mercoledì 31 marzo 2010

Le vite al margine dei Robinson postmoderni


Nella nostra società sempre più frequentemente succede che singoli individui perdano il contatto con il mainstream della vita sociale, iniziando a percorrere derive strane.
E' così che nascono gli homeless, i cosiddetti "barboni", gli hobo (i vagabondi di un tempo che, alla città, preferivano il vagabondaggio sulle strade extra-urbane e che, in questo, per molti hanno costituito l'emblema di una scelta di vita libera e senza padroni).
Oppure, alcuni individui si arenano da qualche parte come detriti che, trasportati per un po' da una corrente impetuosa. finiscono incagliati da qualche parte, in un'ansa cieca, oppure su di un greto su cui nessuno spontaneamente si fermerebbe mai.
Alcuni apprendono l'arte di arrangiarsi ("La necessità fa virtù!") e iniziano a vivere, pur nella grande metropoli come dei "robinson" e si ritagliano la propria piccola isola, che - a quel punto - diventa, per loro, "casa".
Vivono al margine dei grandi flussi di persone che scorrono davanti o accanto loro: ed è come se fossero uomini (e donne invisibili) di cui nessuno si accorge più, quasi che fossero parte dell'arredo metropolitano, come una panchina o un lampione.
Anzi, più è ostentata la loro presenza, più finiscono con il diventare davvero invisibili.
Semplicemente si comportano come una presenza inamovibile, analoga a quella di in sasso, incagliato nel terreno.
Non si relazionano, non cercano il contatto oculare, non ci sono sguardi che si incrociano: sono semplicemente testimoni di una vita sufficiente a se stessa.
Mentre mi trovavo a Roma sono stato colpito dall'osservazione ripetuta del "rifugio" che un homeless (uomo o donna che fosse non sono riuscito a capire) si era costruito su di un marciapiede di una zona trafficata e continuamente percorsa dal movimento pedonale: proprio accanto alla Basilica di Santa Maria Maggiore.
Qui, all'angolo di due strade, a cinque metri circa da un chiosco per le informazioni turistiche, aveva costruito una parvenza di casa: un parallepipedo di roba accatastata di circa due metri per ottanta centimentri e dell'altezza di meno di un metro, nel quale stavano ammucchiati probabilmente tutti i suoi averi terreni, ben avviluppati dentro uno spesso foglio opaco di plastica da imballaggio. Sotto il telo, durante le ore diurne, si intravedeva la sagoma di una persona seduta con le gambe rannicchiate, intenta a leggere da quello che sembrava un settimanale illustrato. Passando in momenti differenti del giorno, il padrone di casa era sempre lì: solo un piccolo lembo del foglio di plastica era sollevato per consentire il ricambio dell'aria.
Di notte, era tutto immobile e "spento": si sarebbe potuto immaginare che, al centro della catasta, fosse stato ricavato uno spazio dove il padrone di casa si poteva distendere su di una parvenza di letto.


Sono rimasto sorpreso innanzitutto dall'inventiva dimostrata e dall'evidenza che il bisogno di costruirsi una casa, sia come sia, è forte ed insoprrimibile, ma nelle stesso tempo non ho potuto non riflettere sulla totale mancanza di relazionalità, in doppio senso, tra il mondo e l'homeless, quasi che questa dimora, fosse scaturita del bisogno di costruirsi un ambiente intra-uterino, caldo e confortevole, nel quale stare rintanato, una sorta di "claustrum" protettivo rispetto alla crudezza del mondo fuori.

giovedì 25 marzo 2010

Transiti: stasi e movimento


Le stazioni possiedono delle qualità particolari. Sono dei luoghi di transito, dove tutto è costantemente in movimento.
Momenti convulsi in cui si creano flussi monodirezionali di grandi masse alternati ad intervalli di stasi e relativa quiete.
Chi si ferma, uscendo fuori dai vettori del movimento lineare rappresenta l'anonalia, in quanto - anche se per pochi istanti soltanto - trasforma il non-luogo in luogo, in un piccolo angolo confortevole dove vengono collocati alcuni ancoraggi.
E' come se in una stazione dominassero su tutto i vettori del tempo lineare.

