Varney, il vampiro diventa anche il “mostro” coltivato dalle masse (per il tramite degli strumenti allora disponibili della narrativa popolare). Così al riguardo Giovannini: Il vampiro… diventa prodotto di massa e per le masse, ma nello stesso tempo aumenta il suo fascino fino ad indurre una vera identificazione da parte dello spettatore-lettore (p. 16).
Leggendo delle sue vicissitudini, il lettore ha la possibilità di venire a contatto, in modo sempre più spinto, con i pensieri e le sensazioni di Varney, compresi gli stati d’animo da lui sperimentati, subito dopo essere diventato vampiro. E qui, l’opera anticipa una serie di rappresentazioni del vampiro nella letteratura e nella cinematografia: dalla superba scena in cui il Nosferatu di Werner Herzog parla della sua stanchezza e della prigione esistenziale in cui da “non morto” è costretto a vivere, all’umanità tormentata di Lestat e dei vampiri “buoni” e conflittuali, dotati di un residuo di coscienza morale, creati da Anne Rice.
Tali elementi sembrerebbero generare in alcuni momenti un atteggiamento quasi compassionevole verso il vampiro, inducendo ad accantonare il giudizio severo che si potrebbe dare delle pratiche amorali dei succhiasangue. Ciò con il supportato della considerazione che chi è diventato tale contro la sua volontà, avrebbe pur sempre la possibilità di esercitare il libero arbitrio per uscire dalla prigione in cui si trova vincolato e dalle sue pratiche coatte, rifiutando la sua intrinseca natura, non nutrendosi del tutto oppure ricorrendo al “male minore”, adottato da alcuni degli epigoni, cioè di bere il sangue di animali (con l’implicito pensiero, tuttavia riprovevole, che questi siano delle forme di vita inferiori e, dunque, sacrificabili).
Questo sentire pietistico ha facilitato nelle generazioni dei lettori più moderni delle avventure dei succhiasangue (il Lestat di Anne Rice, ma anche i vampiri della Meyer) più che sentimenti di ribrezzo e timore, un movimento d’identificazione empatica con quella parte residua di umanità che ancora si evidenzia nei vampiri.
Varney, che contiene in nuce questo aspetto, lo si può considerare, dunque, un precursore.
Il passaggio ulteriore che si riscontra ai giorni nostri è quello di trarre piacere dall’identificarsi con il vampiro in quanto “mostro” (evidente nella voglia di travestirsi o “truccarsi” da vampiro) con il gusto aggiuntivo di fare ciò in un gruppo con il quale si condividono riti e idiosincrasie cult.
E, del resto, sempre di più si passa dalla rappresentazione del vampiro come individuo isolato, condannato a uno stato di eterna “non-morte” e di solitudine estrema, a quella di vampiri che aderiscono a una congrega, a una setta, a un gruppo nel quale si condividono amori, odi, riti sociali e conviviali.
Ed ancora, sottolinea Giovannini, la passione per il vampiro – in alcuni casi la “moda” – subisce nel tempo corsi e ricorsi, passando da fasi di “chiusura” e di “contrazione” a fasi di espansione culturale e grande interesse mediatico: per adesso siamo nella fase del dilagare della moda cult per il vampiro tra i giovani, grazie alla tetralogia di Stephenie Meyer e ad altri epigoni, siamo - in altri termini - alla fase del vampiro idolatrato da certe fasce di giovani e assunto ad oggetto di identificazione, anche se si affaccia di nuovo con prepotenza l’icona del vampiro-mostro, assolutamente “cattivo”, dall’aspetto terrorizzante quando sugge il sangue, più incubus che oggetto di sviscerata idolatria, aspetto peraltro già adombrato nell’opera di Prest e Rymer (che hanno consegnato ai posteri l’iconografia del vampiro che altera le sue sembianze nel momento in cui esercita le sue prerogative).
Prest e Rymer – assieme agli altri poligrafi da essi presumibilmente coordinati impegnati a far procedere la gigantesca narrazione – diedero vita a una fase di forte espansione della rappresentazione pubblica del vampiro, sia letterariamente sia attraverso riduzioni teatrali.
Insomma, come ha scritto l’anglista Roberto Bertinetti sull’inserto culturale “Domenica” del Sole 24 ore, Varney è proprio “il papà di tutti i vampiri”... In ogni caso, è in assoluto il primo vampiro che è stato “donato” alle masse, ma pur sempre all’interno del canone del byronic type, cioè del “diverso”, “…dell’uomo eccezionale che si distingue dagli altri per alcune caratteristiche straordinarie” (Giovannini, p. 17), quindi fondamentalmente solitario, ancora ben distante dal prototipo del “vampiro-moltitudine” e del vampiro oggetto di identificazione oppure personaggio di un gioco di ruolo dei giorni nostri.
Indubbiamente, il vampiro letterario ha fatto molta strada e sicuramente ne farà ancora di altra, in un percorso che, come già accaduto, vedrà ulteriori corsi e ricorsi, periodici affievolimenti d’interesse alternati a improvvise revival. Questo perché, in definitiva, il vampiro si radica profondamente nella fantasia di tutti – non solo dei lettori amanti del genere - come “modo di essere” multivalente e mutevole in relazione alle epoche e alle mode culturali, e come prototipo del perturbante che periodicamente – come accade nel corso del primo decennio del XXI secolo – si tenta di “addomesticare” con iniezioni di buonismo, di simpatia, di psicologismo a basso costo che ne vorrebbe edulcorare i moventi, ma che - altrettanto periodicamente - riaffiora con un volto crudelissimo e mostruoso, come è – ad esempio – nel vampiro (o meglio nei vampiri modenesi) preconizzati da Claudio Vergnani (uno dei più promettenti scrittori horror italiani della nuova generazione).
Sintesi in breve dal primo risguardo di copertina del 2° volume
Liberato da Varney, Charles Holland torna dalla fidanzata Flora Bannerworth e dallo zio ammiraglio Bell. Quando il dottor Chillingworth tenta di portare via il grande ritratto, somigliante allo stesso Varney, collocato nella camera da letto di Flora, viene aggredito e rapinato.
Il medico chirurgo rivelerà, inoltre, di avere già conosciuto il vampiro a Londra: alla ricerca, con l’ausilio di un boia, di cadaveri su cui compiere esperimenti, aveva avuto l’impressione di resuscitare un criminale appena impiccato, lo stesso Varney.
La testimonianza è confermata dall’arrivo in scena del boia, che ricatta Varney, e dal racconto fatto da quest’ultimo a Charles Holland, che è riuscito a rintracciarlo: assieme a Marmaduke Bannerworth, il pater familias morto suicida, egli aveva partecipato a un’azione criminosa per recuperare un’ingente somma di denaro persa al gioco, ed era stato poi catturato e condannato a morte. A Bannerworth Hall è nascosto probabilmente il denaro rubato, mai recuperato.
Varney si rifugia nel cottage dei Bannerworth, stabilendo con loro un rapporto di reciproco rispetto, ma torna a scomparire, mentre Charles e Flora possono finalmente sposarsi. Intanto, ad Anderbury, una cittadina di mare a circa venti miglia da Bannerworth Hall, fa la sua comparsa un misterioso e ricchissimo nobiluomo, il barone Stolmuyer di Salisburgo, che si prepara alle nozze con una bellezza del luogo, Helen, figlia dell’avida vedova Williams...

