sabato 31 luglio 2010

Una gita estiva a Eraclea Minoa: l'importante è stare sulla strada


Una mattina di sabato, sono stato preso all’improvviso dall’irrequietezza. Ho sentito dentro di me, con forza, che dovevo andare da qualche parte. Mettermi in libertà su di una strada, percorrere dei chilometri.

Appena avvertito questo richiamo interiore, ho deciso di andare ad Eraclea: l’ultima mia gita lì, del resto, era avvenuta nel 2008.

Già il viaggio in sé è splendido. Secondo me, la Scorrimento veloce Palermo-Sciacca è una delle più belle strade di Sicilia, con i suoi scenari continuamente mutevoli e maestosi nella sua prima parte sino a quando si entra nell’ampia Valle dello Jato.

Ho scoperto, da un cartello esplicativo, che viene chiamata anche “Via della Liberazione”, forse perché - proprio per via del fatto che consentiva di valicare facilmente la catena montuosa nel Nord della Sicilia ed arrivare a Palermo in modo diretto - nella II Guerra Mondiale venne scelta dagli Alleati come via maestra della loro avanzata militare (ma su questa cosa non ne so di più).

Sosta di riposo in una sperduta area di servizio, nel bel mezzo del nulla, tutt’attorno campi rivestiti di stoppie gialle, cielo incredibilmente azzurro, nessuna nuvola: per guardarsi attorno bisogna stringere gli occhi tanto è forte ed intensa la luce.

Un forte vento spazza ogni cosa.

Altri gitanti sono fermi come me nel bel mezzo del nulla: forse, vanno al mare.

Mi piacciono e li osservo a lungo, mentre fumo una sigaretta.

Il riverbero sulla strada costiera è abbacinante.

Ci sono scavi e lavori in corso dai quali si levano, con il vento, nuvole di polvere tufacea bianca, finissima.

E finalmente, a Eraclea Minoa.

Vado a parcheggiare direttamente nell’area di sosta davanti all’ingresso delle rovine dell’antica città e, a passo svelto lunga la strada sterrata non percorsa da anima viva, con il mio zainetto, mi dirigo verso il punto da cui potrò scendere sull’altro versante di Capo Bianco.

Il vento ora è fortissimo, continuo, l’aria ha una lucentezza perlacea, dovuta alla polvere finissima e alla salsedine di cui è carica.

Quando mi fermo a scattare una foto, faccio fatica a tenere con mano ferma la mia macchinetta e devo ripetere più volte la stessa inquadratura per ottenere un’immagine soddisfacente.

Ma il riverbero è così forte che, nel display, non si riesce a vedere quasi nulla anche mettendolo in una posizione in cui sia ombreggiato.

Quando arrivo, calandomi a fatica lungo un sentiero piuttosto erto, la spiaggia ha un aspetto da apocalisse, battuta com’è dal vento impetuoso ed incessante.

Eppure ci sono tanti – si fa per dire: non più di due decine di persone che se stanno sparse nell’immensità del tratto di spiaggia delimitato da un lato da Capo Bianco, dall’altro dalla foce del fiume Platani e, alle spalle, da una fitta e bassa boscaglia, pressoché impenetrabile, non fosse per qualche sentierucolo appena tracciato sul terreno sabbioso.

Passeggio lungo l’arenile di sabbia e di ghiaia.

Le onde sospinte dal vento vi si abbattono furiose con creste spumeggianti e, dopo essersi rotte, si ritirano formando una vigorosa risacca.

Non credo che, in questo momento, sia del tutto consigliabile farsi un bagno.

Infatti, molti preferiscono l’acqua molto più cheta del fiume, laddove dopo una morbida ansa, l’acqua dolce si appresta a mescolarsi con quella salsa.

Sono tanti a starsene lì, indolentemente.

Ripercorro di nuovo tutta la spiaggia e cerco di trovare riparo dal vento in qualche anfratto a ridosso di Capo Bianco, ma niente…

Ripasso davanti alle due dozzine scarse di frequentatori della spiaggia: la più parte abbarbicatia al proprio telo, e tendenzialmente avvinti a coppie, come Paolo e Francesca: almeno se dovessero essere trascinati via da una raffica più impetuosa di questo vento che muggisce e sospinge e strattona rimarrebbero vincolati l'uno all'altro (E paion sì al vento esser leggieri, Dante, Inferno, V).

Qualcuno dei coatti della tintarella ha eretto un riparo di fortuna, con detriti vari, pezzi di plastica, canne e foglie di palma morte, proprio come naufraghi in un’isola tropicale (anche se l'immagine esotica e romantica dell'isola deserta è ormai irrimediabilmente corrotta dall'affacciarsi alla mente del déjà vu delle tante, troppe, "isole dei famosi").

Ma quando giungo, dopo molto arrancare, alla grande parete tufacea da cui si levano di continuo nuvolette di polvere farinosa, mi rendo conto con sommo dispiacere che anche là le raffiche sono tumultuose e s’ingolfano in correnti violente e vigorose, deviate disordinatamente anziché essere trattenute dalle balze di roccia di un biancore abbagliante.

Anche da seduti, le cose non cambiano granché. Fuori discussione l’idea di starsene per un po’ a leggere un libro…

La sabbia percuote con forza pungente ogni centimetro libero della mia pelle, infilandosi sotto gli occhiali e riempendomi gli occhi.

E’ sottilissima e ha un grande potere abrasivo.

Gli occhi mi fanno male e la pelle brucia, sottoposta come alle innumerevoli micropunture dei singoli granelli sililicei, rivestendosi velocemente d’un sottile strato bianco che ha un effetto disidratante.

Pilucco un po’ di frutta che ho portato a casa e, così, si placa l’arsura che mi prosciuga le mucose. Un piacere effimero perché la scorta è presto finita…

Decido di andarmene, dopo un po’.

Non resisto più all’assalto del vento…

Rischierei di scomparire, dopo un po’, abraso dalla sabbia, oppure di essere trasformato in un Crispi smerigliato e sabbiato.

Del resto, ho avuto modo di placare la mia nostalgia e respirare quest’aria, riempiendomi di sensazioni arcaiche e del potere tuttora vibrante di energia di questo luogo battuto dai venti dove antichi popoli ebbero l’ardire di costruire un’intera città dinanzi al mare infinito su cui lo sguardo corre vertiginosamente verso l’orizzonte senza essere trattenuto da nessun ostacolo e, oltre, sai che ci sono il Golfo della Sirte e l’Africa immensa e misteriosa (che però non puoi vedere, ma solo immaginare).

Il resto della giornata, si sviluppa on the road, con il desiderio di fermarmi da qualche parte, ma senza mai trovare un luogo di sosta che potesse darmi pieno soddisfacimento…

La visione di Secca Grande, niente più che una grande colata di cemento come appendice residenziale estiva di Ribera, battuta dalle raffiche, polverosa e dall'aspetto messicano, mi scandalizza e mi fa desiderare una pronta fuga verso altri lidi, mentre la spiaggia di Porto Palo di Menfi, affollatissima e brulicante di vita come un formicaio, mi accontento di guardarla per un po’ dall’alto dal cono di ombra dell’antica torre di guardia.

E, poi, come classico dell’erranza, ci sono delle soste per rifocillarmi e riposarmi in un paio di stazioni di servizio.

In una sosta lungo la Statale che porta da Sciacca ad Agrigento mi fermo a mangiare una provvida porzione di pani cunzatu locale (mangiabile, ma niente a che vedere con quello – mitico – di Scopello) e un ottimo “cremino” al posto del classico caffè espresso caldo.

Vivere sulla strada, in continuo movimento, in solitudine, con la libertà di decidere quando fermarsi e quando andare, è una cosa che ha comunque un suo fascino potente ed ineguagliabile.

