sabato 31 luglio 2010

Una gita estiva a Eraclea Minoa: l'importante è stare sulla strada


Una mattina di sabato, sono stato preso all’improvviso dall’irrequietezza. Ho sentito dentro di me, con forza, che dovevo andare da qualche parte. Mettermi in libertà su di una strada, percorrere dei chilometri.

Appena avvertito questo richiamo interiore, ho deciso di andare ad Eraclea: l’ultima mia gita lì, del resto, era avvenuta nel 2008.

Già il viaggio in sé è splendido. Secondo me, la Scorrimento veloce Palermo-Sciacca è una delle più belle strade di Sicilia, con i suoi scenari continuamente mutevoli e maestosi nella sua prima parte sino a quando si entra nell’ampia Valle dello Jato.

Ho scoperto, da un cartello esplicativo, che viene chiamata anche “Via della Liberazione”, forse perché - proprio per via del fatto che consentiva di valicare facilmente la catena montuosa nel Nord della Sicilia ed arrivare a Palermo in modo diretto - nella II Guerra Mondiale venne scelta dagli Alleati come via maestra della loro avanzata militare (ma su questa cosa non ne so di più).

Sosta di riposo in una sperduta area di servizio, nel bel mezzo del nulla, tutt’attorno campi rivestiti di stoppie gialle, cielo incredibilmente azzurro, nessuna nuvola: per guardarsi attorno bisogna stringere gli occhi tanto è forte ed intensa la luce.

Un forte vento spazza ogni cosa.

Altri gitanti sono fermi come me nel bel mezzo del nulla: forse, vanno al mare.

Mi piacciono e li osservo a lungo, mentre fumo una sigaretta.

Il riverbero sulla strada costiera è abbacinante.

Ci sono scavi e lavori in corso dai quali si levano, con il vento, nuvole di polvere tufacea bianca, finissima.

E finalmente, a Eraclea Minoa.

Vado a parcheggiare direttamente nell’area di sosta davanti all’ingresso delle rovine dell’antica città e, a passo svelto lunga la strada sterrata non percorsa da anima viva, con il mio zainetto, mi dirigo verso il punto da cui potrò scendere sull’altro versante di Capo Bianco.

Il vento ora è fortissimo, continuo, l’aria ha una lucentezza perlacea, dovuta alla polvere finissima e alla salsedine di cui è carica.

Quando mi fermo a scattare una foto, faccio fatica a tenere con mano ferma la mia macchinetta e devo ripetere più volte la stessa inquadratura per ottenere un’immagine soddisfacente.

Ma il riverbero è così forte che, nel display, non si riesce a vedere quasi nulla anche mettendolo in una posizione in cui sia ombreggiato.

Quando arrivo, calandomi a fatica lungo un sentiero piuttosto erto, la spiaggia ha un aspetto da apocalisse, battuta com’è dal vento impetuoso ed incessante.

Eppure ci sono tanti – si fa per dire: non più di due decine di persone che se stanno sparse nell’immensità del tratto di spiaggia delimitato da un lato da Capo Bianco, dall’altro dalla foce del fiume Platani e, alle spalle, da una fitta e bassa boscaglia, pressoché impenetrabile, non fosse per qualche sentierucolo appena tracciato sul terreno sabbioso.

Passeggio lungo l’arenile di sabbia e di ghiaia.

Le onde sospinte dal vento vi si abbattono furiose con creste spumeggianti e, dopo essersi rotte, si ritirano formando una vigorosa risacca.

Non credo che, in questo momento, sia del tutto consigliabile farsi un bagno.

Infatti, molti preferiscono l’acqua molto più cheta del fiume, laddove dopo una morbida ansa, l’acqua dolce si appresta a mescolarsi con quella salsa.

Sono tanti a starsene lì, indolentemente.