A Palermo c’era un bel prato verde…


Il progetto della Villa a Mare del Foro Italico Umberto I s'è andato concretizzando nel corso degli anni e, dopo un percorso di ondate di scetticismo e piccole polemiche (come è accaduto a proposito della scelta decorativa dei birilli in ceramica) e passi falsi (come, ad esempio, le scelte inizialmente poco idonee per la realizzazione del rivestimento prativo) ha portato i nostri cittadini ad avere uno spazio verde in più ampio e arioso, con la bellezza aggiuntiva di essere ubicato proprio sul mare, con la vista sullo spettacolare Golfo di Palermo e sulla grande massa rocciosa di Monte Pellegrino.

La Villa è molto amata dai Palermitani e molto “vissuta”, sia per le passeggiate, sia per la pratica dello sport (tantissimi i ciclisti, i podisti, i fitwalker, ma anche i padroni di cani e gli amanti della natura, oltre a tanti pescatori).

Il pezzo forte di questa Villa sono i grandi prati che finalmente, grazie a delle cure pressoché continue del personale preposto, hanno attecchito (cosa che a Palermo, con le sue condizioni climatiche non è affatto facile).

E, in effetti, cosa quasi miracolosa (per Palermo, laddove in altre città sarebbe la normalità) squadre di operai del Comune ci lavorano di continuo, irrigando, falciando l’erba, rimuovendo i rifiuti lasciati dagli utenti domenicali (questa è un po’ una piaga - segno della nostra inciviltà - ma almeno i rifiuti vengono rimossi).

Insomma la Villa a Mare è veramente un fiore all’occhiello per la nostra Amministrazione comunale, qualcosa di cui tutti i cittadini possono andare orgogliosi, una carta di presentazione per la città, visto che sono anche molti i turisti che di mattina presto ci vanno a correre.

Ma a Palermo, così come si fa, automaticamente si disfà senza stare troppo a rifletterci su, non appena si profila un progetto diverso al quale pare opportuno dare l’adesione incondizionata, senza soppesare costi e benefici.

Il 29 giugno è stata annunciata una visita pastorale del Papa a Palermo, il prossimo 3 ottobre.

Il programma denso e intenso della Sua visita prevede anche che Sua Santità concelebi la Santa Messa proprio sul grande prato verde della Villa a Mare.