Poi, all’imbrunire, il lento ritorno a casa.

venerdì 30 luglio 2010

Una gita a Scopello: la bellezza non è nello stare, ma nella nostalgia del ritorno


Il fascino dell'antico baglio del piccolo borgo di Scopello, un vero e proprio avamposto al limitare della Riserva naturale orientata dello Zingaro, è indubbio.
Quella dei bagli è una tradizione edilizia (al tempo stesso abitativa e funzionale) nata nel Sud dell'Italia, allo scopo di garantire un rifugio parzialmente fortificato alle popolazioni stanziali di contadini dalle incursioni dei Saraceni che erano particolarmente frequenti e di cui si ha memoria sino agli inizi del XIX secolo.
A questo scopo, venivano costruite le torri di guardia, delle quali, nel corso del tempo venne edificata un'intera cintura lungo tutto il perimetro costiero della Sicilia, seguendo il principio della "corrispondenza visiva", nel senso che da ogni torre fosse possibile inviare dei segnali (il più delle volte di fuoco e di fumo) alle due torri immediatamente vicine.
Laddove, la densità abitativa era maggiore, le torri di guardia venivano costruite più numerose, come pure la loro frequenza era in funzione dell'anfrattuosità della costa e della necessità di rispettare sempre il principio della corrispondenza visuale (su questo affascinante pezzo di storia e sulle sue testimonianze rimane fondamentale lo studio di Salvatore Mazzarella e Renato Zanca, Il libro delle Torri. Le torri costiere di Sicilia nei secoli XVI-XX , Palermo, Sellerio, 1985).
Il baglio è dominato da un’antica torre saracena a pianta rotonda, oggi diruta, che venne eretta su di un alto sperone roccioso, pressoché inaccessibile, proprio alle sue spalle.
L'incuria degli uomini e le intemperie (un fulmine le ha dato il colpo finale) l'hanno trasformata in un romantico rudere (e qui il termine "romantico" lo aggiungo per dare un certo valore a quel che rimane della torre, anche se a nessuno probabilmente gliene frega niente, all'infuori – penso - degli autori dell'importante saggio storico-architettonico che ho citato prima nel quale, per ciascuna delle torri di guardia, venivano raccomandati gli interventi conservativi minimi per evitarne il degrado, ma anche le possibili destinazioni d'uso)...
Il fascino del baglio è grande: la grande porta di accesso che accentua l'idea del presidio fortificato, l'acciottolato di levigate pietre di fiume, il maestoso eucalipto al centro della corte, i numerosi spazi abitativi con negozietti ricavati dalla cortina di edifici che ne costituiscono il perimetro, gli ameni schieramenti di tavolini e sedie da bar ombreggiati dalla verzura, in un'atmosfera sonora in cui manca il fastidioso brusio di sottofondo dei motori a scoppio tipico della città (chi arriva a Scopello deve parcheggiare l'auto in apposite aree fuori dal borgo), mentre si è accarezzati dallo stormire delle foglie e dal gentile chiacchiericcio degli scampoli di umanità presenti, un chiacchiericcio che però appare debole e sommesso, discreto insomma.
Tutto sembra fatto apposta per indurre alla rilassatezza e al languido abbandono, proprio durante le ore più calde del giorno.
Vi si può stare seduti immersi in un piacevole freschetto, gustando un’abbondante granita al caffé o al limone (non proprio eccellenti, ma ci si può accontentare), godendosi una sigaretta e leggendo un libro.
Poi, dopo questa pausa durante la quale - come accade in diecimila altri posti che possiedono queste qualità - ci si augura di poter avere una stanza proprio qui, con la finestra che guarda all'interno del baglio e viverci in ritiro, godendosi la lettura di un buon libro oppure scrivendo - ci si alza ed è imperioso andare in un vicoletto poco più in là dove – tradizionalmente - fanno il più buon pani cunzatu che vi possa mai capitare di mangiare.
Ma diffidate delle imitazioni!
Ci sono altri bar di Scopello che vi rifilano u pani cunzatu, ma non è quello che dovete mangiare.
Se mangiate l'imitazione rimarrete delusi!
Invece, dovete andare in questa viuzza dove è ubicato l'unico panificio del paese (di antichissima tradizione) e qui vi fanno u pani cunzatu nella variante con acciughe (per quelli a cui piace piccantello) o senza, servito sempre ben caldo, alla temperatura più idonea per far sviluppare al meglio gli aromi e i sapori dei diversi ingredienti che lo compongono.

Davanti al panificio, dove il pane è sempre caldo e si respira una tiepida fragranza di forno sono allestiti tavolini, sedie e panche alquanto rustici all'ombra di alcuni fichi che dalle loro basse ed intricate fronde gettano sugli avventori una pesante ombra e, magari, c’è anche un gatto che ti osserva pigramente, appollaiata su di un ramo.
Non c'è nulla di più godurioso dell'addentare una porzione di pani cunzatu che trasuda un po' d'olio (ma è inevitabile), annaffiandolo con della buona birra fresca e poi, per concludere, addentare anche una cassatella ancora calda di cottura.
Dopo questi "riti" che fanno immancabilmente parte della puntata a Scopello, si può andar via pienamente soddisfatti, anche se - mentre già si volgono le spalle al baglio - il cuore viene invaso da un pizzico di nostalgia, perché si ha la consapevolezza che si sta per lasciare uno di quei luoghi un po' magici che posseggono in sé delle qualità profondamente terapeutiche per l'animo esacerbato del cittadino delle grandi metropoli.

Ma, proprio andando via, la vista d'un asinello lasciato a pascolare la magra erba rinsecchita dalla calura ha un potere rasserenante. Lo "sceccarello del tuo cuore", con una delle zampe vincolata ad una fune che gli consente una mobilità limitata a pochi metri, ti osserva a lungo con la testa leggermente storta, con le punte delle sue grandi orecchie che convergono sulla linea mediana sin quasi a toccarsi e, con quel suo sguardo enigmatico dai grandi occhi scuri e profondi, sembra dirti: "Tu almeno hai la libertà di andartene e poi di ritornare... Non vedi che io, invece, sono qui legato e mi posso muovere soltanto in un raggio di dieci metri? Non essere triste, dunque! Quando vorrai potrai tornare! Io, invece, ho la certezza della mia prigionia qui, dove sono nato e dove, forse, morirò".
In fondo, tutto è relativo, come anche tutto è fatidico.
Lo sceccarello ha ragione.
Alcuni posti sono belli per te, perché tu ci arrivi, ci stai per tutto il tempo che vuoi e te li godi, ma sai bene anche che quando vorrai potrai andartene.
E, quindi, questi luoghi conserveranno sempre immutato il loro fascino, perché non arriveranno mai ad essere per te una prigione opprimente...
La bellezza non è tanto nello stare, quanto piuttosto nella possibilità di sperimentare nostalgia e di poter fare ritorno.

