mercoledì 13 agosto 2008

Oggetti che raccontano una storia - III


Sarà un novello ET? oppure è un antecedente di Alien che plana minaccioso sui nostri cieli estivi?


Oppure è l'inerme vittima di un imprecisato culto che richiede sacrifici di interesse entomologico?


O, infine, il vettore di una pericolosa infezione che stravolgerà le sorti dell'umanità, facendo rapidamente piazza pulita del 95% della popolazione del mondo?
Quanto mi piace questa terza ipotesi! Ovviamente, a condizione che io faccia parte del 5% dei sopravvissuti...
Tutto questo e molto di più: molti altri sviluppi potrebbero essere formulati, compresi gli antecedenti, costruendo quindi anche un prequel, come si dice nel linguaggio cinematografico per indicare il nuovo film di una fortunata serie che ci racconta in maniera minuziosa la storia dei personaggi-chiave prima della loro entrata in scena e che ci dice perchè sono diventati quelli che sono.
Ogni oggetto, di cui ignoriamo la storia, ci porta a fare delle ipotesi intriganti ed ad attivare flussi associativi ed eidetici e, in alcuni casi, anche all'attivazione di floride fantasie ad occhi aperti.
Ciò è tanto più accentuato, quanto magggiore è la nostra consuetudine con i testi letterari (o cinematografici).
Chi legge molto e chi vede molti film viaggia su di un crinale scivoloso e tende ad attivare con una certa facilità delle derive fantastiche.
Ciò lo si può considerare un pregio (una marcia in più e una strumentazione preziosa per uscire dai limiti che ci sono imposti), anche se a tale tendenza non mancano contrappunti critici.
Come, ad esempio, questo.
"Quanto più frequentiamo i testi [sia letterari, sia cinematografici], tanto più questi ipotecano la nostra esperienza, procurandoci un sapere e delle conoscenze fittizi, destinati a condizionare il nostro futuro: avremo già appreso tutto prima di aver sperimentato qualsiasi cosa, e quanto più saputo, tanto meno potremo sperimentare in modo autonomo, consegnati per sempre all'inautentico." (Alberto Castoldi, Bibliofollia, Bruno Mondadori Editori, 2004).

giovedì 7 agosto 2008

Anch'io voglio essere "mangiathleta"!!! Il “Mangiathlon”, uno sport estremo davvero particolare...


