Dal 1993 ad oggi 5000 donne sono state rapite, stuprate, seviziate e infine uccise, a Ciudad Juarez (Mexico, Stato di Chihuahua) a breve distanza dal confine con gli USA: i brutali assassini si presentano tutti con un modus operandi che li riporta ad una comune matrice. È una cifra davvero enorme, quasi irrappresentabile: nemmeno il più feroce dei serial killer, operando da solo, potrebbe arrivare a collazionare nel corso della sua carriera criminale un tale numero di vittime.
Quello di Ciudad Juarez è un autentico rompicapo: investigatori messicani ed esperti di criminal profiling inviati dagli USA ancora non sono riusciti a risolverlo, e a niente è valsa la forte mobilitazione popolare promossa dalle famiglie delle vittime costituitesi in associazione.
Si sospetta che, ad alto livello, vi possano essere delle connivenze politiche che pongono divieti e zone d’ombre a indagini a tutto campo, mantenendo le coperture di insospettabili.
Certo è che una sequenza omicidi di tale entità che hanno come unico oggetto d’interesse donne di tutte le età esprime non soltanto la generica ferocia di uno (o parecchi) serial killer, ma un forte e selettivo odio nei confronti delle donne: in genere nei confronti delle donne, il cui prototipo nell’immaginario dell’uomo messicano è la MALINCHE (la donna azteca che fece da interprete a Cortez e che entrò nel suo letto e che quindi fu doppiamente traditrice perché fu l’origine di una popolazione di mestizos. E occorre anche tener conto che la donna traditrice è anche quella che lavora, emancipandosi dai legami di sottomissione tradizionale: e molte delle vittime sono tutte lavoranti nelle maquilladoras (le grandi fabbriche semiclandestine che le multinazionali USA hanno collocato proprio a Ciudad Juarez per avere a disposizione una manovalanza vasta e ricattabile, a costi di gestione bassissimi per attività di lavoro quasi da schiavi).
Tre i libri disponibili sull’argomento: Ossa nel deserto (Sergio Gonzàlez Rodriguez, Adelphi, 2006 per l’edizione italiana), L’inferno di Ciudad Juarez. La strage centinaia di donne al confine Messico-Usa (Victor Ronquillo, Baldini&Castoldi Dalai, 2006), La città che uccide le donne. Inchiesta a Ciudad Juarez (Marc Fernandez e Jean-Christophe Rampal, Fandango, 2007).
Si aggiunge adesso a questi testi documentari, il romanzo di Clanash Farjeon (I vampiri di Ciudad Juarez, Gargoyle Books, 2010) che utilizza la cupa realtà dei fatti di cronaca per dar corpo ad una fiction influenzata da una tecnica narrativa cinematografica (con azioni decentrate e frequenti cambi di personaggi e vertici di osservazione), ma tuttavia godibile anche per lo stile ironico e leggero della sua prosa che, a tratti, si distende in un tono quasi da commedia horror-surreale, fortemente evocativa di alcuni personaggi del cult The rocky horror picture show.
Ma non poteva che essere così, visto che l’autore ALAN JOHN SCARFE (dl cui il nome d’arte, Clanash Farjeon, è l’anagramma) ha interpretato da attori ruoli di primo piano del teatro classico, che è stato anche regista di numerosissimi lavori teatrali, oltre che attore e regista cinematografico.
L’autore, prendendo spunto dalla cornice di cronaca nera, dà corpo ad un arazzo narrativo dominato da una potente famiglia messicana, in sospetto di pratiche vampiresche, anche se non verrà chiarito se i suoi rappresentanti siano veramente dei vampiri nel senso “classico” della tradizione letteraria, né in che modo lo siano diventati.
Tutto l’impianto narrativo ruota attorno a Michael Davenport, attore e aspirante regista, che – in turismo cinematografico nel Sud degli Stati Uniti e in Messico – s’imbatte, a partire dal furto di alcuni nastri con le sue riprese di una stupefacente tigre bianca colta dall’occhio della sua telecamera, mentre vaga libera negli squallidi sobborghi di Ciudad Juarez, nella famiglia dei Portillo Perez e nelle loro strane pratiche.
Ne verrà fuori illeso dopo alcune vicissitudini che assumono un sapore quasi picaresco, ma alla fine della storia al lettore sorge il sospetto che, dietro gli omicidi, ci possa essere una setta satanica fondata sul patto del seme e del sangue e una never ending story, in cui, scomparsi dalla scena alcuni attori, subito altri adepti possono farsi avanti a rimpiazzarli. E questo implicitamente potrebbe dare una risposta sia all’enorme numero di donne uccise, sia all’impossibilità per gli inquirenti di venire a capo del bandolo della matassa.
Come già la sua riscrittura della storia di Jack lo Squartatore (pure pubblicata per i tipi di Gargoyle Books con il titolo Le memorie di Jack lo Squartatore (2008), anche questo suo secondo romanzo lo si potrebbe ascrivere al genere “horror sociale”.
Quello di Ciudad Juarez è un autentico rompicapo: investigatori messicani ed esperti di criminal profiling inviati dagli USA ancora non sono riusciti a risolverlo, e a niente è valsa la forte mobilitazione popolare promossa dalle famiglie delle vittime costituitesi in associazione.