martedì 27 luglio 2010

The box: un film che crea molte attese e che, alla fine, lascia un po' delusi


The box (2009) è la nuova opera cinematografica di Richard Kelly, regista di Donnie Darko, film enigmatico e aperto a molte possibili interpretazione, divenuto tra le giovani generazioni un vero film di culto.
Presentato nella programmazione estiva delle sale cinematografica forse per la sua supposta forza attrattiva da parte di un pubblico di nicchia, disposto ad andare al cinema comunque, malgrado il tempo d'estate, possiede pregi e difetti, ma sicuramente rimane un film vedibile e godibile.
Una coppia, Norma e Arthur Lewis (rispettivamente, Cameron Diaz e James Mardsen) per vari motivi in difficoltà riceve una misteriosa scatola di legno, dotata di un pulsante ed accompagnata da un biglietto che annuncia la visita di un certo Mr Steward, più tardi nel pomeriggio. Arlington Steward, tanto gentile dei modi, quanto spietato e tagliente nelle condizioni che detta (Frank Langella, uno degli "storici" interpreti di Dracula il vampiro) e con il volto orribilmente sfigurato, si presenta immancabilmente all'appuntamento annunciato con questa proposta: se uno dei due coniugi pigierà il pulsante, una persona a loro sconosciuta morirà, mentre loro riceveranno un milione di dollari in contanti, esentasse (Ci sono aggiunge, 24 ore di tempo, per prendere una decisione. Più alcune clausole: Non parlare con nessuno della proposta. Non contattare la Polizia o altre agenzie investigative).
Da qui, cioè dall'aver gettato il seme di un conflitto morale nell'agone narrativo, si snoda una vicenda che va facendosi via via più complicata, con la commistione di elementi paranormali e fantascientifici, in una dimensione in cui si fa sempre più forte la percezione che si stia sviluppando ai danni dei due una cospirazione di vaste proproporzioni i cui adepti sembrano essere in alcuni casi onniscienti, in altri comandati a distanza, quasi fossero dei gusci vuoti posseduti da esseri ultraterreni.
In particolare, tutto si complica a partire dalla scoperta che Arlington Steward, ex funzionario della base NASA di Langley (Virginia) dove lo stesso Arthur lavora, anni prima è stato colpito da un fulmine e, benchè dichiarato morto, sembra essere resuscitato, pur conservando nel volto i segni deturpanti della saetta, ma arricchito da poteri straordinari che sembrano essergli stati conferiti prorpio da quel fulmine e la capacità di far da tramite con entità superiori, il suo "datore di lavoro"..
Per alcuni versi, le atmosfere ricordano quelle elicitate da L'invasione degli ultracorpi (prima versione), ma anche da alcuni film di Carpenter (come, ad esempio, il suo Camminano tra noi).
La trama si infittisce sempre di più e regala agli spettatori qualche sussulto e numerosi colpi di scena, con un'evoluzione verso livelli metafisici ed ultraterreni (del tipo che gli umani sono semplici cavie, indirizzate o stimalate da entità superiori)
Ma il regista dopo aver messo tanta carne al fuoco e avendo surriscaldato le atmosfere, conclude il film a coda di topo, lasciando deluse le attese d'una soluzione cosmogonica e, soprattutto, irrisolto il dilemma morale posto all'inizio, mentre sembra innescarsi un gioco ripetitivo del quale non si può indovinare la fine: una sorta di perversa catena di Sant'Antonio...
Il film è tratto da un racconto di Richard Matheson, considerato dallo stesso Stephen King uno dei maestri dell'horror contemporaneo e ideatore di tanti episodi di "Ai confini della realtà".
Il racconto è disponibile in una raccolta antologica pubblicata da Fanucci


The box e altri racconti (Richard Matheson, Fanucci, 2010)) - Già trasposto in un celebre episodio della serie "Ai confini della realtà", "The box" narra della vicenda di una coppia di giovani sposi che un giorno si vede recapitare una scatola di legno con un pulsante. Lo strano personaggio che si presenta alla loro porta con il dispositivo spiega loro che, se lo azioneranno, riceveranno un milione di dollari; tuttavia, da qualche parte nel mondo, una persona che non conoscono morirà. E hanno solo un giorno per decidere cosa fare. All'inizio sembrano sconvolti dalla richiesta, che trovano inaccettabile e immorale; col passare delle ore, però, i due si rendono conto di non riuscire ad allontanare la tentazione di cedere all'offerta di denaro, che potrebbe cambiare la loro vita per sempre. Si trovano così ad affrontare un dilemma morale che assumerà risvolti inaspettati...
Un thriller che indaga la psiche umana, da una geniale intuizione di Richard Matheson. .

lunedì 26 luglio 2010

Piccole feste e balli di paese


Piccole feste, riunioni di paese: si sta seduti tutti assieme in una sera d’estate calda, l’aria immobile, una lunga attesa prima che arrivino le portate – il pasto è eguale per tutti – e, intanto, la musica governata da un DJ va avanti a tutto volume con l’immancabile corredo di luci stroboscopiche.
Della quarantina di persone presenti molti se ne stanno seduti ai tavoli a conversare, mentre pochi si lanciano in danze improvvisate.
Queste riunioni sociali, soprattutto quando vanno le note dei più celebri “lisci”, ma in versione techno, lasciano un’impressione di grande malinconia, facilitando– associativamente - la rievocazione di tempi andati che, per pochi istanti, ritornano a vivere nella nostra era di identità fluide in cui ciò che conta è l’apparire piuttosto che l’essere.
Sono momenti di sano divertimento in cui ciascuno fa che vuole.
Due dei danzatori sembrano spuntati da una realtà manicomiale e ci danno sotto con le evoluzioni ballerine che appaiono un po’ goffe e stralunate, mentre un ragazzetto li perseguita con la macchina fotografica digitale per cogliere i momenti più significativi dei loro balli e poi, inevitabilmente, si scatenano gustosi teatrini in cui la signora con l’abito a fiori su sfondo blu reiteraratamente insegue il molestatore per dissuaderlo dallo scattare altre foto (e queste sono autentiche scene da comica finale).
Si sta assieme, si chiacchiera, ed intanto si consumano i riti segreti d’una società prevalentemente di paese con le sue regole, le sue alleanze e le sue piccole esibizioni di potere.
Eppure, ciò nonostante, la sensazione che se ne trae è quella di un buon tempo antico e fermo in cui consuetudini antiche si ripetono immutate.


domenica 25 luglio 2010

Predators: un reboot che dà nuovamente slancio alla saga dei crudeli cacciatori alieni


Predators (Nimrod Antal, USA, 2010) è un quinto capitolo (questa volta "ufficiale") della saga di Predator che, iniziata oltre 15 anni fa, ha visto anche delle contaminazioni con il temibile Alien creato da Ridley Scott (Aliens vs Predator del 2004, seguito da un Alien vs Predator 2 del 2007).
Con questo film si torna all'origine: una storia di giungla e caccia (al primo film della serie, interpretato da Schwartznegger dove una pattuglia di soldati USa viene inviata nella giungla a recuperare degli uomini persi in missione e dove si attiva una lotta all'ultimo sangua con il predator che altro non che un cacciatore dello spazio alla ricerca di selvaggina da cacciare.
In questo film, che è - a tutti gli effetti - un reboot, sin dall'inizio a fare da preda sono sin dall'inizio gli uomini, appositamente catturati a questo scopo e "buttati" sulla superficie di un pianeta alieno che altro non è che una gigantesca "riserva di caccia".
Al regista non interessa dare plausibilità alla storia. Inizio folgorante: i personaggi della storia precipitano dall'alto verso una giungla ostil, senza sapere come siano arrivati a questo punto.
Si riuniscono (quelli che sopravvivono alla caduta) e si organizzano, cercando di comprendere i come e i perchè.
Trovano tracce di altri uomini trucidati in vari modi e trattati come selvaggina o come trofei di caccia esposti trionfalmente in appositi luoghi.

Gli uomini (e l'unica donna) della compagnia hanno gli strumenti per organizzarsi: chi è soldato, chi è guerrigliero, chi fa parte del cartello colombiano della droga, chi di una yakuza. Insomma, per via delle proprie vicissitudini biografiche tutti hanno la capacità e la presenza di spirito per difendersi e per ferire o uccidere, visto che, nel loro luogo di origine, avevano esercitato proprio queste qualità, difendersi dai colpi altrui e dare - se necessario - la morte.

Lo scontro che segue è aspro e cruento.

I predator sono tanti e non solo si accaniscono contro gli umani, ma sono anche in conflitto l'uno con l'altro, ciascuno con l'ossessione di poter dimostrare di essere un guerriero e un cacciatore dalle grandi capacità.

Gli eroi della combriccola devono apprendere velocemente per potere sopravvivere: quali sono i punti di forza dei predator e quali le loro vulnerabilità.
Solo due alla fine rusciranno a sopravvivere, pronti a ricomparire in un prossimo sequel.
Infatti, alla fine della storia rimangono aperti molti interrogativi e soprattutto ci si chiede come andranno via dalla riserva dei caccia dei predator.
Al regista non importa: dopo aver regalato agli spettatori una sequenza da videogioco, li lascia in sospeso desiderosi di un prossimo sequel.

Un film godibile e vedibile, naturalmente per coloro cui piace questo genere: decisamente, grazie anche all'interpretazione di Adrien Brody, il regista e il produttore (Rodriguez) aono pienamente riusciti a ridare vitalità alla saga di Predator, in procinto di spegnersi.