Nel variegato mondo dello sport ne possono succedere di tutti i colori.
Prendono piede le discipline sportive più diversificate, da quelle che richiedono l'apprendimento di abilità tecniche particolarissime, a quelle in cui prevale la dura fatica o il confronto con difficoltà estreme (come, ad esempio, correre nel deserto in condizioni di autosufficienza, oppure scalare una montagna altissima, sapendo bene che la posta in gioco potrebbe essere molto elevata). Ma anche le più strane e, a volte, a dir poco, stravaganti.
Di tutto e di più.
Sembra che il motto che si cerca di seguire sia "Estremo e rischioso è bello". Sarebbe molto interessante approfondire un'indagine sociologica sui motivi più profondi che spingono molti ad intraprendere attività fatiganti o rischiose, in cui ci si muove davvero sul filo del rasoio.
A dire il vero, alcuni lo hanno già fatto come il sociologo francese Le Breton.
In ogni caso, uno degli elementi portanti dello sport è il confronto: o quello diretto con l'avversario, oppure quello "in differita" in cui l'impresa si tenta in solitaria ma dove, comunque, si cerca di superare un record, un primato, una migliore prestazione stabilita in precedenza da qualcun altro.
Per contro, se c'è il confronto con gli avversari, c'è sport e c'è agonismo (inteso nel senso di "lotta"): ed è così che attività apparentemente "statiche" possono anche loro essere rubricate come sport. Per esempio, in una vecchia "Enciclopedia dello Sport" pubblicata nei tardi anni Sessanta, tra gli sport trattati con singole voci monografiche (molto ben fatte, a dire il vero) figuravano anche il gioco degli scacchi o il bridge.
Per capire il perché di ciò, non bisogna dimenticare, peraltro, che una delle più forti radici dello sport è il gioco, mentre l'altra – altrettanto forte - è la guerra.
Tutto questo preambolo spiega i motivi per cui una società sportiva rinomata per le sue intense attività organizzative nel territorio di Rimini e provincia (il Golden Club), promuova da anni una singolare competizione denominata "Mangiathlon" in cui i partecipanti alla tenzone (grandi mangiatori di base) si confrontano sulla quantità di cibo che riescono ad ingurgitare in un tempo limite dato.
Nella nominata enciclopedia della sport, questo tipo di competizione non era contemplato: ma, in fondo, per definire cosa sia una competizione “sportiva” occorrono alcuni elementi base che sono
  • Il confronto con uno o più avversari
  • Un sistema di regole
  • Un dispositivo di gara
  • Un sistema di misurazione (che stabilisca cosa si debba misurare e come)
  • Un sistema di controlli
  • La presenza di Giudici di gara titolati (per il controllo del rispetto del regolamento, dell'aderenza ad un codice di lealtà tra avversari, per comminare eventuali sanzioni)
A condizione che tutte queste fattori siano rispettati, ecco che si può realizzare una competizione sportiva con tutti i crismi dell'agonismo.
Qualcuno di mia conoscenza ha anche dato vita ad una competizione internazionale di rutti (sì, davvero, avete sentito bene: a Reggiolo, nell’Emilia. Esiste persino un sito internet dedicato a questo evento annuale).
E non importa che la manifestazione sportiva cui si dà vita contravvenga ai più elementari criteri dell’estetica e della ricerca del bello, che da sempre si considerano qualità fondamentali del gesto sportivo.
Detto questo, in una competizione incentrate sull’abbuffata, cioè sulla quantità di cibo ingurgitato come si fa a stabilire chi sia il vincitore?
Non è sufficiente effettuare misurazioni sulla quantità di cibo ingurgitato, sulle portate che sono state servite oppure sulla velocità con cui sono state "spazzolate" (anche se il cronometraggio di ogni singola prova è di prammatica, perchè anche il tempo di consumo riveste una sua importanza), ma ci si riferisce al dato più inoppugnabile che è quello dell'incremento ponderale subito da ciascun concorrente dall'inizio della gara alla sua conclusione, quando si sente il suono rituale del fischietto del giudice di gara.
Ciò presuppone che gli avversari effettuino una pesata pre-gara, per stabilirne in modo inoppugnabile le condizioni ponderali base.
E' chiaro che qui non c'è alcuna gioia (o piacere) nel mangiare, né alcuna regola del galateo da seguire.
Gli avversari sono obbligati per regolamento a mettere in mostra un'ancestrale natura ferina ed animalesca.
Infatti, sono bandite le posate ed è appena consentito l'uso delle mani: in sostanza, bisogna mangiare, usando prevalentemente la bocca, quindi grufolando direttamente nel piatto e, dunque, mettendo in mostra una foga suina (con tutto il rispetto per i maiali)...
La capacità di sopportare di insozzarsi il volto e gli abiti di cibo fa parte delle qualità richieste ai partecipanti.
Questo tipo di competizione dimostra in modo esemplare che - come dicevo prima - nel campo dello sport, ce ne è davvero per tutti i gusti.
L'importante che chi pratica lo sport più bizzarro e i suoi fan siano contenti!!!
Ecco di seguito la notizia che riguarda lo svolgimento del recentissimo Mangiathlon riminese, svoltosi solo pochi giorni fa (il 31 luglio, per l'esattezza).
Un ultimo punto che qualifica un sport (le competizioni sportie in quella disciplina) è un cronista che lo racconti. In questo caso, è Gionni Schiaratura, presidente del riminese Golden Club, a farci un’appassionante cronaca dell’evento.
Dall'elencazione (e descrizione) delle diverse prove che i concorrenti si sono trovati ad affrontare si comprende bene che la sfida a colpi di salsicce, di uova sode, di tagliolini e quant’altro è stata degna dei classici banchetti dei Romani, ma anche – se vogliamo – quelli della tradizione rabelaisiana di Gargantua e Pantagruel. In ogni caso, vi si riconosce un sapore tipicamente romagnolo (e forse anche felliniano).
Le super-mangiate, trasformate in gara, fanno parte anche del repertorio filmico. Lasciando da parte “La grande abbuffata” in cui l’ingurgitazione di cibo da parte dei protagonisti assume un significato quasi metafisico come declinazione di un lucido “cupio dissolvi”, vi è una bella sequenza in un indimenticabile e malinconico film di Bob Reiner, Stand by me, tratto dall’omonimo romanzo breve di Stephen King.
Guardando alle descrizione delle diverse "prove", si può ben dire: "Non importa quello che mangi, ma quanto mangi!".
In internet, è visionabile un video sulla manifestazione riminese:

