giovedì 26 giugno 2008

Rallentare il tempo: è tempo perso o guadagnato?

E' tempo perso starsene seduto su una panchina a guardarsi attorno oppure a giocare a carte?
E' tempo perso camminare a piedi senza uno scopo preciso, lasciandosi guidare dalla curiosità o dal caso?
E' tempo perso rinunciare all'uso dell'automobile e andarsene in giro con la bici oppure con i mezzi pubblici disponibili?
Secondo gli accesi fautori della modernità, sì, è proprio tempo perso.
Secondo altri che invece, senza tirare in ballo tante teorie ma semplicemente ricorrendo a "pratiche" di vita controtendenza, il tempo "perso" è, i verità, tempo guadagnato per la propria mente e per la propria vita.
Le "modalità" menzionate sopra (ma se ne potrebbero trovare una infinità di altre) sono tutte
espressione di un diverso atteggiamento nei confronti ell'esistenza, di una diversa "filosofia" di vita - si potrebbe dire.
Abbiamo perso il senso del tempo "lento".
Viviamo in una società accelerata, in cui - sempre e comunque - viene valorizzata la velocità, la capacità di fare molte cose in tempi ristretti.
L'avere a disposizione mezzi "veloci" (per gli spostamenti) e strumenti che potnziano qualsiasi cosa abbiamo in mente di fare è, in alcuni casi, una droga al servizio d'una nostra fantasia di onnipotenza (quella di poter far tutto, sfidando i limiti temporali che ci sono imposti).
Si vuole fare di tutto e di più: non è raro sentire qualcuno che si vanta con il suo interlocutore di tutti gli impegni di cui ha infarcito la sua giornata.
Tante volte, assillati dalla morsa del tempo che viene a mancare per fare tutto ciò che vorremmo, ci diciamo: "Sì, certo, se la mia giornata fosse di 36 ore, allora ci starei veramente comodo!".

Ma se la giornata fosse veramente di 36 ore, probabilmente, si riproporrebbe un analogo problema, con un'ulteriore e soffocante moltiplicazione degli impegni e delle cose da fare.
Ciò comporta, tra l'altro, una "patologia" del nostro tempo che è quella di una sorta di "horror vacui" per quanto riguarda l'organizzazione della giornata: non ci deve essere una solo spazio vuoto, non sono previsti intervalli di tempo nei quali uno stia, per così dire, "a contemplare il proprio ombelico". La percezione di un imprevisto intervallo vuoto in una siffatta organizzazione del tempo può provocare una reazione di acuta ansia.
Il tempo "lento" non pevede, invece, che nell'arco di una giornata si posano fare tante cose: in culture non occidentalizzate (come anche nella nostra morente cultura contadina), a volte, una giornata era consacrata a fare una sola cosa.
Come, ad esempio, andare a raccogliere della legna da ardere.
Una volta, in viaggio in Marocco, nel cuore di una landa deserta, è spuntato dal nulla, un vecchietto ricurvo sotto il peso d'una fascina di legno. Senza fretta, ha imboccato la strada principale che tagliava il piatto paesaggio sassoso come una lama, dritta a perdita d'occhio sino all'orizzonte, e ha proseguito il suo cammino: era un camminare antico che, rimandando indietro di secoli, dava l'impressione forte che le lancette dell'orologio si fossero bloccate.
Da dove veniva? Dietro di lui, apparentemente, c'era il nulla...
Dove andava? Verso qualche luogo sicuramente, ma non c''era nulla in vista, solo il vuoto di un paesaggio desertico.

Ogni tanto, può essere "terapeutico" e rieducativo affrontare le cose in un modo diverso.
Per esempio, rinunciando ai mezzi di trasporto più veloci e affrontando gli spostamenti che dobbiamo compiere con la lentezza dei mezzi di cui ci ha dotato la natura: quei famosi "cavalli di san Pietro" di un tempo, per intenderci!
Se si accettano i ritmi del "tempo lento", si ha l'opportunità di vivere in un modo diverso, di vedere le cose con occhio in qualche modo trasformato: c'è infatti il tempo di guardarsi attorno, di percepire il verde intenso della vegetazione, lo stormire delle foglie nel vento, il tubare dei piccioni, il cinguettio eil frullo d'ali di altri uccelli.
Tutto ciò che ci circonda può entrare vividamente nel nostro campo percettivo, lo possiamo assaporare: e, quando ciò accade, è un'autentica festa.
Fermarsi a riposare, utilizzando una provvida panchina ombreggiata da un albero può essere un modo per vivere la lentezza.
Un noto scrittore e saggista italiano Beppe Sebaste ha pubblicato di recente un bel libro sulle panchine, dall'interesante titolo (ed esplicativo, per chi sa leggere la grana delle cose, "Panchine. Come uscire dal mondo dal mondo senza uscirne, Laterza, 2008). L'autore, in toni solo apparentemente minimalisti ma in verità con molta passione, intesse in una serie di brevi, smaglianti, capitoli l'elogio della "panchina" (un oggetto
degli arredi urbani che tende a diventare obsoleto per insipienza degli stessi amministratori) come luogo in cui si può sostare e dove si può appunto percepire una diversa dimensione (e qualità) del tempo.
Alcuni direbbero che sedersi su di una panchina in pieno giorno è una cosa da pensionati o da nullafacenti e perditempo, per non dire che sia degna di personaggi ben più temibili ed affliggenti (nell'immaginario collettivo di stampo leghista), come extracomunitari, drogati, barboni e accattoni, tanto da avere indotto alcune amministrazioni comunali ad abolire le panchine dal proprio panorama urbano, proprio per disincentivare gli oziosi, identificati tout court con una fastidiosa ed esecrabile marmaglia.