Se questi si inceppano gli utenti si sentono perduti quasi fossero costretti in una deriva che viene sentita come inquietante (destrutturante): da qui le manifestazioni di intolleranza ed impazienza che, in alcuni casi, sconfinano nell'ansia e nel panico.
La virtù è quella di saper stare, accettando l'arrotolarsi del tempo lineare in una dimensione sospesa, nella quale tutto può accadere e nel cui contesto qualsiasi cosa si faccia può prendere il sapore magico di ciò che non è previsto o pianificato.
Sedersi su di una panchina, fermarsi in un bar per sorbire un caffè, leggere da un libro, osservare ciò che accade tutt'intorno a te, percepire suoni, colori, odori. Avere il privilegio di stare fermi, mentre tutti quelli che si muovono attorno a te sembrano trasportati da un tapis roulant o immessi in un'enorme centrifuga che produce frullati di corpi e di vite amalgamate, spogliate di qualsiasi individualità.
Al movimento convulso di grandi masse di persone, ciascuna immessa in una sua traiettoria, fanno da contraltare l'immobilità e il silenzio, che per esempio si possono riscontrare in orari marginali, quando le banchine si fanno deserte.
Le luci si affievoliscono e soltanto pochi e sparuti passeggeri vi indugiano in attesa, non si sa di cosa.

Oppure semplicemente stanno... come se avessero dimenticato quale sia la loro meta.

La leggerezza di Italo Calvino

"… è la mia peculiare malinconia composta da elementi diversi, quintessenza di varie sostanze, e più precisamente di... tante differenti esperienze di viaggi durante i quali quel perpetuo ruminare mi
ha sprofondato in una capricciosissima tristezza.
Non è una melanconia compatta e opaca, dunque, ma un velo di particelle minutissime d’umori e sensazioni, un pulviscolo d’atomi come tutto ciò che costituisce l’ultima sostanza della molteplicità delle cose.” (Italo Calvino, Lezioni americane)

mercoledì 17 marzo 2010

Vite da homeless e l'arte di arrangiarsi


L'altro giorno, in uno dei miei consueti giri di corsa sono passato nei pressi della Fiera del Mediterraneo di Palermo.
Davanti ad una delle due biglietterie ubicate in corrispondenza dell'ingresso principale e con il favore di una pensilina di profondità sufficiente a proteggere dalla pioggia e dalle intemperie, c'erano in bell'ordine le tracce del bivacco notturno di qualcuno senza fissa dimora, anche se l'evidente abitudinarietà dell'utilizzo del luogo
"sufficientemente" confortevole, lo autorizza sicuramente a considerarlo "suo", se così ci si può azzardare a dire.
Il posto era tenuto, nei limiti del possibile, pulito e in ordine, quasi fosse un ambiente domestico. C'era un materasso addossato alla parete per evitare che improvvisi piovaschi diurni potessero bagnarlo; poi, sui ripiani di marmo davanti alle finestrelle dei botteghino, si vedevano in bell'ordine: un fagotto di coperte e di panni, una bottiglia di vino (da quattro soldi), tre posate per consumare frugali pasti, un bel mucchietto di cotton fioc ancora non utilizzati - a giudicare dal loro biancore - e, per completare il tutto, un po' più discosto, un flacone di Maalox, per sopperire ai bruciori di stomaco notturni originati dai postumi delle bevute e da pasti consumati freddi.
Non male: l'osservazione di quest'ordine domestico ha generato in
me un sentimento di tenerezza, difficile da descrivere, assieme alla percezione di una fiducia di base nei confronti del mondo da parte dell'abitore di questo cantuccio, momentaneamente assente.
La disposizione ordinata - quasi amorevole - di questi oggetti scarni ed essenziali ci mostra con forza un fatto: chi è senza fissa dimora, il più delle volte non per propria scelta, tende comunque a realizzare un angolo dove possa stare in modo confortevole e che possa riconoscere come la propria casa, per quanto frugale, essenziale ed impermanente.



domenica 14 marzo 2010

"La camera dello sguardo. Fotografi italiani". In una mostra, una panoramica sullo stato dell'arte della fotografia italiana dagli anni '50 ad oggi