MANGIATHLON: PIÙ SI MANGIA, PIÙ SI VINCE - Video cultura LA7.it

(A Rimini un'incredibile abbuffata al limite della sopravvivenza...)

La grande notte
del Mangiathlon Tricolore:
un trionfo per Frenkybello

(Gionni Schiaratura, Golden Club Rimini)


Nella notte di venerdì 31 luglio s'è consumata un’altra “Mangia-impresa”, l’ennesima in questi dodici anni in cui il Golden Club Rimini raggruppa attorno ai tavoli del ristorante "La Casa Colonica" di via della Fiera a Rimini i più voraci mangiatori in circolazione.
Il campione assoluto del Mangiathlon Tricolore 2008 è il ravennate Franco Camerini detto "Frenkybello" che ha sbaragliato al fotofinish l’agguerrita concorrenza ingrassando la bellezza di 7,300 chilogrammi dall’inizio alla fine delle ardue prove di questa competizione che meriterebbe, senza tema di smentita, di finire nel programma olimpico degli imminenti Giochi di Pechino.
Fatta questa premessa ricordiamo che la gara ha visto sfidarsi 8 super mangiathleti e che, sul podio, sono finiti anche "Il Duca", alias Glauco Natali, e Davide Faenza, in arte e di fatto "Bagoin", cresciuti rispettivamente di 7,2 e 4,4 chilogrammi.
Fasi della gara:
  • Riscaldamento - Ogni concorrente, ciascuno con il suo numeroso seguito di tifosi, ha rapidamente trasformato il ristorante "Casa Colonica" in una arena di mangiatori. I mangiathleti, dopo la pesatura, si sono preparati alle tremende prove speciali che li attendevano di lì a poco con un riscaldamento a base di profumati crostini.
  • 1 fiamminga di Tagliatelle al ragù - Sin dalla prima prova speciale, si è capito subito che si sarebbe trattato di un confronto spettacolare ed equilibrato all’ultimo boccone. Nella fiamminga di tagliatelle al ragù” si è registrato un ex-equo fra il Duca e Frenkybello che hanno stabilito il nuovo record gara in 35”68, polverizzando quello precedente di 41”65 che apparteneva al toscano Manuele Pupilli detto "Pupo" e che resisteva dal lontano 2002. Alle loro spalle, chiudeva "Giangibar" (al secolo Gianluca Bortolucci) in 1’40”15.
  • 10 Salsicce bollenti - Passando alle salsicce, il più vorace è stato Frenkybello che si è sparato giù 10 morelli in 1’21”02 davanti al Duca che le spazzolava via in 1’57”71 e a Giangibar in 3’39”92. Sulle salsicce si registravano gli abbandoni di “Dinosauro” Dino Nicoletti e “Ultrarun” Bruno Tacchi.
  • 5 uova sode - Nel terzo tempo della gara, con la prova delle “5 uova sode”, ancora un alloro per Frenkybello che le strozzava in 29”04 alla media di 6” a uovo davanti al Duca che chiudeva in 34”74 e a Giangibar 1’ 30’20”. Sulle uova, invece, cadeva “Mastrolindo” Andrea Casotti.
  • 1 Filone di Ciambella - All’ultima prova, approdavano in cinque: Frenkybello, Duca, Giangibar, Bagoin e Ruspa “Davide Migani”. Sulla ciambella, il Duca (Campione in carica del Mangiathlon) sfoderava tutte le sue doti mangiatorie, spazzolando via il filone di dolce in 2’03” migliorando il record che già gli apparteneva davanti al tosto e agguerrito rivale Frenkybello che chiudeva in 2’19”. Alle loro spalle, Bagoin, con una “tecnica puramente suina”, ingurgitava il suo filone in 13’19”15”. Nonostante i massaggi addominali, si arrendevano Giangibar e Ruspa.
  • Verdetto - La bilancia decretava, a sorpresa, per appena 100 grammi il successo del ravennate Frenkybello212 kg (Franco Camerini) davanti al cesenatese “il Duca” (Glauco Natali) e al riminese “Bagoin” (Davide Faenza). Frenkybello sulla bilancia faceva registrare un peso finale di kg 180,300 con un incremento di kg 7,300 davanti al Duca (con un aumento di 7,200 chilogrammi) e a Bagoin (82,200 kg più 4,4 kg). Lo scettro d’incremento di peso rimane nelle mani del Duca con kg 7,9 stabilito nella scorsa edizione.
Per tutti gli altri, per i “mangiathleti” non competitivi, è stata una piacevole serata nel corso della quale hanno potuto ammirare all’opera degli autentici campioni. E l’appuntamento è già stato lanciato, per il 13° Mangiathlon, nell’estate 2009.