Ripercorro di nuovo tutta la spiaggia e cerco di trovare riparo dal vento in qualche anfratto a ridosso di Capo Bianco, ma niente…

Ripasso davanti alle due dozzine scarse di frequentatori della spiaggia: la più parte abbarbicatia al proprio telo, e tendenzialmente avvinti a coppie, come Paolo e Francesca: almeno se dovessero essere trascinati via da una raffica più impetuosa di questo vento che muggisce e sospinge e strattona rimarrebbero vincolati l'uno all'altro (E paion sì al vento esser leggieri, Dante, Inferno, V).

Qualcuno dei coatti della tintarella ha eretto un riparo di fortuna, con detriti vari, pezzi di plastica, canne e foglie di palma morte, proprio come naufraghi in un’isola tropicale (anche se l'immagine esotica e romantica dell'isola deserta è ormai irrimediabilmente corrotta dall'affacciarsi alla mente del déjà vu delle tante, troppe, "isole dei famosi").

Ma quando giungo, dopo molto arrancare, alla grande parete tufacea da cui si levano di continuo nuvolette di polvere farinosa, mi rendo conto con sommo dispiacere che anche là le raffiche sono tumultuose e s’ingolfano in correnti violente e vigorose, deviate disordinatamente anziché essere trattenute dalle balze di roccia di un biancore abbagliante.

Anche da seduti, le cose non cambiano granché. Fuori discussione l’idea di starsene per un po’ a leggere un libro…

La sabbia percuote con forza pungente ogni centimetro libero della mia pelle, infilandosi sotto gli occhiali e riempendomi gli occhi.

E’ sottilissima e ha un grande potere abrasivo.

Gli occhi mi fanno male e la pelle brucia, sottoposta come alle innumerevoli micropunture dei singoli granelli sililicei, rivestendosi velocemente d’un sottile strato bianco che ha un effetto disidratante.

Pilucco un po’ di frutta che ho portato a casa e, così, si placa l’arsura che mi prosciuga le mucose. Un piacere effimero perché la scorta è presto finita…

Decido di andarmene, dopo un po’.

Non resisto più all’assalto del vento…

Rischierei di scomparire, dopo un po’, abraso dalla sabbia, oppure di essere trasformato in un Crispi smerigliato e sabbiato.

Del resto, ho avuto modo di placare la mia nostalgia e respirare quest’aria, riempiendomi di sensazioni arcaiche e del potere tuttora vibrante di energia di questo luogo battuto dai venti dove antichi popoli ebbero l’ardire di costruire un’intera città dinanzi al mare infinito su cui lo sguardo corre vertiginosamente verso l’orizzonte senza essere trattenuto da nessun ostacolo e, oltre, sai che ci sono il Golfo della Sirte e l’Africa immensa e misteriosa (che però non puoi vedere, ma solo immaginare).

Il resto della giornata, si sviluppa on the road, con il desiderio di fermarmi da qualche parte, ma senza mai trovare un luogo di sosta che potesse darmi pieno soddisfacimento…

La visione di Secca Grande, niente più che una grande colata di cemento come appendice residenziale estiva di Ribera, battuta dalle raffiche, polverosa e dall'aspetto messicano, mi scandalizza e mi fa desiderare una pronta fuga verso altri lidi, mentre la spiaggia di Porto Palo di Menfi, affollatissima e brulicante di vita come un formicaio, mi accontento di guardarla per un po’ dall’alto dal cono di ombra dell’antica torre di guardia.

E, poi, come classico dell’erranza, ci sono delle soste per rifocillarmi e riposarmi in un paio di stazioni di servizio.

In una sosta lungo la Statale che porta da Sciacca ad Agrigento mi fermo a mangiare una provvida porzione di pani cunzatu locale (mangiabile, ma niente a che vedere con quello – mitico – di Scopello) e un ottimo “cremino” al posto del classico caffè espresso caldo.

Vivere sulla strada, in continuo movimento, in solitudine, con la libertà di decidere quando fermarsi e quando andare, è una cosa che ha comunque un suo fascino potente ed ineguagliabile.

Poi, all’imbrunire, il lento ritorno a casa.

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