Si sospetta che, ad alto livello, vi possano essere delle connivenze politiche che pongono divieti e zone d’ombre a indagini a tutto campo, mantenendo le coperture di insospettabili.
Certo è che una sequenza omicidi di tale entità che hanno come unico oggetto d’interesse donne di tutte le età esprime non soltanto la generica ferocia di uno (o parecchi) serial killer, ma un forte e selettivo odio nei confronti delle donne: in genere nei confronti delle donne, il cui prototipo nell’immaginario dell’uomo messicano è la MALINCHE (la donna azteca che fece da interprete a Cortez e che entrò nel suo letto e che quindi fu doppiamente traditrice perché fu l’origine di una popolazione di mestizos. E occorre anche tener conto che la donna traditrice è anche quella che lavora, emancipandosi dai legami di sottomissione tradizionale: e molte delle vittime sono tutte lavoranti nelle maquilladoras (le grandi fabbriche semiclandestine che le multinazionali USA hanno collocato proprio a Ciudad Juarez per avere a disposizione una manovalanza vasta e ricattabile, a costi di gestione bassissimi per attività di lavoro quasi da schiavi).
Tre i libri disponibili sull’argomento: Ossa nel deserto (Sergio Gonzàlez Rodriguez, Adelphi, 2006 per l’edizione italiana), L’inferno di Ciudad Juarez. La strage centinaia di donne al confine Messico-Usa (Victor Ronquillo, Baldini&Castoldi Dalai, 2006), La città che uccide le donne. Inchiesta a Ciudad Juarez (Marc Fernandez e Jean-Christophe Rampal, Fandango, 2007).
Si aggiunge adesso a questi testi documentari, il romanzo di Clanash Farjeon (I vampiri di Ciudad Juarez, Gargoyle Books, 2010) che utilizza la cupa realtà dei fatti di cronaca per dar corpo ad una fiction influenzata da una tecnica narrativa cinematografica (con azioni decentrate e frequenti cambi di personaggi e vertici di osservazione), ma tuttavia godibile anche per lo stile ironico e leggero della sua prosa che, a tratti, si distende in un tono quasi da commedia horror-surreale, fortemente evocativa di alcuni personaggi del cult The rocky horror picture show.
Ma non poteva che essere così, visto che l’autore ALAN JOHN SCARFE (dl cui il nome d’arte, Clanash Farjeon, è l’anagramma) ha interpretato da attori ruoli di primo piano del teatro classico, che è stato anche regista di numerosissimi lavori teatrali, oltre che attore e regista cinematografico.
L’autore, prendendo spunto dalla cornice di cronaca nera, dà corpo ad un arazzo narrativo dominato da una potente famiglia messicana, in sospetto di pratiche vampiresche, anche se non verrà chiarito se i suoi rappresentanti siano veramente dei vampiri nel senso “classico” della tradizione letteraria, né in che modo lo siano diventati.
Tutto l’impianto narrativo ruota attorno a Michael Davenport, attore e aspirante regista, che – in turismo cinematografico nel Sud degli Stati Uniti e in Messico – s’imbatte, a partire dal furto di alcuni nastri con le sue riprese di una stupefacente tigre bianca colta dall’occhio della sua telecamera, mentre vaga libera negli squallidi sobborghi di Ciudad Juarez, nella famiglia dei Portillo Perez e nelle loro strane pratiche.
Ne verrà fuori illeso dopo alcune vicissitudini che assumono un sapore quasi picaresco, ma alla fine della storia al lettore sorge il sospetto che, dietro gli omicidi, ci possa essere una setta satanica fondata sul patto del seme e del sangue e una never ending story, in cui, scomparsi dalla scena alcuni attori, subito altri adepti possono farsi avanti a rimpiazzarli. E questo implicitamente potrebbe dare una risposta sia all’enorme numero di donne uccise, sia all’impossibilità per gli inquirenti di venire a capo del bandolo della matassa.
Come già la sua riscrittura della storia di Jack lo Squartatore (pure pubblicata per i tipi di Gargoyle Books con il titolo Le memorie di Jack lo Squartatore (2008), anche questo suo secondo romanzo lo si potrebbe ascrivere al genere “horror sociale”.
Dal risguardo di copertina
Ciudad Juarez, città messicana di confine che conta più di un milione di abitanti, è da anni devastata dalla guerra tra i cartelli della droga per il controllo del traffico di cocaina verso gli Stati Uniti. Dal 1993, Juarez è altresì tristemente famosa a causa degli innumerevoli omicidi perpetrati ai danni di giovani donne, generalmente di umile estrazione sociale. A oggi si contano oltre 5000 omicidi, tra cadaveri rinvenuti nel deserto e ragazze scomparse e mai più ritrovate. Le vittime sono quasi tutte di età compresa tra i 10 e i 40 anni, e subiscono sempre lo stesso trattamento: rapite, mentre vanno al lavoro o, sulla strada del ritorno a casa, violentate, torturate, mutilate e uccise. È proprio in questo crogiuolo di corruzione, violenza e morte che, durante un viaggio da Miami a Los Angeles, finisce casualmente Michael, eccentrico freelance di una rivista inglese che si propone di "esaminare razionalmente i fenomeni irrazionali". Una tigre siberiana bianca gli aprirà la strada verso un mondo di tenebra, dove l'orrore è ancora più terrificante di quello offerto quotidianamente dalla cronaca...
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