sabato 17 maggio 2008

La vita è sogno: e, a volte, il sogno è realtà


Come spesso mi capita, in bici ero uscito alle prime ore di un giorno di primavera per sbrigare alcune commissioni, godendomi del pari il bel fresco mattutino.
Dopo avere girovagato in giù ed in su per un po' di tempo, mi son fermato e ho legato il mio velocipede (anche con la bici, la filosofia è: "Posteggia e passeggia...") ad un provvido palo, con catena antifurto e tutto il necessario, bloccando entrambe le ruote tra loro.
Me ne sono andato tranquillo e, dopo un po', son tornato fischiettando, rilassato.
Il fischettìo giulivo, però, mi s'è spento d'un tratto tra le labbra...
Grande è stata la mia sorpresa (e il disappunto) nel vedere la bici splendente e ben oliata di prima trasformata in orrido rotttame.
Tutto ciò che si poteva asportare era stato divelto selvaggiamente, i copertoni e le camere d'aria strappate via e bruciate, i cerchioni che non potevano essere rimossi perchè incatenati tra loro e al telaio, dovevano essere stati sottoposti a trazioni selvagge ed erano contorti con molti dei raggi spezzati che sporgevano in fuori. Il sellino era stato asportato e così pure tutti gli accessori, fanalini, fanaletti, borsa, borraccia. Persino la vernice era stata grattata via in un impeto di vandalismo selvaggio e, per di più, quel che rimaneva del misero telaio appariva in più punti bruciacchiato e semifuso.
Disastro!
Catastrofe!

Sono rimasto rimminchionito a contemplare lo sfacelo.
Il mio mezzo di locomozione distrutto miseramente...
Non ho potuto fare altro che starmene per un po' a meditare sull'assurdo quotidiano, non senza augurare alle mani che avevano compiuto un cotale scempio la peggiore legge del taglione... come atrofia rinsecchimento lebbra ulcerazioni puteolenti e gangrena, nessuna di tali iatture tale da causare la morte, ma solo perenne sofferenza a memoria del misfatto compiuto e stimolo al ravvedimento...

Portando con me quel che restava della bici (trascinandomela appresso, cigolante e gracchiante) sono andato dal mio biciclettaio di fiducia, affidando il povero relitto alle sue provvide cure.
Lui mi ha detto, inarcando il sopracciglio: "Provvederò!" (ma, evidentemente pensando, "Non è cosa!"). Tanto era lo scempio che, probabilmente, sarebbe stato meglio fare la gran rinuncia ed acquistarne un nuovo bolide: uno di quelli che fiammanti e lustri se ne stavano appesi alla rastriellera in buon ordine in attesa di un nuovo acquirente.
Avrei potuto e non l'ho fatto: sono un nostalgico e quella era la bici che aveva comprato (ed usato) mio padre...

Puff Puff!!! Pant Pant!!!
Per fortuna, amici miei, si è trattato solo di un sogno.
Un sogno di qualche giorno fa, dal quale mi sono risvegliato di soprassalto, un po' inquieto e preoccupato... ed anche sudaticcio ed ansimante, con il cuore in gola, com'è giusto che sia con tutti gli incubi di questo mondo...
Il sogno era radicato nella realtà, tuttavia.
Qualche settimana prima, ero andato in centro per seguire una conferenza e avevo lasciato la mia bici legata all'inferriata che recingeva una chiesa (Casa Crofessa di Palermo, oggi sede della Biblioteca comunale). Al mio ritorno, con mio grande scorno, mancava il sellino (ma anche una piccola borsa porta-oggetti, attaccata al telaio, per mezzo di piccoli supporti di velcro).
Qualcuno aveva cercato di rimuovere l'intera bici, scuotendola con furore forsennato e, non riuscendo a spostarla, per ripicca, aveva portato via tutto ciò che - senza troppo dare nell'occhio - si poteva asportare.
Mi sono dovuto adattare a fare i circa 6 chilometri che mi sepavarano da casa pedalando in piedi senza mai potere riposarmi con la comoda seduta sul sellino.
L'anabasi è avvenuta, quindi, con piglio quasi fantozziano...
Come nel sogno, di lì a pochi giorni sono andato dal mio biciclettaio di fiducia.
La bici è stata riparata ed ora è ancora più bella di prima...

Un'altra volta - sempre nella stessa zona, questa volta davanti alla sede centrale dell'Università (e parliamo di quando io ero studente universitario) - avevo lasciato un'altra bici attaccata con tanto di catena ad un palo. Al mio ritorno, dopo nemmeno un'ora, la bici era scomparsa (anche se - a mo' di beffa - ai piedi del palo rimaneva la catena che la legava, ben chiusa, come in un Giallo che si rispetti). Un posteggiatore abusivo che s'aggirava lì nei pressi mi fece capire, con frasi ellittiche, che, se ero disposto, a pagare un congruo obolo, forse la bici si sarebbe potuta ritrovare. Io gli girai le spalle e me ne andai, adirato, non disposto in alcun a sottomettermi al sopruso: e quella fu una bella bici persa persa per sempre.
Andando ancora più indietro nel tempo, una bellissima Bianchi da passeggio, leggera, con manubrio sportivo e cambio Campagnolo a cinque marce (in verità, ancora una volta di proprietà di mio padre che me la prestava, un po' a malincuore), mi venne sottratta, mentre era parcheggiata all'interno della recinzione del Liceo Garibaldi: beh, in questo caso, si potrebbe commentare "Anche nelle migliori famiglie...!", trattandosi di uno dei migliori licei cittadini, allora frequentato dai rampolli della buona borghesia palermitana. Fui a lungo rimproverato da mio padre per la mia sbadataggine e la mia noncuranza, se non per la mia colpevole negligenza: fidandomi ingenuamente del fatto che nessuno, all'interno della scuola, avrebbe mai rubato la mia bici, non l'avevo assicurata con un catenaccio.
La sottrazione della Bianchi, purtroppo, segnò la fine dell'era dei prestiti fiduciosi da parte di mio padre che, dopo quella volta (avendo preso atto della mia inaffidabilità) decretò autorevolmente ed in modo definitivo: "Da questo momento in avanti, ognuno usi la sua bici!".
Un vero peccato, per me, perchè le sue bici erano sempre più belle delle mie...