Infine, prima di chiudere questa nota occorre interrogarsi se Predators sia un buon film oppure no. Ed anche: cosa spinge uno spettatore ad andare a vedere questo film piuttosto che un altro?
Innanzitutto, si tratta di un film che appartiene ad un ambito di nicchia: quindi, per certo, vanno a vederlo quelli che sono interessati perchè conoscono già i precedenti della serie oppure, semplicemente, quelli che amano il genere horror-fantastico.
Non si può dare un giudizio assoluto su di un film di questa tipologia: per chi ama il genere potrebbe anche essere un capovaloro, pur avendo delle pecche dal punto di vista di una più generale ed universale estetica cinematografica.
Secondo me, un buon film deve avere delle capacità di produrre "intrattenimento": se il ritmo narrativo è buono, se l'attenzione dello spettatore è tenuta sufficientemente desta, se non ci sono cadute di tono e tensione narrativa, allora siamo sicuramente di fronte ad un buon film.
Non dimentichiamo che un fim oltre ad essere il prodotto della cosiddetta "settima arte", è anche spettacolo e deve pertanto avere delle qualità per piacere ed intrattenere.
E credo che Predators superi il il test della capacità d'intrattenimento, anche a pieni voti.


Una scheda wikipediana sulla saga di Predator
Predator è un film horror fantascientifico del 1987, diretto da John McTiernan.
Ambientato in una giungla (un alieno è giunto sulla Terra per andare a caccia di esseri umani) il film rappresentò il primo grande successo al botteghino per il regista.
Tecnicamente all'avanguardia, costituì un enorme passo avanti nel campo degli effetti speciali (basti pensare alla tuta che rende trasparente il feroce alieno) ed è anche il capostipite di una trilogia, che, a parte l'alieno, vedrà di volta in volta rinnovato il cast.
Il sequel si intitola Predator 2 (
Stephen Hopkins, 1990), collocato nel 1997 anche se è stato girato solo tre anni dopo il primo film, è ambientato stavolta in una "giungla urbana": la città di Los Angeles.
L'attore protagonista è Danny Glover, il poliziotto di colore protagonista della serie Arma letale, oltre a Kevin Peter Hall, che veste ancora una volta i panni dell'alieno.
L'inserimento di un teschio di Xenomorfo (Alien) nel finale di Predator 2 inserì le premesse per la produzione di uno spin-off tra le due serie.
Alien vs. Predator è stato realizzato nel 2004 ad opera di Paul W.S. Anderson, seguito da Aliens vs. Predator 2 nel 2007 su regia dei fratelli Strause.
Il 7 luglio 2010, infine, è uscito Predators un sequel/reboot di Predator, prodotto da Robert Rodriguez. La trama sarà simile al primo film; il titolo è un omaggio ad Aliens - Scontro finale di James Cameron.

giovedì 22 luglio 2010

Acqua e zammù. Paese che vai usanza che trovi...


Un tempo, a Palermo, gli acquaioli che andavano in giro per la città e i chioschi sparsi nelle vie del centro vendevano acqua e "zammù", cioè acqua addizionata con poche gocce di distillato di semi di anice (un po' simile al Pernod, ma utilizzato in concentrazioni di gran lunga inferiori).
Dalle mie parti un tempo (e penso un po' dovunque), per dissetarsi si beveva spesso della semplice acqua e, là dove - nei luoghi preposti - si serviva l'acqua (magari con un surplus di servizio, per esempio, nella variante estiva dell'acqua "gelata" - era sempre disponibile la classica bottiglietta di "Anice Tutone" ("Sin dal 1831") dalla quale spandere qualche goccia d'un un liquido trasparente dall'odore fortemente speziato che appena arrivava a contatto con l'acqua diveniva lattiginoso, conferendo alla limpidezza dell'acqua una leggera ombreggiatura biancastra.

L'acqua e"zammù" è fortemente dissetante...
Alcuni, a casa propria, conservano l'usanza di metterne un po' nella bottiglia dell'acqua tenuta in frigorifero, ma l'uso pubblico dell'acqua e zammù si è fortemente ridimensionato a favore di vini, birre, superalcoolici:
almeno per quanto concerne tale utilizzo, si tratta di un'abitudine dimenticata consegnata al buon tempo antico.
Ricordo che il mio nonno paterno, così come mio padre erano ghiotti di acqua e zammù.

Non mancava mai la bottiglietta di Anice Tutone e anch'io, memore delle abitudini familiari, ancora oggi - a casa mia - me ne tengo fornito.

Qualche giorno fa, trovandomi in Abruzzo, entrai in un bar del piccolo borgo di Castel del Monte per prendere un caffè e chiesi, come di consuetudine, anche un bicchier d'acqua.
Vidi sul bancone del bar una boccetta dalla strana foggia e chiesi: "Cos'è questa?"
"Anice" - rispose il gestore del bar.

Ed io, pieno di entusiasmo: "Ma guarda un po', anche dalle mie parti si usa l'anice!"

E, così dicendo, ne aspersi diverse gocce nel bicchiere d'acqua che mi accingevo a bere, intorbidandolo.
Vidi che il barista ed altri avventori mi guardavano strano, come se avessi fatto un'azione inconsueta o bizzara.
"Che c'è?" - dissi - "Qualcosa non va?"
"Ma, veramente noi... mettiamo l'anice nel caffé..."
Chiarito, dunque l'equivoco...
E' strano il fatto secondo cui noi trovandoci di fronte ad una stessa cosa siamo portati immediatamente ad applicare un nostro schema mentale che ne cataloga immediatamente modalità d'uso e consuetudini correlate (sulla base del principio Tutto il mondo è paese").
Mentre, invece, non tutto è necessariamente così scontato.
Come è vero il detto: "Paese che vai, usanze che trovi"!
Trovo che quest'episodio sia particolarmente bello. Innanzitutto, perchè mi ha consentito di ricordare la bella tradizione dell'acqua e zammù nostrana, ma soprattutto perchè mi ha messo di fronte al fatto che la "diversità" culturale è, fortunatamente, una pianta difficile da estirpare e che, malgrado i mille tentativi di omologare, appiattire, uniformare propri della (in)civiltà dei consumi contemporanea, le piccole tradizioni locali persistono immutate.

martedì 20 luglio 2010

Amore crudele, amore molesto

Amore crudele (nei pressi della stazione FFSS di Cefalù)

I muri parlano spesso di amore: giuramenti di eterna fedeltà, promesse di amore reciproco, espressioni di rammarico e delusione per una storia che bruscamente si è interrotta, invocazioni, esortazioni, etc etc, il più delle volte disordinate, tracciate come capita, deperibili.
Raccogliendo tutte queste scritte, alcune scontate, altre originali e dense, si potrebbe compilare un'intera antologia che potremmo intitolare appropiatamente "L'amore scritto sui muri" (e sui marciapiedi e sulle panchine e sugli alberi): insomma, "L'amore scritto nelle città").
Tuttavia, questa scritta "grave" (e scusatemi il gioco di parole con l'inglese "grave" - tomba - che, associativamente, sono portagto a fare in modo immediato), rinvenuta su di un freddo muro rivestito di lastre di travertino di una stazione ferroviaria (a Cefalù), per alcuni versi, esce fuori dalle righe, anche per l'impressione che se ne trae, osservandolo, di inamovibilità nei secoli e permanenza lapidei, al contrarie della maggior parte di altre scritte di questo tenore, "liquide" ed impermanenti.
Innanzitutto, per il colore (nero) e le dimensioni ossessivamente eguali delle lettere che compongono le singole parole, ma anche per la sua collocazione: mentre la pietra del muro ha un che di mortuario, da lapide, l'inferriata collocata subito a fianco dà l'idea d'una prigione alquanto cupa, impressione peraltro accresciuta dal nero dei caratteri, i quali benchè realizzati ad arte presentano, qua e là delle drammatiche sbavature, una sorta di pianto ostentato che si aggiunge al nero del lutto tracciato su di una bianca pietra tombale.
Insomma, sembrerebbe di essere davanti più che ad una dichiarazione d'amore, ad un cupo necrologio.
Io, se fossi nei panni della destinataria del messaggio (o del destinario? In effetti, non si può mai sapere), nel leggerlo, sarei fuggito a gambe levate, per frapporre quanto più spazio tra me e un simile ex-fidanzato.
Mi parrebbe che la mano che ha composto questa scritta non fosse certamente resa tremula dalla gioia della rievocazione dei momenti felici trascorsi assieme, quanto piuttosto animata dalla paranoica determinazione dello stalker nel volere essere ossessivamente presente nella vita della persona che ha voltato le spalle ad una simile bellezza (del tempo trascorso assieme), che ha - in definitiva - osato ribellarsi, opponendosi alla "bellezza" di quell'amore.

