lunedì 7 dicembre 2009

Emil Zatopek: uno dei grandissimi della corsa prolungata tra storia e leggenda

Ci sono alcuni personaggi emblematici della corsa, il cui ricordo crea immediatamente profonde emozioni. Ci sono corridori puri che sono entrati nella leggenda e nel mito e che accendono l'immaginario degli amanti del gesto puro della corsa. Emil Zatopek è appunto uno di questi personaggi-emblema che - per la sua resistenza - venne definito la "locomotiva umana" o anche "uomo-cavallo" ma non semplicemte un cavallo da tiro ma un vero "purosangue".
Di lui si diceva che si allenasse, indossando gli scarponi militari per migliorare la forza della spinta e che corresse per oltre mille ore all'anno, (con una media di circa 30 km al giorno).
Dal sito di RaiSport: "Il vero segreto di Zatopek si incarna nella capacità di soffrire, esercitata con allenamenti forsennati, eseguiti su sentieri accidentati con pesanti scarponi militari ai piedi".
Anche per questo è una figura mitica quella che scomparve definitamente dalla scena del mondo alla fine di novembre del 2000.
E' uscito da pochissimo in Italia (per i tipi di Adelphi) un libro che ripercorre la vicenda umana del grande fondista cecoslovacco, che dall'autore viene chiamato solo per nome, Emil, e vivisezionato attraverso il suo gesto atletico: correre, appunto (il titolo del libro in lingua francese è "Courir").
Il racconto di Jean Echenoz si legge con grande fluidità, quasi fosse un romanzo, perchè in poche pagine essenziali, senza troppi dettagli, crea una rappresentazione vibrante ed intensa di Emil Zatopek, uno dei grandissimi interpreti mondiali (e nella storia) del mezzofondo, del fondo e del cosiddetto fondo prolungato. Nella primissima giovinezza in epoca pre-bellica fece le sue prime esperienze di corsa che egli non amava particolarmente ma che cominciò a praticare dietro le pressioni e le suggestioni dei suoi amici, per poi diventarne appassionato, ma quasi sempre in solitaria.
Emil Zatopek fu un corridore senza maestri: fu semplicente maestro di se stesso.
Nell'allenamento seguiva soltanto il suo istinto, percorrendo in ogni seduta lunghissime distanze a strappi (alcuni dicono anche una media di 30 km al giorno): era questo il suo segreto per poter avere sempre una riserva di forze nelle gare. I suoi allenamenti erano duri, sfiancanti, resi possibile da un'insolita capacità di soffrire (e forse anche da un certo piacere per la sofferenza).
Specie in gara, praticava una corsa strana, stilisticamente orrribile. In un'epoca in cui s'affermava con la scuola finlandese (Paavo Nurmi), la teoria del ritmo costante come strategia di approccio alle gare lunghe, lui era uno che, anche nelle gare lunghissime, correva a scatti, spezzava il ritmo, disorientando gli avversari, soprattutto rivelando di possedere sempre qualche cartuccia di riserva. Si muoveva scompostamente, faceva smorfie, digrignava i denti, ancor più nel finale quando il suo volto si atteggiava in una sorta di rictus spasmodico e stravinceva.
Alcuni, studiando il suo stile "non-stile" dissero di lui che, come corridore, possedeva un potentissimo motore, su cui era montata una carrozzeria, ridotta ai minimi termini, quasi inesistente e senza nessuna concessione all'estetica.