mercoledì 6 agosto 2008

Ricorrenze 1

Oggi ricorreva l'onomastico di mio fratello il cui nome fa Salvatore e questo è quello che abbiamo mangiato a pranzo:
  • pasta con i tenerumi
  • occhigrossi al cartoccio (l'occhiogrosso, per chi non lo sapesse, è una varietà di sgombro) con contorno di patate lesse, condite con olio e prezemolino tritato
  • macedonia di frutta (pesca e ananas)
  • tanti dolcetti mignon tra i quali facevano la parte del leone le pasterelle con il gelo di mellone
L'unica differenza rispetto agli altri giorni "ordinari" sono stati i dolcetti alla fine.
Mi sono alzato da tavola con la panza piena e la mente annebiata per il gran mangiare.

E' stato giocoforza sdraiarmi sul divano per cadere immediatamente in un profondo deliquio post-prandiale.
Ma ora sono tornato vispo.
Mi piacciono questi momenti in cui, rispetto alla velocità e alla frenesia, domina la lentezza e il piacere di poter degustare con intensità ogni singolo istante.

venerdì 1 agosto 2008

Tempo d'estate, tempo di "Mellone" e di "Gelo"...


Il gelo di mellone è un "classico" della gastronomia palermitana, ma per molti è anche legato a memorie infantili di tempi in cui nelle stesse pasticcerie della città era difficile da trovare perchè era considerato un dolce "semplice" da farsi in casa.
Secondo alcuni, il gelo di mellone, una volta veniva preparato in occasione della festa di Santa Rosalia, la Santa patrona della città: ma questa affermazione non collima con i miei ricordi d'infanzia e con le tradizioni familiari nelle quali sono cresciuto.
Per me era lo specialissimo dolce che, a casa mia, si preparava d'estate, sì, ma nella ricorrenza della festa d'onomastico di mio fratello e del mio compleanno, a pochi giorni di distanza l'uno dall'altro, (rispettivamente il 6 e il 9 agosto).