Si sta svolgendo a Palermo (dal 19 dicembre 2009 al 21 marzo 2010) nella splendida cornice di Palazzo Sant'Elia e promossa dalla Provincia regionale di Palermo, la mostra fotografica dal titolo "La camera dello sguardo. Fotografi italiani" che, inserita in un progetto di incontri internazionali d’arte e curata da Achille Bonito Oliva, offre una carrellata intensa ed appassionata sulla fotografia italiana contemporanea con un centinaio circa di opere.
Vi sono rappresentati 29 maestri della fotografia italiana, ta cui Giacomelli, Mulas, Ghirri, Berengo Gardin, soltanto per citare alcuni dei nomi più noti, tra cui si distinguono due Siciliani (Ferdinando Scianna e Lia Pasqualino).

La mostra, organizzata da Civita Sicilia e curata da Achille Bonito Oliva vuole offrire una panoramica esauriente della fotografia italiana dagli anni Cinquanta ad oggi, "...in un percorso interpretativo della nostra società e della sua evoluzione, attraverso la rappresentazione delle sue contraddizioni ed armonie ma sempre rifuggendo i linguaggi della retorica e i luoghi comuni ad essa legati".
Un altro suo pregio è quello di dare spazio ad una grande varietà di temi: dai reportage ad alto contenuto sociale, ai paesaggi (urbani e naturalistici), alla ritrattistica, alla foto sperimentale (come la serie delle "Meditazioni" di Paul Thorel o quella dell "Natività" di Antonio Biasucci).

Il titolo della mostra " La camera dello sguardo" si ispira chiaramente (e tributa, in tal senso, un omaggio) al famoso saggio sulla fotografia di Roland Barthes, La camera chiara, le cui riflessioni hanno fatto da filo condotture di tanta parte dell'ermeneneutica della fotografia contemporanea.

I grandi spazi di Palazzo Sant'Elia, con le volte dei saloni affrescate da pittori settecenteschi e riportate all'antico splendore con un sapiente lavoro di restauro, hanno offerto la possibilità di adottare la soluzione ardita di creare nel percorso che il visitatore si trova a seguire delle sotto-divisioni con l'utilizzazione di formati diversi delle foto esposte e di un loro allestimento con cornici diverse, ma omogenee per autore, come anche sono variabili i supporti utilizzati da ciascun artista, in funzione della moderna concezione estetica secondo cui la Fotografia non deve rispondere soltanto a requisiti tecnici e formali, ma può avvantaggiarsi nella sua espressività dell'utilizzo di supporti che siano all'avanguardia, per i quali è in continua espansione un filone di ricerca.
E' così possibile ammirare delle splendide gigantografie in bianco-nero (le foto moscovite di Gabriele Basilico) o a colori (come le due originali interpretazioni di Chicago di Luca Campigotto oppure le due immagini salernitane di Raffaella Mariniello), ad altre di formato più ridotto e compatto che indulgono alla ritrattistica o alla rappresentazione di elemti minimalisti della realtà o foto di tipo documentaristico, come la celebre foto di Federico Garolla che ritrae Pasolini mentre gioca a calcio con alcuni giovani borgatari di Roma ("Pier Paolo Pasolini nel quartiere di Centocelle, Roma, 1956") o quelle di Marco Giacomelli che - estrapolate dalla serie "Io non ho mani che mi accarezzino il volto" - ritraggono momenti di vita di giovani seminaristi.
Questo tipo di scelta ha consentito di creare nel percorso ideale della mostra una serie di capitoli in cui le opere di ogni singolo artista (in numero variabile) sono facilmente identificabili per omogeneità di formato.

Molte delle foto non si offrono allo sguardo come prodotti semplicemente estetizzanti, ma propongono sempre una meditazione, una riflessione, una denuncia: sia su tematiche di rilevanza sociale, come l'atualissima serie di "paesaggi" di Aniello Barone sul degrado delle modernissime "rifiutopoli" della Campania cui fa da contraltare una delle foto di Raffaella Mariniello, sia su aspetti della società contemporanea che colpiscono duramente il nostro immaginario come la cruda foto di Oliverio Toscani sul tema dell'anoressia (Anorexia, 2007).
Alla mostra fa da necessario pendant un bel catalogo in edizione bilingue (Italiano-Inglese), edito da Peliti Associati e curato da Achille Bonito Oliva,autore di un saggio di grande interesse, intitolato "La distanza dell'arte e la camera dello guardo" che fornisce al visitatore desideroso di approfondimento alcuni riferimenti teorici ed interpretativi della fotografia come arte.