Quando, per la prima volta, nel dopoguerra, partecipò al Campionato Militare inter-alleati di Berlino, (1946) nessuno avrebbe scommesso un soldo bucato su di lui. Si presentò da solo - lui era l'intera delegazione cecoslovacca -, vestito con abiti sportivi scalcagnati, tanto da suscitare all'ingresso nello stadio di Berlino - lo stesso dei giochi olimpici del 1936 - l'ilarità e il dileggio di tutti gli astanti. Ma quando, nella gara dei 5000, passò in testa alla gara, polverizzando tutti gli avversari, 80.000 persone si scatenarono in un delirio di applausi e ovazioni. Realizzò imprese inaudite, come quella di vincere in una stessa Olimpiade (Helsinki, 1952) l'Oro nei 5000, nei 10.000 metri piani e nella maratona, stabilendo in questo senso un record che rimase imbattuto.
I dirigenti filosovietici presto (con l'appensantirsi dei gravami della Cortina di ferro) cominciarono ad interpretare questa sua capacità straordinaria come espressione d'un deprecabile individualismo borghese e presero ad ostacolarlo nelle trasferte sportive oltrecortina.
Ma Emil Zatopek era sempre ottimista, non mollava mai e riusciva a mantenere malgrado le avversità una grandissima brillantezza, anche quando la miopia dei dirigenti di partito e dei suoi superiori (per benemerenze sportive aveva fatto carriera nell'esercito sino al grado di Colonnello) gli impediva il confronto con avversari di grandissima qualità.
E, nello stesso, fu vittima dei giornalisti del blocco dell'Est, a cui rilasciava sincere dichiarazioni su ciò che aveva visto nei paesi occidentali in occasione delle sue trasferte sportive e che essi regolarmente distorcevano, facendolo diventare agli occhi di quei paesi occidentali "ospite sgradito".
Ad un certo punto cominciò a perdere, ma sempre con dignità.
Il commento fuori campo di Echenoz, alla fine del 15° capitolo:
Non so voi, ma personalmente di tutte queste imprese, e record, e vittorie, e trofei, comincio a non poterne più. Il che cade a proposito, perchè, proprio adesso, Emil sta per mettersi a perdere. (p. 115)
Non per questo, Emil rinunciò a competere: non fece come tanti atleti di nostra conoscenza che partecipano soltanto quando sono certi che potranno vincere. Lui, il grande campione, continuò ad essere presente, riconoscendo che adesso c'erano dei giovani che si allenavano più di lui, che lui era più vecchio, dando onore e merito ai propri avversari più valenti, sino alla clamorosa "caduta" nella maratona delle Olimpiadi di Melbourne.
Terrà duro sino allo stadio ma, sconfitto, giunto sesto nell'ultimo rettilineo, Emil cade in ginocchio e affonda la testa nell'erba gialla e resta così per lunghi minuti durante i quali piange e vomita ed è finita, tutto è finito.(p. 133)
Emil Zatopek ebbe la stoffa del campione generoso, anche se timido, e con alcune stravaganze (ero noto per il fatto di indossare, quando andava all'estero, un berretto di lana rosso con ponpon) e cultore di uriosità, come quella di verificare - andando per la prima nell'emisfero opposto - se fosse vero l'effetto Coriolis.
Con Dubcek e la primavera di Praga, lui, ormai non più attivo come atleta ma sempre considerato un vero e proprio eroe nazionale e popolare, fu invitato a dire la sua in pubblico, mentre i carri armati sovietici invadevano le vie di Praga. E lui, davanti ad una folla numerosa, parlò senza paura, pur non avendo - lui così schivo e gentile - alcuna esperienza delle folle.
Al diavolo, prende la parola: sforzando la sua voce sottile, l'eroe nazionale dice la sua, denuncia, condanna l'invasione delle forze del patto: Parlando dal suo punto di vista, e dato che fra qualche settimana cominceranno a Città del Messico le prossime olimpiadi, improvvisa un discorsetto nel quale invita l'esercito a rispettare una tregua olimpica. Nel caso non fosse abbastanza chiaro, precisa ulteriormente il suo pensiero, invitando persino a boicottare, in occasione di queste olimpiadi, l'Unione Sovietica. (p. 144)
Avvenuta la restaurazione, la punizione del Regime non si fece attendere. Zatopek venne privato dei suoi gradi nell'esercito, costretto a sottoscrivere un documento nel quale rinunciava alla sua pensione di Colonello dell'esercito ed inviato a lavorare nelle miniere di uranio nel Nord Ovest del paese, dove rimase per sei lunghi anni.

Poi, venne richiamato a Praga a lavorare come spazzino, nell'intento da parte della Nomenklatura di umiliarlo ancora di più, ma qui - incredibilmente - riprese a correre, a suo modo e venne osannato come eroe.
Malgrado il tentativo di annullarne la fama, il suo volto di eroe buono era rimasto vivo nel cuore dei Praghesi, e dei Cecoslovacchi in genere i quali appena lo vedevano in strada si affaccciavano alle finestre per acclamarlo, mentre i colleghi non gli consentivano di fare il lavoro che avrebbe dovuto fare. A Zatopek, non restava altro da fare che correre a brevi falcate dietro il camion
dei rifiuti: e sicuramente nessuno spazzino al mondo è stato mai così osannato!!!

Una curiosità: nella biografia di Echenoz, in nessun
punto, ci sono date di riferimento. Alcuni avvenimenti del resto rappresentano essi stessi il riferimento temporale perchè sono ultra-noti. Echenoz tace perfino la data della morte del grande campione (2000) e non si sofferma nemmeno a raccontarci gli anni del suo declino fisico. Tuttavia, questi artifici, provocano un effetto di amplificazione della figura di "Emil" perchè sollevano di peso la sua biografia dal solco della storia e la collocano nella leggenda, dove Zatopek continuerà a vivere sempre come un eroe mitico, un eroe capace di grandi imprese ma dall'animo gentile.

Una breve nota sull'autore

Jean Echenoz, nato a Orange nel 1947, si trasferisce a Parigi dopo aver studiato sociologia e ingegneria civile ed esordisce come scrittore nel 1979. Ha ottenuto grande successo con il romanzo Me ne vado, che gli ha fatto vincere il premio Goncourt nel 1999. Ricordiamo Un anno (1997, pubblicato in Italia nel 1998), Al pianoforte (2003, in Italia nel 2008), Ravel. Un romanzo (2006, in Italia nel 2007). Di lui Einaudi ha pubblicato Un anno (nella traduzione di Andrea Canobbio), la cui vicenda s'interseca a sorpresa con quella di Me ne vado, in un gioco di rimandi inaspettati..

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