venerdì 12 febbraio 2010

Sono rovinato. Ho fame grande!


Uno strumento del mestiere...
Una volta, un questuante "del semaforo" esibiva un cartello del tutto simile nel quale aveva aggiunto, a beneficio di chi non avesse compreso la parola "fame" l'equivalente idioma siciliano "pitittu" (termine evidentemente ritenuto dall'ignoto estensore di più universale comprensione)...



Lo stesso cartello é stato predisposto in versione "double face", per poter essere uno strumento duttile e buono per tutte le stagioni.
In questa seconda versione, il messaggio é un filino più drammatico, visto che esordisce con un "Sono rovinato!"...

Ogni strumento è buono per captare l'attenzione dei possibili elargitori di oboli.

E così prospera una fitta schiera di dickensiani mendicanti, alla quale ormai siamo ben adusi: tipologie di accattoni ben diversi da quelli stanziali davanti ai portoni delle chiese e strettamente connessi con la necessità di poter praticare forme di buonismo (ipocrita) di stampo cattolico.

Anche dare dei piccoli oboli a questi "nuovi" mendicanti è una forma di piccolo "ammortizatore" sociale, in fondo.

Per esempio, davanti al supermercato dove faccio abitualmente la spesa c'è una signora zingara, sempre gentile e sorridente.

Chiede, ma con dignità, senza mai pressare i clienti che escono i sacchetti della spesa, senza molestare.

Io arrivo sempre con la mia cagnetta al guinzaglio e la signora è prodiga di festeggiamenti. Poi, si offre di tenerla lei al guinzaglio, mentre io sono all'interno.

Quando ho finito, le do sempre volentieri qualcosa, senza lesinare, perchè mi fa simpatia con questo modo di sorridere non ipocritamente e di essere sempre di buon umore.

Cortesia e gentilezza mi mandano letteralmente in estasi, come pure la dignità di chiedere senza chiedere e quella, preziosa, di sorridere sempre, anche quando non riceve neppure una monetina.

L'esposizione d'un cartello come quello di cui parlo è invece meno "dignitosa", ma è pur sempre uno strumento, perchè in fondo allude ad una dimensione di vita condotta quasi sempre al limite della sussistenza.

Il problema, invece, può sorgere quando donne e bambini vengono inviati a battere le strade per fare la questua e poi, se non portano a casa un "raccolto" sufficiente, vengono puniti con le percosse dagli uomini che, nel frattempo, se ne sono stati molto comodamente al coperto a bere e a fumare.

Lì si tratta di abuso, violenza, sfruttamento.

E allora non si può più essere in alcun modo solidali con la miseria esibita.


3 commenti:

  1. Alice Ferretti ha scritto

    “La fame è riferita letteralmente al bisogno di cibo; può anche essere applicata metaforicamente ai desideri di altra natura” (da Wikipedia)
    Osservando questo cartello, al di là di pensieri rivolti al "questuante" che può averlo posizionato sul marciapiede, mi è venuto in mente anche un sevizio fotografico in un giornale di un mese fa, sulla bacheca di un’edicola, dove in primo piano veniva mostrato il ventre tatuato di Angelina Jolie "quod me nutrit me destruit", ovvero“ciò che mi nutre mi distrugge“.
    Apparentemente può sembrare che si riferisca al cibo mentre penso che abbia a che fare anche con l'amore e la passione.
    Sotto l’articolo se ben ricordo c‘era scritto “Niente è in grado di distruggerti se non quello che desideri”, e questo perché c'è sempre una parte che contribuisce alla nostra distruzione in ogni cosa piacevole e bella che desideriamo.
    I desideri a volte sono quasi impellenti come i bisogni fisiologici del nostro intestino.
    Vi capita mai di sognare di ridurre in polpette un uomo e poi friggerlo fino a che, anche l’ultimo granello di carne è ben cotto? …una cena con delitto.
    Questo ci conduce al legame cibo-omicidi, alla magia che lega il cibo e l’arte del delitto, e.... "ciò che non ci uccide ci rafforza" (Nietzsche).

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  2. Questo commento mi ha fatto venire in mente un romanzo di Slavenka Drakulic che lessi molti anni fa, dal titolo "Il gusto di un uomo".
    E' la storia di due giovani studiosi universitari che, mentre seguono un corso di studi all'estero (A new York, un luogo straniante per entrambi), si conoscono e si amano appassionatamente. Ma il loro amore è a termine, perchè, entrambi, presto dovranno tornare nel loro paese d'origine e alle rispettive famiglie.
    I due non vogliono lasciarsi e mettono a punto un piano per non doversi separare.
    Dopo un ultimo amplesso, lei uccide il suo amante e si nutre dei suoi polpastrelli, inglobando quindi - e non solo simbolicamente - l'energia creativa ed erotio- sensuale della mano di lui (la mano come strumento della relazione, del tocco, della carezza, ma anche della potenza della scrittura creativa). Si disfà poi del cadavere, sminuzzato in tanti pezzi e se ne ritorna nel suopaese d'origine e nella sua città, portando con sé l'amante per sempre.
    Un grande libro, molto potente nella sua rappresentazione "estrema" di un amore impossibile, che pure è stato di una terribile intensità.
    Alcuni hanno definito questo romanzo un "horror" metafisico...
    Grande scrittrice, Slavenka Drakulic (croata), purtroppo poco conosciuta al pubblico italiano.
    Me lo ha segnalato, tanti anni fa una signora croata che avevo in terapia.

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  3. a me - in modo molto meno poetico e sensibile - viene in mente la scena del film "così parlò Bellavista" in cui c'era un signore che chiedeva l'elemosina sui gradini, esibendo con dignità un cartello sul quale si leggeva "ridotto in questo stato dal cognato".
    mi è sempre sembrata una scena di una pungente ironia, nata da una di quelle intuizioni improvvise che un regista desidera avere almeno una volta nella vita. una frase che rappresenta un mondo, tante vite, intrecci e sviluppi inimmaginabili...

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