Io credo che tu "Luce", ignota ex-amante
(preferisco pensare che tu sia una donna), abbia fatto bene ad andartene da un amore costruito come una tomba. E, adesso, continua a procedere verso la libertà e affrancati da questa mortifera presenza che continua ad incombere su di te!

lunedì 19 luglio 2010

La strada e l'insularità, nell'apparente diversità una matrice comune


E ogni giorno, vado avanti.
E' strano che nella vita reale le strade che preferisco siano quelle vuote del primo mattino, quando ancora l'aria è fresca e pulita e la luce piena del sole non ha ancora frantumato le sacche d'ombra delle notte.
Se cammino per strada all'alba e vedo un passante che viene verso di me, la mia prima reazione è un sobbalzo, quasi che questa presenza inattesa infrangesse il piacere di una profonda solitudine e, se non prevalesse poi la reazione (più intensa, per compensazione) dovuta all'educazione alla socialità che ho a suo tempo ricevuto seguirei con facilità - quasi con piacere - l'impulso a cambiare direzione, passando sull'altro marciapiede, oppure rapidamente dileguandomi in una strada secondaria o, in mancanza di altre vie di ifuga, voltando semplicemente spalle all'importuna presenza che rompe di colpo una segreta armonia.
La strada sia essa reale o metaforica (o stato della mente) non finisce mai e ammette solo incontri temporanei, quasi mai permanenti condivisioni...
Quando si giunge al momento di stringere, afferrare, tenere, gettare ponti, sono preso da una stanchezza incoercibile. Tutte le delusioni accumulate prendono il sopravvento ed affiora il cinismo (che non vorrei mai dovere infliggere ad altri e che mi fa soffrire quando è diretto a me)...
La strada è la mia casa, in parte.
Ma, nello stesso tempo, la mia dedizione alla strada e alla solitudine, è dovuta al rapporto stretto ed inscindibile con la mia casa, quasi fossimo un'inscindibile unità vivente.
L'essere immerso nel suo abbraccio protettivo mi fa sentire a posto, per alcuni versi: mi fa credere di stare nell'unico luogo confortevole in cui vorrei essere, specie perchè sono circondato da tutto ciò di cui ritengo di avere bisogno....

E' un claustrum accogliente che solo di rado diviene opprimente...

Per altri versi, tuttavia, la confortevolezza manca: e il sintomo di ciò è la condivisione virtuale di ciò che faccio con altri.

Oppure è la costante comunicazione attraverso mail e sms vari. La mia casa, a differenza della strada, è come un'isola ed io allora divento il Robinson che la abita e che, indefessamente - dalla sua solitudine - lancia messaggi rinchiusi dentro bottiglie sigillate, in attesa che vengano rpescati da qualcuno che li legga (ma non gli sarà mai dato di sapere da chi).
Ma in fondo tra la strada e l'isola non c'è molta differenza: quando sei sulla strada, sei tu viaggiatore ad essere una specie d'isola viaggiante, con il vantaggio che pur mantenendo le caratteristiche della tua intima insularità, t'imbatti nel corso del viaggio in numerose altre isole, con le quali - in qualche modo - avviene uno scambio, come nel caso del cosiddetto "scambio colombiano": cioè, nell'incontro con l'alterità, senza nemmeno sospettarlo, c'è uno'inevitabile e reciproco scambio, una donazione di cose e, di conseguenza, si attivanop delle sintesi e dei meticciati che solo dopo molto tempo si identificano in quanto tali.
Ogni persona che io nella mia vita ho incontrato mi ha dato qualcosa che ho trattenuto dentro di me e, di questo, sono rimasto infinitamente grato al donatore, di ciò che mi ha dato (o che io preso, silenziosamente)...

Nell'isola invece la soitudine è più radicale.
E' il tuo territorio, la conosci a meraviglia, anche se ogni tanto ti puàò sempre riservare una soprresa. Dall'isola pupoi pur sempre inviare messaggi, confidando che qualcuno li raccolga; oppure puoi attenderti che, prima o poi, un Venerdì vi faccia naufragio.
La solitudine è uno stato della mente: un po' non la vuoi, un po' diventa come una droga...
L'isola esercita sempre un potente fascino, l'isola rimane dentro di te - sempre - anche quando sei sulla terraferma e - in ogni caso - già dopo una breve vacanza ci vuoi tornare ancora, a star lì a rimetterti a lanciare messaggi nella bottiglia.

Ed per questo poi che - lasciando perdere l'ipotesi di abbandonare l'isola per traghettare nella terraferma - anche soltanto l'idea di un ponte che colleghi quest'isola ad altre isole oppure ad un continente porta agli arroccamenti e ad insularità ancora più spinte.

venerdì 16 luglio 2010

In un romanzo l’inferno di Ciudad Juarez: vampiri o setta satanica?

Dal 1993 ad oggi 5000 donne sono state rapite, stuprate, seviziate e infine uccise, a Ciudad Juarez (Mexico, Stato di Chihuahua) a breve distanza dal confine con gli USA: i brutali assassini si presentano tutti con un modus operandi che li riporta ad una comune matrice. È una cifra davvero enorme, quasi irrappresentabile: nemmeno il più feroce dei serial killer, operando da solo, potrebbe arrivare a collazionare nel corso della sua carriera criminale un tale numero di vittime.
Quello di Ciudad Juarez è un autentico rompicapo: investigatori messicani ed esperti di criminal profiling inviati dagli USA ancora non sono riusciti a risolverlo, e a niente è valsa la forte mobilitazione popolare promossa dalle famiglie delle vittime costituitesi in associazione.
Si sospetta che, ad alto livello, vi possano essere delle connivenze politiche che pongono divieti e zone d’ombre a indagini a tutto campo, mantenendo le coperture di insospettabili.
Certo è che una sequenza omicidi di tale entità che hanno come unico oggetto d’interesse donne di tutte le età esprime non soltanto la generica ferocia di uno (o parecchi) serial killer, ma un forte e selettivo odio nei confronti delle donne: in genere nei confronti delle donne, il cui prototipo nell’immaginario dell’uomo messicano è la MALINCHE (la donna azteca che fece da interprete a Cortez e che entrò nel suo letto e che quindi fu doppiamente traditrice perché fu l’origine di una popolazione di mestizos. E occorre anche tener conto che la donna traditrice è anche quella che lavora, emancipandosi dai legami di sottomissione tradizionale: e molte delle vittime sono tutte lavoranti nelle maquilladoras (le grandi fabbriche semiclandestine che le multinazionali USA hanno collocato proprio a Ciudad Juarez per avere a disposizione una manovalanza vasta e ricattabile, a costi di gestione bassissimi per attività di lavoro quasi da schiavi).
Tre i libri disponibili sull’argomento: Ossa nel deserto (Sergio Gonzàlez Rodriguez, Adelphi, 2006 per l’edizione italiana), L’inferno di Ciudad Juarez. La strage centinaia di donne al confine Messico-Usa (Victor Ronquillo, Baldini&Castoldi Dalai, 2006), La città che uccide le donne. Inchiesta a Ciudad Juarez (Marc Fernandez e Jean-Christophe Rampal, Fandango, 2007).
Si aggiunge adesso a questi testi documentari, il romanzo di Clanash Farjeon (I vampiri di Ciudad Juarez, Gargoyle Books, 2010) che utilizza la cupa realtà dei fatti di cronaca per dar corpo ad una fiction influenzata da una tecnica narrativa cinematografica (con azioni decentrate e frequenti cambi di personaggi e vertici di osservazione), ma tuttavia godibile anche per lo stile ironico e leggero della sua prosa che, a tratti, si distende in un tono quasi da commedia horror-surreale, fortemente evocativa di alcuni personaggi del cult The rocky horror picture show.
Ma non poteva che essere così, visto che l’autore ALAN JOHN SCARFE (dl cui il nome d’arte, Clanash Farjeon, è l’anagramma) ha interpretato da attori ruoli di primo piano del teatro classico, che è stato anche regista di numerosissimi lavori teatrali, oltre che attore e regista cinematografico.
L’autore, prendendo spunto dalla cornice di cronaca nera, dà corpo ad un arazzo narrativo dominato da una potente famiglia messicana, in sospetto di pratiche vampiresche, anche se non verrà chiarito se i suoi rappresentanti siano veramente dei vampiri nel senso “classico” della tradizione letteraria, né in che modo lo siano diventati.
Tutto l’impianto narrativo ruota attorno a Michael Davenport, attore e aspirante regista, che – in turismo cinematografico nel Sud degli Stati Uniti e in Messico – s’imbatte, a partire dal furto di alcuni nastri con le sue riprese di una stupefacente tigre bianca colta dall’occhio della sua telecamera, mentre vaga libera negli squallidi sobborghi di Ciudad Juarez, nella famiglia dei Portillo Perez e nelle loro strane pratiche.
Ne verrà fuori illeso dopo alcune vicissitudini che assumono un sapore quasi picaresco, ma alla fine della storia al lettore sorge il sospetto che, dietro gli omicidi, ci possa essere una setta satanica fondata sul patto del seme e del sangue e una never ending story, in cui, scomparsi dalla scena alcuni attori, subito altri adepti possono farsi avanti a rimpiazzarli. E questo implicitamente potrebbe dare una risposta sia all’enorme numero di donne uccise, sia all’impossibilità per gli inquirenti di venire a capo del bandolo della matassa.
Come già la sua riscrittura della storia di Jack lo Squartatore (pure pubblicata per i tipi di Gargoyle Books con il titolo Le memorie di Jack lo Squartatore (2008), anche questo suo secondo romanzo lo si potrebbe ascrivere al genere “horror sociale”.