Prima di procedere, comunque, va chiarita una peculiarità linguistica che, a volte, quando si parla con i foresti può essere causa di qualche incomprensione.
Dalle nostre parti, quando si parla di "mellone",
ci si riferisce all’anguria (come ribadisce l'estensore di un post sul "gelo" in www.cuochidicarta.blogspot.com, in cui si parla appunto del gelo di mellone e precisando che la persistenza delle due "elle" nella parola "mellone" - rispetto al puro italico - è di fondamentale importanza). A ben guardare, così recitano i cartelli scritti a mano in rozze lettere diseguali a stampatello (e di un bel colore rosso, ovviamente) dei numerosi venditori ambulanti che, per strada e sino a notte fonda, espongono grosse angurie di tutte le dimensione, da quelle con la buccia verde scura e tondi come un pallone da football a quelli ovoidali con la scorza screziata a strisce verticali di due diverse tonalità di verde (che talvolta sono davvero giganteschi).
Alcuni di essi, con un modico supplemento di prezzo, vendono anche i "Melloni agghiacciati" (l’alfa, in questo caso, non è privativa ma rafforzativa…) che dai passanti in cerca di refrigerio vanno consumati sul posto, secondo un'usanza tipicamente mediterranea,
tramandata - con dispiacere di Bossi e dei suoi seguaci - direttamente dagli Arabi che, a lungo hanno abitato in Sicilia, godendo dei suoi giardini irrigui e delle sue acque (a loro, si deve la costruzione di splendidi acquedotti sotterranei - i Qanat -, di cui oggi si possono visitare alcune vestigia, proprio qui a Palermo).


Non è inusuale, in quei paesi del Mediterraneo che tuttora mantengono forti collegamenti con il mondo musulmano, vedere gruppetti di tre o quattro persone che, avendo acquistato un anguria al mercato, si appartano in un luogo ombreggiato per consumarla e poi distendersi per una siesta ristoratrice. Anni fa, nel corso di un viaggio nella penisola balcanica, proprio nel cuore dela Macedonia, mi è capitato di osservare questo rituale senza tempo: ed era ben visibile il piacere dei quattro Macedoni nel consumare all'ombra fresca d'un albero il mellone che si erano appena procurato.
In questi paesi consumare il mellone all'aperto è come per i Francesi portarsi a casa una baguette appena sfornata, sotto l'ascella.
Da noi, si dice ancora - perdonatemi se non ricordo esattamente la versione dialettale del detto - che "con mille lire di mellone magi bevi e ti lavi la faccia" (una versione più antica, diceva, in verità: "Con due soldi..."): la fetta d'anguria acquistata dal venditore ambulante, secondo tradizione, andrebbe consumata direttamente a morsi procedendo dal cuore del polpa verso l'esterno, che poi va ripulito con attenzione, lasciando da parte il bianco della buccia con quella parte di rosso che ha una consistenza troppo zuccosa. Quest'operazione comporta che ci si spalmi una parte del viso con il succo dell'anguria e che una parte di esso scoli anche per terra: da qui, la caratteristica postura che s'è costretti ad assumere mentre se ne mangia una porzione l'anguria, con il busto livemente proteso in avanti per evitare di macchiarsi camicia, pantaloni e scarpe.
Per questo motivo,
da piccoli, la festa maggiore poteva essere consumare la fetta di mellone agghiacciato, quando si era in spiaggia ed in costume da bagno: allora sì che ci si poteva sbrodolare senza alcun ritegno...!
Il mellone (soprattutto quello rosso) racchiude l'essenza del Mediterraneo perchè all'interno della sua scorza dura - eppure così fragile: basta un urto da niente perchè si frantumi - racchiude una polpa dolcissima ricchissima d'acqua e con pochi residui fibrosi. Chi sputa i semini del mellone uno ad uno mentre mangia la sua polpa, non ha capito nulla del piacere intrinseco del divorare l'anguria: sarebbe come sputare, uno ad uno, i semini contenuti all'interno degli acini d'uva e mondarli anche della loro buccia.
E dell'anguria si possono fare autentiche scorpacciate: specie quando è buono, dolcissimo e sugoso come si deve.
Alcuni dicono: "Tanto è solo acqua! Che male mi può fare?".
Questi piaceri d'un tempo tendono a perdersi: adesso alcuni "mellonari" si sono raffinati e, accanto alle loro bancarelle, hanno predisposto - per i consumatori più pretenziosi - dei tavoli da degustazione, dove servono la fetta d'anguria "al piatto" assieme ad un coltello e, in alcuni casi, anche alla forchetta.