“La Provincia di Palermo – spiega il Presidente Giovanni Avanti - accoglie la grande fotografia italiana per una mostra che si annuncia come un grande evento culturale, per il pregio dei maestri che espongono le loro opere e per l’eterogeneità dei temi e dei soggetti trattati. La mostra di Palazzo S. Elia vuole essere la testimonianza autentica del grande interesse e dell’attenzione che la fotografia di altissima qualità riscuote nel pubblico, ma rappresenta anche la strategia culturale della Provincia di Palermo, che intende offrire alla fruizione generale quanto di meglio vi sia nel panorama artistico, nella consapevolezza che la crescita economica e lo sviluppo del territorio non possano prescindere dalla loro integrazione con una crescita culturale dell’intera comunità. La prestigiosa sede museale di via Maqueda, mette a disposizione di autori, curatori e pubblico gli splendidi saloni affrescati del Settecento, ma li proietta in una dimensione assolutamente contemporanea, in un affasciante gioco di ‘contrasti’, che non toglie nulla alla bellezza degli interni, ma anzi la rinnova”. In mostra opere di Claudio Abate, Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Gianni Berengo Gardin, Antonio Biasucci, Lisetta Carmi, Elisabetta Catalano, Mario Cresci, Luciano D’Alessandro, Franco Fontana, Francesco Jodice, Mimmo Jodice, Raffaella Mariniello, Paolo Mussat Sartor, Ferdinando Scianna, Paul Thorel, Aniello Barone, Luca Campigotto, Federico Garolla, Mario Giacomelli, Luigi Ghirri, Ugo Mulas, Lia Pasqualino, Beatrice Pediconi, Dino Pedriali, Paolo Pellegrin, Marialba Russo, Paola Salerno, Oliviero Toscani.

Per informazioni: www.provincia.palermo.it (sezione iniziative ed eventi)

sabato 13 marzo 2010

"Palpebre", opera narrativa prima di Gianni Canova, attira l'attenzione sulla perversione dello sguardo nella società contemporanea


Gianni Canova, alla sua prima opera narrativa, ci regala con il suo "Palpebre" (Garzanti, 2010) un thriller estremo, sconfinante nel genere fanta-horror, attraversando il territorio oscuro e nebuloso dela fabbrica dei porno spinti e degli snuff movies. Il racconto di Canova potrà piacere o non piacere: in quest'ultimo caso, soprattutto, il rifiuto potrebbe essere causato dalle tinte forti che della seconda metà della narrazione. Ma, certamente, a prescindere dal gradimento che potrà suscitare nel lettore,, Gianni Canova riesce a costruire un'interessante elaborazione metaforica della società contemporanea, combattuta tra il rifiuto del diverso (il mondo sotterraneo della clandestinità e dei lavoratori irregolari) e tra una vernice di normalità che apre la porta di servizio al gusto segreto per le peggiori nefandezze, alimentato dalle mafie subito pronte a conquistare fette di un fiorente mercato.
Credo, peraltro, che un romanzo per essere efficace debba essere provocatorio e dissacrante, mai ammiccante e compiacente rispetto al desiderio di alcuni lettori di non essere turbati: in questo senso "Palpebre" è decisamente d'impatto e induce alla riflessione, anche se alcuni suoi elementi sono decisamente non realistici, ma proprio per questo efficace a creare le premesse per un salto verso il mondo della metafora.
"Palpebre" è tutto incentrato sulla perversione dello sguardo e dell'occhio, con una serie di ampi riferimenti a Dante Alighieri e al contrapasso riservato agli invidiosi con la pratica della "cigliatura".
Peraltro, Canova - critico cinematografico di rilievo e professore ordinario di Storia e critica del cinema presso l'Università IULM di Milan travasa nel suo racconto proprio quella prevalenza dell'immagine che ritroviamo nella cultura filmografica, utilizzando ritmo e stilemi narrativi tipicamente cinematografici, quali la molteplicità dei punti di vista di soggettivi.
Sono ovviamente presenti, sparsi nel flusso narrativo numerosi riferimenti cnematografici tra i quali ha una parte di rilievo Kill Bill di Quentin Tarantino, ma anche la scena in diretta della decapitazione dell'americano Nick Berg negli anni del post-11 settembre.
Non c'è salvezza nella sua storia: carnefici e vittime sono tutti dannati, condannati ad un destino terribile e crudele.
La metafora proposta è quella della società che genera mostri per immetterli in un suo circo visuale, al quale si può accedere con biglietti esclusivi da pagare a peso d'oro. Ma l'aspetto più atroce è che anche i terrificanti mostri ibridi creati (è immediato e naturale il rimando a quelli wellsiani di cui si racconta ne "L'Isola del dottor Moreau"), dopo essersi ribellati agli aguzzini da cui sono stati creati mostrano di essere dipendenti da quelle stesse immagini a cui hanno contribuito a dare vita.
Non c'è risoluzione per il protagonista Giovanni Vigo, studioso di Dante ed anche, occasionalmente, giornalista di cronaca nera, ma solo la possibilità di farsi narratore "claustrale" della storia che lo ha visto protagonista, ma rinuunciando per sempre all'uso dello sguardo (nel suo doppio scambio del guardare e dell'essere guardato).