Dal risguardo di copertina

Ciudad Juarez, città messicana di confine che conta più di un milione di abitanti, è da anni devastata dalla guerra tra i cartelli della droga per il controllo del traffico di cocaina verso gli Stati Uniti. Dal 1993, Juarez è altresì tristemente famosa a causa degli innumerevoli omicidi perpetrati ai danni di giovani donne, generalmente di umile estrazione sociale. A oggi si contano oltre 5000 omicidi, tra cadaveri rinvenuti nel deserto e ragazze scomparse e mai più ritrovate. Le vittime sono quasi tutte di età compresa tra i 10 e i 40 anni, e subiscono sempre lo stesso trattamento: rapite, mentre vanno al lavoro o, sulla strada del ritorno a casa, violentate, torturate, mutilate e uccise. È proprio in questo crogiuolo di corruzione, violenza e morte che, durante un viaggio da Miami a Los Angeles, finisce casualmente Michael, eccentrico freelance di una rivista inglese che si propone di "esaminare razionalmente i fenomeni irrazionali". Una tigre siberiana bianca gli aprirà la strada verso un mondo di tenebra, dove l'orrore è ancora più terrificante di quello offerto quotidianamente dalla cronaca...

Abbraccio: solidarietà tra compagni di strada

In un abbraccio, compagni di squadra rivivono l'emozione dell'arrivo, uno da atleta e l'altro da spettatore

Paola Rovera, che ha esordito nell'ultratrail e che ha dimostrato di essere un portento di tenacia e resistenza mentale al Mondiale 24 ore su strada di Brive dello scorso maggio (suo esordio nella specialità), ha partecipato al grande raduno degli atleti di interesse nazionale di ultramaratona, svoltosi a Castel del Monte (Aq) dal 4 al 10 luglio.
Quindi, ha corso l'Ultramaratona del Gran Sasso che, per lui, è stata - a tutti gli effetti -una gara di ripresa sia per quanto concerne l'ultramaratona tout court, sia per quanto concerne il suo ritorno ai grandi dislivelli altimetrici e il riavvicinamento alla sua grande (e prima) passione podistica che è stata quella dell'ultratrail estremo (la gara lunga del Mont Blanc, per intenderci).
Paola Rovera è un atleta generoso, portato alla vita di squadra e disponibile a coltivare in un suo modo discreto e silenzioso quei legami di solidarietà ed empatia che adesso, in maniera molto forte, legano tutti gli atleti di interesse nazionale, grazie al continuo impegno della Commissione Raduni IUTA (Nicola Tiso) e, in particolare, tra coloro che hanno fatto parte di una squadra azzurra di specialità.
E specialmente, forse per le particolarità di questa tipologia di gara, tra gli atleti specializzati nella 24 ore i legami di solidarietà e cameratismo sono molto forti ed intensi.
Ivan Cudin, attuale Campione Europeo 24 ore su strada, pure presente al Raduno, questa volta non ha gareggiato, ma ha seguito - con la generosità e la dedizione di cui dà sempre prova - alcuni dei runner di interesse nazionale impegnati nella corsa di 50 km.
Dopo aver supportato Francesco Caroni nel suo momento di crisi (che si è dovuto ritirare al 35° km), Ivan Cudin erà là al traguardo ad attendere amici e compagni di squadra, ma all'arrivo di Paola Rovera, suo compagno di squadra nella splendida avventura di Brive, è scattata la molla della solidarietà ed è stato il primo coronare la gioia di Paolo Rovera che, con una condotta di gara eccezionalmente regolare, aveva conquistato la seconda piazza del podio, con un forte abbbraccio di gioia e di amicizia.
C'è molto da imparare da questo abbraccio sul più profondo significato dello sport che, al di là dell'aggressività sublimata in agonismo, fortifica e rende saldi i rapporti umani.

giovedì 8 luglio 2010

Modi bruschi: un approccio all'estraneo, condito di palermitanità diffidente


Questa foto ha una sua storia.
Mi sono fermato a fotografare quella bici parcheggiata sul balconcino, nella calura del primo pomeriggio.
Dopo lo scatto, mi son girato e, dietro di me, c'era uno che mi guardava con aria minacciosa.
"Preco!?" - mi fa.
Io, facendo la parte di non capire: "Che?"
"Preco?" - ripete il tipo, monocorde, quasi che, in definitiva, la sua presenza fisica e lo sguardo dicessero già tutto.
"Che?" - replico io.
"E che... fotografavi... Guardavi... C'è cosas?" (con fare indagator-sospettoso)...
Io: indico la bici posteggiata sul balconcino.
Sguardo interrogativo dall'altra parte...
"Faccio la collezione di foto di bici in città" - replico in modo conclusivo.
Il tipo se ne va, muovendosi con lentezza assertiva verso la porta di casa tutta sbarrata.
"Ma se vuoi te le faccio vedere!" - gli grido dietro.
Quello: "No, no, non c'è bisogno..."
Grazie della magnanimità...
In effetti, il dialogo (o non dialogo, a seconda dei punti di vista), aveva avuto una sua ragion d'essere nel fatto che io, estraneo, dovessi sottostare ad una sorta di preventiva autorizzazione a star dentro il territorio di cui il mio interlocutore si sentiva investito del ruolo sacrale di custode.
A quel punto il messaggio era stato passato e le puntualizzazioni necessarie erano state fatte.
L'implicito: "Non pensare qui di poter fare quello che vuoi.. Io ti tengo d'occhio!".
Il piccolo episodio la dice lunga sull'animo dell'uomo palermitano di poca cultura, stretto tra un'atavica sospettosità, le necessità del controllo mafioso del suo territorio, un'altrettanto atavica diffidenza nei confronti dello "straniero" (ed io in questo caso ero lo straniero), e quel codice di comportamenti rigidamente organizzati e considerati fortemente appropriati per il maschio nostrano che l'etnologo Franco La Cecla ha così brillantemente descritto nel suo piccolo saggio, Modi bruschi. Antropologia del maschio (Eleuthera riedito nel 2010).