Ma torniamo al gelo di mellone, da cui è partita questa prima nostalgica escursione.

Tecnicamente, si tratta di un dolce al cucchiaio "...molto semplice da realizzare a patto di avere dell’ottima materia prima", dicono alcuni prontuari.
Se poi viene servito con una spruzzata di briciole di pistacchio e un paio di fiori di gelsomino sopra, si realizza una perfetta combinazione di odori, colori e stimolazioni ineffabili sulle papille gustative.
Con il gelo di mellone, poi, si possono confezionare anche ottime crostate, oppure delle paste ripiene.
Però, vi avverto: è difficile degustare un buon gelo di mellone.
Il migliore, però, - credetemi - è quello fatto in casa, seguendo modalità di preparazione che vengono tramandate da una generazione all'altra.
Questa - rinvenuta in internet - è una delle possibili procedure per ottenere un buon gelo di mellone
Eliminate la scorza all’anguria, togliete i semi e tagliatela a cubetti che passerete al passaverdura. In una pentola miscelate l’amido, lo zucchero e una presa di sale. Aggiungete a filo il succo d’anguria aiutandovi con una frusta al fine di evitare la formazione di grumi. Quando il composto sarà ben omogeneo mettetelo sul fuoco a fiamma bassa e continuate a mescolare con un cucchiaio di legno finchè non si vedono le prime bolle. Continuate a far cuocere per un paio di minuti, togliete dal fuoco e aggiungete la vanillina e 3 o 4 fiori di gelsomino. Incorporate ora della zuccata tagliata a dadini. Versate la crema in un contenitore o in stampi monoporzione bagnati o spennellati con olio di mandorla. Lasciate raffreddare e mettete in frigo per almeno 24 ore. Sformate e, prima di servire, guarnite con cioccolato grattugiato, granella di pistacchio e qualche fiore di gelsomino. Ottimo anche per farcire una crostata... (www.cuochidicarta.blogspot.com)
Però, ricetta o non ricetta, quello di cui volevo parlare io era il mio ricordo dei giorni del gelo di mellone.
Per noi piccoli, la cosa veramente speciale non era tanto il gelo di mellone già pronto, ma il fatto di assistere all'intera procedura della sua preparazione che, di norma, avveniva uno o due giorni prima della ricorrenza che richiedeva come dolce il "Gelo" (consentitemi di chiamarlo così: il "Gelo" senza nessun'altra specificazione).
Prima della mia mamma, era la nonna a prepararlo in grandi quantità, perchè poi oltre a quello che si consumava tutti assieme ne mandava anche ai suoi figli.
Mia madre ha continuato la tradizione e, quindi, da un certo punto in poi è stata lei a prepararlo, seguendo la ricetta tradizionale di famiglia.
La vera festa - dicevo - era la preparazione del gelo.
Perchè?