Non si può che essere lieti della visita del Santo Padre a Palermo e l’utilizzo di quel prato verde - ritenuto idoneo perché offre un grande spazio all’adunanza dei fedeli - parrebbe ben poca cosa di fronte alla grandiosità dell’evento.

Ma se si riflette sul fatto che sarà necessario edificare un grande palco per ospitare tutte le Autorità ecclesiali, cittadine e militare, che sarà necessario transennare tutta l’area e predisporre una strada che attraversi il detto prato per farvi transitare il Santo Padre tra due scenografiche ali di folla, si comprende bene che il prato verde, tanto faticosamente conquistato, verrà martoriato da una serie di interventi preliminari, che implicheranno il passaggio di camion per il trasporto di attrezzature e di ruspe per la predisposizione di un piano stradale, per non parlare poi dell’effetto dello scalpiccio di migliaia di piedi nel giorno dell’adunanza.

Perché – piuttosto – non identificare una diversa area della città e, con l’occasione, bonificarla, investendo dei soldi che consentano di gettare le basi per la creazione di un altro parco cittadino?

Il principio secondo il quale per fare una cosa che da lustro alla città se ne debba distruggere un’altra, levandola all’utilizzo dei cittadini, esprime un modo di governo della città insensibile e poco illuminato, nonché poco attento alle finanze pubbliche, in un momento in cui ve ne sarebbe particolarmente bisogno.

lunedì 2 agosto 2010

Frida e quei cuccioli mancati


Non sempre le cose vanno come si vorrebbe.
La mia cagnetta Frida avrebbe dovuto partorire proprio in questi giorni.
Poco dopo il 60° giorno le si sono rotte le acque.
Però, purtroppo, per una concomitanza di eventi, i cuccioli che portava in grembo non si sono attivati a sufficienza oppure il suo l'utero non ha iniziato a contrarsi come avrebbe dovuto.
Del resto, Frida non è più proprio giovane: a sette anni si avvicina già ad una rispettabile età di vita canina, commisurandoli ai parametri umani, e quindi, forse, è mancata nella fase cruciale una sufficiente stimolazione ormonale.
Non si sa e non si potrà sapere cosa sia accaduto.
Potrebbe darsi che lei abbia avuto quello che viene definito un "UTERO PIGRO"...
In ogni caso, dopo quasi 24 ore di irrequietezza da parte sua e dopo la comparsa di perdite verdognole, siamo andati dal veterinario.
All'ecografia, i cuccioli che il 14 luglio (a distanza di circa 15 giorni dall'evento) erano vivi, vegeti e ben formati (e di uno si era visto anche un cuoricino che batteva allegramente) non erano più vitali...
Di conseguenza Frida ha dovuto essere operata.
La decisione è stata, ovviamente, immediata...
Prelievo ematico per controllare che i parametri ematochimici fossero in regola, pre-anestesia e quindi subito in sala operatoria.
Mi dispiace veramente che a Frida venga tagliata la pancia, non era messo nel conto.
Ma così, purtroppo, deve essere.
Mentre scrivo queste righe, Frida viene sottoposta all'intervento chirurgico.
Avevo voluto per lei questa gravidanza, perchè avevo pensato che fosse giusto - prima che diventasse troppo vecchia - darle la chance di completare almeno una volta il suo ciclo biologico riproduttivo, così come avevo fatto per le due "pastore" tedesche che avevo avuto con me negli anni scorsi.
Il destino non ha voluto che le cose andassero così.
Mi spiace, Frida: non ci saranno altre possibilità.
Così la Natura e il destino hanno decretato.
Sino a prima che si addormentasse con i farmaci per la pre-anestesia, Frida mi ha guardato adorante con quel suo sguardo umido e profondo.
Quando i cani ti guardano così, hai la sensazione - sempre - che, comunque, stai tradendo la loro fiducia, perchè il loro affetto è davvero incondizionato e va, al di là di qualunque cosa, e tu - per quanto faccia - non potrai mai essere all'altezza delle attese che essi ripongono in te e di quello sguardo con il quale ti seguono sempre, premuroso, qualunque cosa tu faccia...

Ora sono a casa e aspetto che dalla Clinica veterinaria mi chiamino per dirmi quando posso andare a riprenderla, la Fridolina.
Ma intanto, a casa da solo, non posso che pensare: "No Frida, no party".
Ed è per questo che sto scrivendo queste annotazioni.
Rimane da smantellare la piccola nursery predisposta giù in garage: mi preparavo ad avere i prossimi 45 giorni pieni della crescita di almeno due cucciolotti di cane e, invece, avrò da accudire una Fridolina convalescente...
Ma, intanto, No Frida, no party... e solo mestizia e dispiacere.
 
Creative Commons License
Pensieri sparsi by Maurizio Crispi is licensed under a Creative Commons Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia License.
Based on a work at mauriziocrispi.blogspot.com.