La "cigliatura" è una pratica che originariamente faceva parte dell'addestramento dei falconi per la caccia, poi superata dall'introduzione del cappuccio ad opera di Federico II, grande esperto di Falconeria e autore di un trattato su questa pratica venatoria, ai tempi considerata "nobile" (De Arti Venandi cum Avibus).
Non si deve dimenticare che Federico II, oltre ad introdurre e diffondere l'arte della Falconeria in Italia, fece proprio l'uso orientale del cappuccio durante il periodo di addestramento per tranquillizzare il falco, rendendo questa fase di approccio con l'animale meno crudele: tradizionalmente si usava infatti "cigliare", o, come suggerisce l'imperatore "bloire" il falco.
L'operazione consisteva nel cucire le palpebre dell'animale per poi allentare gradualmente la chiusura della sutura con l'avanzare del livello di addestramento.

Questa la presentazione del romanzo nel risguardo di copertina
A volte per cambiare un destino basta uno sguardo. Uno sguardo come quello che Giovanni Vigo posa su una donna giovane e troppo bella. Uno sguardo che lo spinge a seguirla in uno dei bagni dell'Università Statale di Milano, dove lei entra con un uomo. È così che Giovanni Vigo, studioso delle pene che Dante infligge alle anime dei peccatori nel Purgatorio, si trova a essere l'unico testimone di un omicidio che non lascia tracce. Quel delitto diventa un'ossessione, soprattutto quando viene ritrovato il cadavere dell'uomo, orrendamente mutilato. Per rintracciare Mia, la giovane donna sfuggente e misteriosa, Vigo chiede aiuto all'amico Simmel, cronista di nera. Ben presto Vigo e Simmel si trovano alle prese con una pericolosa organizzazione, che promette di soddisfare le richieste più estreme.