La panchina, in verità, è un luogo privilegiato che consente di mettersi in assetto di osservazione contemplativa di ciò che accade intorno; è il luogo della calma e dell'immobilità, in contrapposizione con la frenesia della vita moderna (vi ricordate l'azzeccata pubblicità in cui Ernesto Calindri se ne stava seduto comodamente ad un tavolino in mezzo al traffico caotico? Quella pubblicità aveva indovinato ad abbinare il prodotto promoso - un famoso amaro - con la tranquillità dello star seduto appunto); ma la panchina è anche un luogo in cui ci si può fermare a fare uno spuntino che ci si è portato da casa, a bere una bibita rinfrescante oppure a consumare pensierosamente un gelato.Il bello è che, per accomodarsi, non bisogna chiedere il permesso a nessuno nè c'è una tariffa da pagare (in questi nostri tempi moderni, dominati dal business a tutti i costi, in alcuni casi, è proprio questa gratuità a dar fastidio); la panchina è il luogo di conversazioni improvvisate in tempi in cui la gente non si parla più; ma, soprattutto, come dice Sebaste, per tutti questi motivi, la panchina è il luogo del tempo "guadagnato".

Polizzi Generosa, giugno 2008

Già, a ben guardare, la categoria "tempo perso" è una raccapriciante invenzione della modernità velocizzata. Invece, capovolgendo i termini della discussione, se si perde del tempo, si guadagna tempo: nel senso che, soggettivamente, si vive un tempo più lungo.
Ma tutto questo è difficile farlo comprendere ai più giovani che sono stati allevati in una società velocizzata e a regole ferree fortemente condizionanti.
Un esempio.
L'altro giorno è stato un giorno di godimento pieno sotto questo profilo: ho deciso di andare al mare (a Mondello) a piedi. Niente di che, se non si è assillati. Camminando a passo sveltino (ma non troppo) un'ora e 15 minuti per percorrere da casa mia circa 8 chilometri. Ma non è questo il punto. L'essere a piedi induce a ragionare in termini diversi: non si fanno più le cose ad incastro, ma - invece - si accetta il principio di fare soltanto quel che si può. Quindi, al mare sono stato con comodo senza sentirmi costretto a pianificare un ritorno mozzafiato in città per sbrigare qualche incombenza. Alla fine della giornata, quando il sole già tramontava , io e mio figlio siamo andati alla fermata dell'autobus. Con diversi atteggiamenti, tuttavia: io senza nessun assillo; mio figlio, invece, permeato di cultura della "velocità" (portata all'estremo dalla consuetudine con i videogiochi) insofferente e lamentoso delle inevitabili attese. Il viaggio in autobus, poi, è stato un autentico godimento, anche perchè - da una vita - non viaggiavo con questo mezzo. Ho avuto modo - durante il tragitto - di osservare il paesaggio secondo prospettive nuove ed inedite, ma anche gli altri passeggeri. Ed anche questo mi è piaciuto. La fermata utile era un po' lontana da casa e, quindi, abbiamo dovuto fare questo ultimo tragitto a piedi. E, di nuovo, vi è stata la discrepanza di stati d'animo, tra quello sperimentato da me e quello di mio figlio. Io contento di camminare senza fretta alcuna e mio figlio insofferente. Proprio a questo punto, Francesco ha fatto un commento sul fatto che andare in autobus, avendo altri mezzi di locomozione a disposizione, era una perdita di tempo. E' stato qui che ho cercato di spiegargli la differenza tra tempo veloce e tempo lento, tentando di fargli vedere che, se si rinuncia alla velocità, forse si guadagna qualcosa di nuovo ed inedito. Ma non c'è stato verso: il suo retropensiero è rimasto immutato. Magari, un domani, Francesco si ricorderà di questa nostra conversazione e la rivaluterà. Questa, in fondo, è la speranza di ogni genitore: poter trasmettere qualcosa ai propri figli e soprattutto un patrimonio di pensieri e di riflessioni.
Insomma, ogni tanto, bisognerebbe fare qualche piccolo esercizio per provare a sperimentare il tempo lento, come - ad esempio -
    • sedersi su una panchina e rimanerci seduto per un po' di tempo
    • dedicare un po' del proprio tempo a camminare a piedi
    • andare in bici
    • rinunciare ad infarcire la propria giornata di impegni da superman
    • stare senza fare niente
    • guardare le rondini che intrecciano voli in cielo
    • etc
    • etc
Insomma attraverso un diuturno esercizio di questo tipo (arricchito dalla fantasia di ciascuno con infinite variazioni), a poco a poco, si potrà entrare nella percezione del tempo "lento" e allora, veramente, qualsiasi posto diventarà un luogo privilegiato per godersi il mondo.



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