mercoledì 7 luglio 2010

City Island: una divertente commedia di equivoci e riconciliazioni


City Island di Raymond De Felitta (2009) è una gradevole commedia sui destini incrociati in una famiglia che vive in un sobborgo del Bronx, con delle sue peculiarità di tipo geografico-antropologico.
City Island è una cittadina di casette a schiera personalizzate, poplolata da persone che vi abitano da più generazioni tramandandosi la casa da padre in figlio, dominata da un forte orgoglio nel distinguere tra gli autoctoni e quelli che vengono da fuori.
Vince Rizzo (Andy Garcia), capofamiglia, lavora come guardia carceraria e coltiva il sogno nel cassetta di poter diventare un giorno attore (Marlon Brando nella recitazione rappresenta il suo mito), la moglie Joyce - per quanto amata - è frustrata ed insoddisfatta a causa delle frequenti assenze del marito diviso tra lavoro e "partite a poker" con gli amici (visto che non ha il coraggio di dirle che frequenta una scuola di recitazione).
Due figli: la ragazza è stata buttata fuori dal college perchè trovata in possesso di Cannabis e poichè - per essere riammessa al successivo trimestre - dovrà pagarsi la retta lavora in un locale come spogliarellista e lap dancer (all'insaputa dei genitori); il figlio più piccolo Vince Jr. ha la passione (al limite della condizione borderline) per le donne ciccione e soprattutto vorrebbe "nutrirle" e, avendo conosciuto tramite internet "Botero", un'adorabile cicciona che abita di fronte a casa sua (che si esibisce in internet mentre cucina complicati manicaretti conditi da pose ammiccanti) comincia a frequentarla e ad imbastire assieme a lei pasti succulenti e luculliani

Durante il suo lavoro in carcere, Vince si imbatte in un figlio ormai cresciuto che, in un'altra vita, aveva abbandonato assieme alla madre, per codardia e per incapacità di assumersi le sue responsabilità. Decide di farsene carico e lo prende in custodia per ospitarlo a casa sua.
Attorno a questo fatto, come in tutte le situazioni in cui un "angelo" (un elemento estraneo) arriva dentro una casa gli equilibri familiari ne risultano sconvolti e si attivano una serie di equivoci ed errrori che alla fine portano come in tutte le commedie a lieto fine (tipèiche dell'ottimismo americano anni '60) all'abbattimento delle false verità, ai reciproci riconoscimenti, allo ristabilimento dell'ordine e al rinsaldarsi di tutti i legammi familiari.
Tutto si ricompone, persino la collega di recitazione di Andy e sua ispiratrice, decide di colmare i suoi viti e di ricongiunngersi con la sua famiglia.

(Dalla recensione di Giancarlo Zappoli in www.mymovies.it)
Per il resto del film invece veniamo condotti per mano in una rivisitazione intelligente di situazioni classiche del cinema (prima fra tutte quella del nuovo arrivato che si trova a sconvolgere una situazione già in equilibrio precario) con accenti che sfiorano la descrizione di nuclei familiari border line cara a Todd Solondz in particolare nel ruolo di Vince Jr.. Le piccole frustrazioni, il non detto che si instaura in una coppia che pure al fondo ha ancora elementi che la potrebbero far procedere positivamente, la possibilità di un'amicizia vera e profonda tra un uomo e una donna.
Questi ed altri sono i temi che vengono affrontati con la giusta dose di leggerezza e di malinconia per le occasioni che quotidianamente si perdono per paura di essere feriti nell'intimo. Se poi si aggiunge che si può anche assistere a una scena in cui Andy Garcia, aspirante attore, va a un'audizione per un film di Scorsese con De Niro protagonista allora si può star certi che è garantita anche una giusta dose di divertimento. City Island, senza essere un capolavoro, può valere una visita.

martedì 6 luglio 2010

Liberaci dagli sbirri: un noir in un profondo Sud d'Italia dimenticato dagli uomini e da Dio


Liberaci dagli sbirri, opera narrativa prima di Gabriele Reggi (Isbn Edizioni, 2010) si presenta come una lettura interessante ed insolita nel panorama della narrativa italiana odierna, fuori dai canoni (tra gli scrittori che ho praticato, mi farebbe pensare un po' allo stile di Eraldo Baldini, molto attento all'ambientazione territoriale, "romagnola" delle sue storie che diviene protagonista grazie anche alla forte preparazione etno-antropologica dell'autore).
Reggi ci offre una raprresentazione - forse non tanto lontana dall vero - su come sono le cose nel profondo Sud dell'Italia contemporanea che, per come è rappresentata, parrebbe ferma all'età della pietra (i fatti di Rosarno, relativamente recenti, dimostrano che Reggi non si discosta poi tanto dalla realtà nel rappresentare una simile feroce distorsione della civiltà contadina e della magia rituale-religiosa che la pervade (si pensi a "Cristo si è fermato ad Eboli") in cui i rituali imposti dal Cattolicesimo sono soltanto la verniciatura più recente.

E' un romanzo che si può leggere come una fiction (che, come dicono le note di presentazione del volume, possiede qualche coloritura horror in stile kinghiano nella rappresentazione di un "borgo" maledetto i cui abitanti sono tutti vincolati da un patto scellerato) oppure come un documento di denuncia mascherato da fiction.

D'altra parte l'horror vero è quello he si nasconde negli angoli riposti della nostra quotidianità e che permea le relazioni con il nostro prossimo (fatte di violenza, prevaricazione, crudeltà).

E' anche molto accurato lo studio antropologico della comunità di Stimmate (inventata, ma sicuramente ricalcante qualche luogo della realtà del Sud ben conosciuto dall'autore) che Reggi riesce a costruire in modo sintetico, ma incisivo: anche la Religione (anche se poi, a ben vedere, nella sua cornice codificata, si inseriscono e trovano una loro rispettabilità condivisa dei rituali radicalmente pagani) qui è asservita ad un sistema di potere che deve essere mantenuto a tutti i costi.

La scuola, come istituzione educativa dello Stato è sentita come un'ingerenza in questo sistema, così come le istituzioni dello Stato tendenti a mantenere l'Ordine costituito, e le è consentito solo di avere un ruolo educativo del tutto secondario e di scarsissima incisività: fondamentalmente rimane collusa e non riesce a portare alcun messaggio innovativo. Gli insegnanti in quanto rappresentanti di uno stato alieno sono assimilitati agli "sbirri".
Potrebbe venirne fuori uno straordinario film, se diretto da un regista sufficientemente visionario...
Questa in breve la sintesi della storia, come viene presentata dalla stessa casa editrice.
Spedito a far supplenze in una scuola del Sud più profondo, il protagonista di questo romanzo si accorge ben presto di essere finito in un villaggio dei dannati partorito dalla mente di Stephen King o da un B-movie italiano, più ancora che da Ignazio Silone o da Ernesto De Martino. Non solo per il tasso di mafiosità che spinge ogni giorno grandi e piccini a pregare "liberaci dagli sbirri", e neppure per il caporalato che costringe tutte le donne del paese a lavorare nei campi guardate a vista da feroci kapò, ma soprattutto per il rito tribale che sembra tenere insieme la comunità: un cruento remake della crocefissione che ogni anno segna il destino del paese. Il destino del protagonista, invece, è segnato fin dal primo momento: innamorato perdutamente della donna sbagliata, la ragazza del Capo, picchiato e malconcio, progetta la grande fuga

sabato 3 luglio 2010

Immobilità, il richiamo del viaggio

Seduto sulla panchina
in un parco all'imbrunire

Sotto il culo,
pietra fredda e dura
Sulla mia testa,
voli nervosi di rondoni,
e quelli segmentati,
sgraziati, di qualche pipistrello
già uscito dalla tana

Si prepara la movida:
uomini e donne
agghindati e in tiro,
festanti d'una festività mortifera
si dirigono a passi veloci ed impazienti
verso la Cuba
avvolta in una cortina
di chiacchiericcio e note musicali

Lo stile è quello della mancanza di stile,
genere cafonesco-cafonàl,
ostentato,
il requisito indispensabile
per essere gente della movida

Io me ne sto abbarbicato alla mia panchina,
il culo che si raffredda
a contatto della pietra

Penso alla strada,
al viaggio,
ad un orizzonte mobile
alle molte possibilità che si aprono
quando ci si muove nel mondo
in scenari mutevoli,
cercando se stessi
senza sapere mai in anticipo
ciò che si troverà

Poi mi alzo,
quando s'è fatto quasi buio,
e con la mia cagnetta
a passo lento me ne torno a casa

Un guscio confortevole
che, a volte si fa troppo stretto

venerdì 2 luglio 2010

Quelle scarpe dalla suola sbrisolona...