giovedì 11 marzo 2010

Manchester United - Milan. Riflessioni sparse su di una partita di football


Ieri, insolitamente, ho guardato in prima serata la partita di calcio Manchester United - Milan.
Di fronte al "nulla" televisivo era pur sempre qualcosa.
Devo dire che, benchè io non sia un fervente sostenitore del calcio, qualcosa ha attratto la mia attenzione, motivo per cui mi sono dedicato all'osservazione della vicende di gioco, abbandonando uno sguardo semplicemente distratto.
Ovviamente, mi spiace per l'esito finale... e dico questo soprattutto per gli appassionati seguaci del Milan che non voglio in alcun modo offendere.
Devo però dire che vedere il Milan stra-perdere mi procurava un sottile e diffuso piacere, pensando che - nello stesso tempo - il nostro premier friggeva sulla sua sedia, come anche friggeva a fuoco lento il CT della squadra rossonero che, certamente, dopo il fischio di conclusione della partita, avrà ricevuto qualche infuocata e tempestosa telefonata.
Una giusta punizione per un premier che si confeziona leggi ad personam e che, proprio ieri, ha fatto varare - con l'immancabile voto di fiducia - un disegno di legge sul legittimo impedimento che, dalle cariche interessate, potrà essere semplicemente "autocertificato"...
Devo dire che (pur essendo consapevole che la mia è l'opinione risibile del profano) ciò da cui sono stato colpito sono state la compostezza e l'efficacia del gioco di squadra della compagine inglese, a fronte di una generale fiacchezza della squadra milanista, in cui Beckham pareva più che altro un infiltrato, simpatizzante dei suoi ex-compagni (simpatia, peraltro, assolutamente ripagata, senza occultamenti o ipocrisie).
Non ho potuto non notare, peraltro, la generale compostezza dei giocatori del Manchester United, sobri ed essenziali, poco propensi agli orpelli, al capello lungo e alle fasce elasticizzate per tenere raccolte capigliature troppo fluenti: giocatori dall'aspetto semplice, e non da "fighetti" viziati e narcisisti, fin troppo consapevoli del loro ruolo nel visibilio del pubblico italiano.
Fiacchi e includenti i giocatori italiani che, con i loro vezzi, potevano indurre solo fastidio...
Infine, non si può non constatare che anche il pubblico inglese è sobrio e composto nelle sue manifestazioni di supporto indirizzate alla propria squadra del cuore: il giro di vite, imposto alcuni anni fa dal governo britannico per mettere un freno agli eccessi delle tifoserie e dei tristemente famosi hooligan, è stato indubbiamente efficace e adesso si può assistere ad una partecipazione sentita, ma sobria e composta.
Beckman a volte è stato anche appluadito dal "suo" pubblico di un tempo: ve lo immaginate Luca Toni giocare sul campo del Palermo? Non credo che al "traditore" verrebbero dedicati applausi, semmai fischi ed ingiurie...
Infine, a partita conclusa, i giocatori del Milan hanno esibito sorrisi tirati e non hanno fraternizzato con il "nemico".
Si sono ritirati velocemente negli spogliatoi, certi che di lì a poco ci sarebbe stato un infuocato redde rationem.

Ci sarebbe da chiedersi cosa sarebbe accaduto in Italia di fronte ad una così schiacciante sconfitta.
E c'è da chiedersi perchè dalle nostre parti i provvedimenti governativi siano da sempre così inefficaci per creare le premesse per un tifo sobrio e responsabile, esente da eccessi e da manifestazioni di intolleranza.
Se è vero che "Il pesce puzza dalla testa", credo che l'esempio debba essere dato in primo luogo dalle dirigenze calcistiche, che dovrebbero mettere da parte atteggiamenti arroganti e prevaricatori, e dagli stessi giocatori a cui dovrebbero essere impediti comportamenti narcisisti, vanagloriosi e talvolta sobillatori delle pulsioni più nefaste dei tifosi potenzialmente violenti.
Portiamo i giocatori meno in palmo di mano, rendiamo loro la vita un po' più difficile: che abbiano la sensazione di doversi guadagnare la pagnotta! Forse solo facendo così, il gioco giocato potrà essere migliore e più sportivo, ma soprattutto l'esempio trasmesso a milioni di Italiani potrà essere più incisivo e "trasformativo" rispetto al generale impoverimento morale della nostra nazione.
Il recente film di Eastwood, Invictus, dimostra che, se c'è la volontà politica (supportata da un disegno di ampio respiro, ovviamente), uno sport che attira le grandi masse può diventare catalizzatore di crescita della coscienza civile di un'intera nazione e può produrre effetti aggregativi in direzioni altamente positive.

lunedì 1 marzo 2010

Invicuts: un film pieno di vitalità e speranza sul modo in cui si può costruire un mondo migliore


Come combattere il razzismo?