domenica 11 maggio 2008

“L’ultima missione”: un noir dalle tinte cupe, in un rivolgimento paradossale, si fa inno alla vita e all’amore

Schneider, poliziotto alla deriva e “sommerso” dal suo dolore, indaga tra i fantasmi del passato e i contrasti coi colleghi corrotti. Justine, sopravvissuta assieme alla sorella al massacro dei genitori 25 anni prima, attende l'uscita di prigione dell'assassino che Schneider stesso aveva arrestato. Un polar personale e disperato che, pur se imperfetto, apporta qualcosa di nuovo al genere. “L'ultima missione” è anche la storia della "redenzione" di un poliziotto abbandonato al dolore e chiude la trilogia (poliziesca) di Marchal sulla solitudine, la disperazione e l'erranza.
Il film di Marchal esordisce, come tutti i noir ("polar", così i Francesi definiscono i neo-noir) con atmosfere cupissime e crepuscolari, intensamente claustrofobiche, in cui mancano quasi del tutto le riprese all'aperto e i campi lunghi che diano allo spettatore un po' di respiro.
Buona parte del film si sviluppa in interni bui - appena rischiarati da fioche lampade - o di notte, con un'esasperazione radicale dei contrasti e, in alcuni casi, anche con una forte abolizione delle tonalità intermedie ed un’ipersaturazione dei colori base della gamma cromatica.
Il poliziotto Schneider, immerso in una spirale di deriva esistenziale e di lucida volontà di dissolvimento, appare livido - come tutti gli altri poliziotti, quasi tutti corrotti (ben pochi i "salvati" nel giudizio del regista).
Le scene in flashback, invece, sono rigorosamente in bianco-nero, velocizzate al massimo e rese per esplosioni di dettagli esasperati, ma tanto concitate che non è possibile registrarne i particolari: ciò è funzionale ad enfatizzare la soggettività di Schneider e Justine, entrambi alle prese con i propri fantasmi personali e con l'impossibilità di un'autentica elaborazione del dolore.
Il volto di Schneider, scavato da ombre profonde, è cadaverico, come se egli fosse da tempo morto. Nel definire gli altri co-protagonisti - poliziotti disonesti senza rimedio e venduti ad un sistema che tutto vuole fuorché la ricerca della verità, rappresentati come "ipertipi" quasi grotteschi - si ravvisa una ridondanza che li porta ad essere dei clichè categoriali ed assoluti.
Forse, proprio per questo, la vicenda narrata da Marchal (ex-poliziotto lui stesso, con un servizio nel nucleo antiterroristico di Versailles) appare disperata ed eccessiva, profondamente esistenziale: la storia di un uomo che, ormai sulla via del declino e alcolizzato, subendo il peso insopportabile di essere un sopravvissuto alle persone che gli erano più care, vuole scontare da vivo la morte che non l'ha preso, quando avrebbe dovuto, è efficace e capace di alimentare un nucleo di emozioni profonde nello spettatore.
Viceversa, l'altra protagonista "in parallelo", Justine, vive drammaticamente il ricordo, mai elaborato, della morte atroce di entrambi i genitori per mano di un brutale killer e, a causa di esso, non riesce a vivere con gioia autentica ed abbandono alcun momento della sua vita, dominata com’è dall'angoscia e dalla paura.
Mentre si dispiega l'indagine per fermare un serial killer autore di efferati delitti a sfondo sessuale (in cui Louis, pur sospeso dal servizio, avrà un ruolo decisivo) avviene un incontro catalizzatore che, paradossalmente, genera vita e voglia di vivere in Justine e desiderio di "liberazione" definitiva in Louis, che si attiva per compiere appunto la sua "ultima missione". Soltanto nel finale, si scioglierà la cupezza e il dramma giungerà alla sua risoluzione: il crepuscolo e le atmosfere mortifere lasceranno libero campo ai pieni colori dell'amore che, pur mai espresso, emerge con prepotenza in un intenso inno vitalistico, punteggiato dai vagiti di una nuova vita.

I noir (sia i romanzi, sia i film) si differenziano dal giallo classico perché il loro scopo non è solamente raccontare e risolvere un crimine. Alla fine della storia che vi è narrata il lettore deve riflettere, sulla base di ciò che ha letto o visto (sulla base di ciò che lo ha colpito emozionalmente), sulla realtà che gli sta intorno, deve sentirsi costretto ad analizzare il mondo che lo circonda in base alle informazioni che è riuscito a raccogliere dalla vicenda: si comprende bene perchè nelle narrazioni noir la soluzione del crimine passi in secondo piano, poiché ciò che interessa maggiormente è lo scavo psicologico dei personaggi e lo studio di una certa situazione. Alcuni critici (tra i quali Valerio Evangelisti, geniale scrittore esperto in "contaminazione" dei generi) sostengono che, proprio per questi motivi, i noir sono un genere narrativo vitalissimo ed attuale che rappresenta un potente strumento di conoscenza e analisi della realtà contemporanea.

 
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