Il post di due giorni fa "Fu così che partii con un paio di sandali spaiati" mi ha fatto ricordare di un'altra storia di scarpe accaduta pochi anno in occasione del matrimonio di Alessandra, figlia di mia cugina Luciana con Tomàs. Quel racconto, riesumato dai meandri del mio PC lo riporto qui di seguito, così come lo scrissi allora senza apportare nessuna modifica... Il testo è stato elaborato il 21 luglio 2005. Ho modificato soltanto il titolo. Il termine "sbrisolona" viene da un dolce del Nord Italia che ho mangiato proprio in questi giorni e la cui caratteristica è appunto quella di sbriciolarsi con estrema facilità.
Per completare la storia dirò che, per levarmi ogni scrupolo sono andato dal calzolaio con le nude tomaie, chiedendogli quando sarebbe costato rifare le suole ex-novo. Il calzolaio mi lanciò un'occhiataccia cquasi che fossi fuori come le terrazze e poi sparò una cifra esorbitante. Gli voltai le spalle e me ne andai per buttare subito dopo i due rottami nel più vicino cassonetto della monnezza. E, per fortuna, che allora non c'era ancora il delirio della raccolta differenziata (in chiave palermitana, ovviamente...).

Per il matrimonio di Alessandra e Tomàs, mi vesto - per così dire - elegante.
Anche se - considerando le mie abitudini dire "elegante" è, a dir poco, usare una parola grossa...
Mi sono ricordato di possedere un bell'abito nero, acquistato due anni fa per una sera di capodanno e da allora mai indossato di nuovo, forse per una sorta di rimozione di quel periodo. Ho anche deciso di utilizzare - per tenere su il tono - un paio di scarpe nere (comprate ai tempi in cui transitai come una cometa in un club del Lyons'), economiche, non griffate, ma dignitose.
Anche queste utilizzate ben poche volte e sempre accuratamente riposte nella scarpiera che tengo in veranda (non dimentichiamo questo dettaglio: d'estate sottoposta ai dardi d'un sole cocente che realizza temperature da fornace).

Quando ho completato la vestizione, mi sono contemplato nella specchiera, contento di ciò che vedevano i miei occhi: per una volta, avevo la sensazione di non essere vestito come uno scalzacani.
Ci siamo mossi per il matrimonio in gruppo, con mio fratello e con la mamma: prima in chiesa (la chiesetta di San Cataldo dei Cavalieri del Santo Sepolcro: suggestivissima).
Poi, spostamento in auto per un agriturismo a circa settanta chilometri da Palermo (
"Il Vecchio Frantoio", ubicato in una contrada tra Scillato e Polizzi). Un posto bellissimo, ben messo, pieno di fascino: una corte interna lastricata e dei percorsi con una pavimentazione di acciottolato.
Ma all'improvviso comincio ad avere delle sensazioni strane nella mia statica: mi sembra di non aver un buon appoggio sotto i piedi, come quando c'è qualcosa appiccicato sotto la suola che fa spessore e ti impedisce di sentirsi ben saldo sulla tua base d'appoggio.
Persistendo questa fastidiosa impressione, mi decido a dare un'occhiata alla scarpa: con mio sgomento, mi accorgo che la parte della suola corrispondente al tallone, dunque il tacco, è totalmente sbriciolata, aperta in ampie spaccature come se la gomma fosse stata intaccata da una specie di lebbra della plastica.
Cuore in gola... O dio!
Esamino, a questo punto, anche la suola dell'altra scarpa, sperando in una fortuna migliore.

Ma niente!
Stessa cosa: mala suerte, si direbbe...
Sono sgomento, ma poi decido di prendere la faccenda con filosofia e di riderci un po' su.
Man mano che la serata va avanti ed io con nonchalance mi muovo qua e là, le suole delle due scarpe, continuano a dissolversi: una lebbra dilagante con velocità esponenziale...
I mie piedi assumono la postura tipica di Scaramacai con i talloni piantati in terra e le punte rialzate; poi, questa postura si ridimensiona, quando anche la parte di suola in corrispondenza dell'avampiede comincia ad erodersi e a sfaldarsi.

In pratica, verso la fine della serata, mi ritrovo a camminare con ai piedi un paio di babbucce fatte con la sola tomaia ormai quasi del tutto ripulita da ogni residuo di gomma.
Il giorno dopo, quando sono andato per prendere la macchina, mi sono accorto che sul tappetino, in corrispondenza del posto di guida, c'era un macello di detriti di gomma nera, in parte ridotta a polvere sottile.
Dilemma: varrà la pena portare le due tomaie ripulite dal calzolaio per farle risuolare?

Forse ci proverò.

Ma, in attesa di decidere, le due “tomaie” le ho riposte nello stanzino di sgombero.
Vedremo...

giovedì 1 luglio 2010

L'inferno di Treblinka nel reportàge di Vasilij Grossman


Anche chi abbia avuto occasione di leggere molte testimonianze e saggi sulle devastanti azioni perpretate all'interno dei campi di concentramento nazisti, proverà sgomento nello sfogliare le pagine del reportàge di Vasilij Grossman su Treblika (L'inferno di Treblinka, Adelphi, 2010).
Nelle sue pagine che costituiscono un
folgorante, esemplare, reportage - fondato su testimonianze di prima mano, raccolte subito dopo l'ingresso delle truppe russe nel campo di Treblinka - e scritto, quindi, subito dopo la liberazione del campo, nell'autunno 1944 -, viene rappresentata da Vasilij Grossman, inviato di guerra d'eccezione, la più terribile fabbrica della morte nazista Il resoconto breve, ma denso e impressionante nella csua essenziale crudezza, venne inizialmente pubblicato sulla rivista "Znamja" (Bandiera).
Per iniziativa del procuratore militare sovietico, in occasione del processo di Norimberga, ne venne data lettura davanti al collegio d'accusa.
Soprattutto a Treblinka, le SS cercarono di cancellare ogni traccia dei loro misfatti, ma non poterono portare a termine la loro opera, poichè - negli ultimi giorni prima della liberazione - si sviluppò proprio qui un'insurrezione armata da parte dei deportati.
Il caso di Treblinka è meno conosciuto ed inflazionato nei media, forse, rispetto a quello di altri campi della morte: Grossman nella sua cronaca enfatizza due elementi, in partiolar modo. Uno era che molti dei deportati (compresi anche gruppi di non ebrei) erano persuasi con l'inganno a fare questo trasferimento. L'altro è che, qui, la fabbrica della morte fu più rozza di quanto non accade ad Auschwitz: basta leggere il racconto di Grossman per capire perchè. Forse, perchè qui - a differenza di Auschwitz non vi era nessun impianto industriale da alimentare con manovalenza di schiavi a bassissimo costo.
A Treblinka la catena di montaggio di morte era indistintamente per tutti coloro che arrivavano con i convogli plurigiornalieri: non veniva operata alcuna selezione, poichè tutti dovevano essere soppressi non appena fossero arrivati, secondo una procedura che, con precisione meccanica, si ripeteva più volte al giorno.

Infine, un terzo aspetto significativo è che Treblinka fu il luogo di morte non solo di ebrei, ma anche di rappresentanti di altri gruppi etnici e di molti internati politici.
Leggendo alcuni dettagli, quali la gratuita crudeltà delle SS, il modo di spogliare i deportati di qualsiasi traccia della loro umanità e della individualità di ciascuno, l'uso di strumenti di intimidazione, saltano immediatamente all'occhio alcuni elementi che lasciano suppore che l'orrere di quei campi non sia mai finito e che, piuttosto, venga perpetuato in molti modi e in molti scenari diversi - anche contemporanei.
Viene naturale pensare a ciò che è accaduto nellla base-prigione di Guantanamo, sino alla sua chiusura, e a ciò che è stato perpetuato ad Abu Graib, con una ferocia inaudita, analoga e sovrapponibile a quella della SS a Treblinka.
Ci sono delle barriere e delle inibizioni ad agire che non bisognerebbe mai abbattere e, soprattutto, bisogna ricordarsi che qualsiasi azione volta a spogliare un essere umano della sua "umanità" e della sua specificità di individuo porta immediatamente a conseguenze nefaste, poichè un essere "reificato" e "amorfizzato" può ricevere qualsiasi trattamento senza che si attivino blocchi comportamentali fondati sull'empatia.
 
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