Come riuscire a capovolgere una mentalità fortemente radicata in abitudini e pregiudizi? E' questa la sfida con cui Nelson Mandela, poco dopo la vittoria elettorale, dovette confrontarsi.
Lo fece, proponendo scelte che andavano controcorrente rispetto a ciò che i suoi stessi supporter si sarebbero attese, anche correndo il rischio di compromettere la sua credibilità politica.
Le sue furono scelte di campo coraggiose, soprattutto nelle piccole cose quotidiane, guidato dal principio che l'apartheid non si sarebbe potuto superare con le stesse armi utilizzate per la discriminazione dalla minoranza bianca degli Afrikaneer.
Una lezione anche sul fatto che ciò che conta, in tempi bui e di sofferenza, è poter rimanere "indomito" (invictus, appunto), "capitano della propria anima": il profondo lascito spirituale agito e vissuto concretamente di un uomo che è stato insignito di un meritato Nobel alla Pace 1993, e non soltanto per le "intenzioni" manifestate, ma ancora non messe in atto (com'è stato nel caso del Presidente USA Barak Obama).
Il film di Clint Eastwood è davvero esemplare perchè - con delicatezza, con garbo e senza mai scivolare nella rappresentazione idealizzante - illustra proprio questo processo di trasromazione della Repubblica Sudafricana in una sola nazione, a partire da due comunità diverse e opposte, apparentemente inconciliabili, sotto la guida "saggia" e illuminata di Mandela, "Madiba" per i suoi più fedeli seguaci.
Quello di Nelson Mandela fu il progetto ambizioso di creare una nazione "arcobaleno", unita in un unico progetto ed in un unico empito di speranza.
Cosa rendeva temibile la squadra di Rugby della Nuova Zelanda, di cui si diceva che "...al 90% avesse già vinto prima del fischio d'inizio"?
Era il fatto che i 15 giocatori inscenavano (e inscenano tuttora, per quanto - a volte - siano contestati in ciò) la minacciosa danza maori, pur non essendo in maggioranza aborigeni: il fatto, dunque, che quella squadra si presentava unitaria, stretta in un unico progetto, espressione d'una "nazione" (un concetto che ha tuttora una sua validità, malgrado l'incultura dei particolarismi regionali di stampo leghista).
Mandela portò la maggioranza nera del Sudafrica a "tifare" con intensità e vigore per la squadra di Rugby prediletta dalla minoranza bianca, sino a quel momento aborrita e fischiata, e, simbolicamente, riuscì a condurla alla vittoria in occasione del Rugby World Cup, del 1995, che - per l'appunto - si svolse in Sudafrica e in cui la finale vide il confronto tra la squadra sudafricana (gli Springbok) e quella neozelandese.
Per il resto, c'è poco da dire sul film in termini di critiche: un film eccellente, quasi un classico del genere.
Una lezione ammirevole sullo sport e su come lo sport può anche diventare momento di crescita sociale, di rispetto reciproco, di solidarietà, incentivo ad alimentare - in maniera buona - una causa comune.
Un film che straccia in un colpo solo le meschinità e le abiezioni delle tifoserie di calcio e del calcio parlato.
Un Bravissimo! a Clint Eastwood che conferma di saper essere un grande regista, anche quando non riveste anche i panni dell'attore, come è stato - invece -nel suo precedente (e magistrale) Gran Torino.
Una magnifica interpretazione quella di Morgan Freman che si cala perfettamente nei panni del Presidente Mandela, con un ruolo privo di sentimentalismi e sbavature, ma impersonando il ruolo dell'uomo che nei 28 anni di ergastolo ha meditato e riflettuto sul fatto che le soluzioni all'odio non sono le vendette e gli antagonismi, ma il perdono e la ricerca di vie comuni che vadano bene per tutti e che, in tal senso, si adegua anche nelle piccole scelte quotidiane.
E' un film che possiede un elevato valore pedagogico, capace di trasmettere una lezione di storia e senso civico: in questo senso, bisognerebbe farlo vedere agli studenti delle scuole medie e delle superiori e discuterlo con loro.
Più efficace di qualsiasi discorso e di qualsiasi dissertazione, che - per una volta, tra l'altro - in un mondo che si sfascia, riesce a dare una visione di speranza e di ottimismo...

Va aggiunto che il racconto di Eastwood non è parto della fantasia di uno sceneggiatore, ma è ispirato dai fatti narrati nel libro di John Carlin "Playing the Enemy: Nelson Mandela and the Game That Made a Nation": in ogni caso, è reso intenso dal forte senso civico e dal vigore anti-razzista che pervade anche il precedente lavoro di Clint Eastwood, nei panni sia di regista sia di attore (Gran Torino).



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