E' presto detto:
innanzitutto, noi ragazzini facevamo da "aiutanti" e, in secondo luogo, ce ne stavamo lì come tanti cagnolini in attesa del boccone-premio.
Come avveniva ciò?
Ve lo spiego in poche parole.
Mia madre era l'operatrice principale e la regista dell'intera operazione
Nella prima fase di trattava di passare il mellone e produrre il succo filtrato. Mia mamma anziché passarlo nel passaverdura, lo "grattuggiava" in una specie di passa-pomodoro dalla superficie lievemente rugosa (questo metodo aveva il vantaggio di prendere in piccoli frammenti anche la componete fibrosa, così da assicurare alla fine un gelo più denso). Lo trattava a pezzi tenendolo ogni frammento dalla scorza, come si farebbe per grattuggiare un pezzo di parmigiano. A noi era concesso di "grattuggiare", quando c'era ancora tanta polpa. Lei faceva la parte più delicata per evitare che, nella foga, si macinassero anche parti di bianco fibroso ed insipido. Però, in base alla conformazione della fetta, rimanevano sempre frustoli di "rosso" che non potevano essere "trattati": quelli toccavano a noi che, in quattro e quattr'otto, li ripulivamo in attesa dei prossimi scarti.
Poi, passata la fase del filtraggio che portava alla raccolta d'una grossa quantità di un bel succo rosso e denso, veniva la fase della cottura in una grande pentola, assieme all'amido e allo zucchero (poco, a dire il vero).
Qui, si trattava soltanto di attendere il premio più ambito: a procedimento ultimato, dopo qualche minuto di attesa, la mamma aggiungeva la zuccata a cubetti ed il cioccolato fondente tagliato a scaglie per simulare i semini neri disseminati nella polpa dell'anguria. Quindi, cominciava a versarlo nelle ciotole che intanto aveva predisposto, di varia foggia e dimensione (alcune piccole, in cui sarebbe stato servito direttamente agli ospiti, altre più grandi da cui il gelo, una volta rappreso, sarebbe stato scodellato per essere servito come un grosso budino). Quando anche questo passaggio era ultimato,
per noi piccini, arrivava la parte più bella (finalmente!!!): rimaneva tutto per noi un pentolone tutto incrostato di buon gelo ancora caldo e, a questo punto, avevamo il permesso di scatenarci a raschiarne il fondo e la pareti con il cucchiaio.
Mmmmmmm!!!
Come era buono!
Me lo ricordo ancora adesso, proprio sulla punta della lingua e nel naso (la componente olfattiva era importantissima), se soltanto ci penso. Poi, siccome la produzione del gelo era sovrabbondante, per molti giorni dopo i festeggiamenti, a casa si continuava a mangiarne a colazione, a pranzo e a cena. E vi posso assicurare che le mie incursioni clandestine nel frigorifero erano davvero molto frequenti!!!

Oggi, la mia mamma, il gelo di mellone non lo fa più, ma una mia cugina ha raccolto il testimone, perfezionandosi di anno in anno e raggiungendo risultati sempre più di eccellenza.
Quel gelo di mellone della mia infanzia non tornerà più: il suo gusto, il suo odore, il suo aspetto erano resi particolarissimi dal rituale della preparazione, da quello stato mentale eccitato dell'attesa.
E' proprio vero che il "buono" da mangiare deriva dalle tradizioni del nucleo familiare e del gruppo umano in cui si cresce, prima ancora che dalle qualità organolettiche del cibo, in una felcie sintesi tra ciò che viene trasmesso culturalmente all'interno del proprio gruppo di riferimento (la cellula familiare, innanzitutto) e una specialisima componente di coloriture affettive e memorie d'infanzia.
Ciò che è più buono è strettamente legato con i ricordi più felici della nostra infanzia: come mostra - con fine intuito psicologico - il recente cartoon della Disney "Ratatouille", in cui la feroce misantropia del "critico" gastronomico, propenso a livide stroncature, viene spezzata, allorchè la pietanza allestita dal piccolo topo che voleva essere Chef, accende in lui memorie d'infanzia dimenticate, che lo portano ad immergersi in un'ineffabile sensazione di felicità mai più sperimentata dopo e dimenticata. E' proprio vero che quando ci si imbatte fortunosamente in pietanze cucinate in un certo modo (in cui ricorre una particolare ed unica combinazione di sapori, odori e colori) si viene prepotentemente trascinati nel proprio passato, con il risveglio di affetti sopiti e di ricordi gioiosi. Ed è soprattutto questa dimensione affettiva che rivive a rendere un certo cibo sublime.
La ricerca di piatti gustosi, che piacciano intimamente, non è altro, in fondo, che espressione del desiderio di ritrovare un ponte di collegamento con il nostro tempo perduto.
D'altra parte, proprio su questo tema, è proverbiale la famosa madeleine di Proust da cui prende le mosse il suo monumentale lavoro sulla memoria del suo "tempo perduto".

Proprio queste connessioni tra cibo e cultura ha cercato di spiegarci Marvin Harris, nel suo "Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari" (Einaudi, 1992), un vero classico dell'antropologia delle abitudini alimentari, con il supporto di molteplici, documentati (e a volte singolari) esempi.
 
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