mercoledì 31 marzo 2010

Le vite al margine dei Robinson postmoderni


Nella nostra società sempre più frequentemente succede che singoli individui perdano il contatto con il mainstream della vita sociale, iniziando a percorrere derive strane.
E' così che nascono gli homeless, i cosiddetti "barboni", gli hobo (i vagabondi di un tempo che, alla città, preferivano il vagabondaggio sulle strade extra-urbane e che, in questo, per molti hanno costituito l'emblema di una scelta di vita libera e senza padroni).
Oppure, alcuni individui si arenano da qualche parte come detriti che, trasportati per un po' da una corrente impetuosa. finiscono incagliati da qualche parte, in un'ansa cieca, oppure su di un greto su cui nessuno spontaneamente si fermerebbe mai.
Alcuni apprendono l'arte di arrangiarsi ("La necessità fa virtù!") e iniziano a vivere, pur nella grande metropoli come dei "robinson" e si ritagliano la propria piccola isola, che - a quel punto - diventa, per loro, "casa".
Vivono al margine dei grandi flussi di persone che scorrono davanti o accanto loro: ed è come se fossero uomini (e donne invisibili) di cui nessuno si accorge più, quasi che fossero parte dell'arredo metropolitano, come una panchina o un lampione.
Anzi, più è ostentata la loro presenza, più finiscono con il diventare davvero invisibili.
Semplicemente si comportano come una presenza inamovibile, analoga a quella di in sasso, incagliato nel terreno.
Non si relazionano, non cercano il contatto oculare, non ci sono sguardi che si incrociano: sono semplicemente testimoni di una vita sufficiente a se stessa.
Mentre mi trovavo a Roma sono stato colpito dall'osservazione ripetuta del "rifugio" che un homeless (uomo o donna che fosse non sono riuscito a capire) si era costruito su di un marciapiede di una zona trafficata e continuamente percorsa dal movimento pedonale: proprio accanto alla Basilica di Santa Maria Maggiore.
Qui, all'angolo di due strade, a cinque metri circa da un chiosco per le informazioni turistiche, aveva costruito una parvenza di casa: un parallepipedo di roba accatastata di circa due metri per ottanta centimentri e dell'altezza di meno di un metro, nel quale stavano ammucchiati probabilmente tutti i suoi averi terreni, ben avviluppati dentro uno spesso foglio opaco di plastica da imballaggio. Sotto il telo, durante le ore diurne, si intravedeva la sagoma di una persona seduta con le gambe rannicchiate, intenta a leggere da quello che sembrava un settimanale illustrato. Passando in momenti differenti del giorno, il padrone di casa era sempre lì: solo un piccolo lembo del foglio di plastica era sollevato per consentire il ricambio dell'aria.
Di notte, era tutto immobile e "spento": si sarebbe potuto immaginare che, al centro della catasta, fosse stato ricavato uno spazio dove il padrone di casa si poteva distendere su di una parvenza di letto.


Sono rimasto sorpreso innanzitutto dall'inventiva dimostrata e dall'evidenza che il bisogno di costruirsi una casa, sia come sia, è forte ed insoprrimibile, ma nelle stesso tempo non ho potuto non riflettere sulla totale mancanza di relazionalità, in doppio senso, tra il mondo e l'homeless, quasi che questa dimora, fosse scaturita del bisogno di costruirsi un ambiente intra-uterino, caldo e confortevole, nel quale stare rintanato, una sorta di "claustrum" protettivo rispetto alla crudezza del mondo fuori.

1 commento:

  1. Alice Ferretti, in Facebook, ha così commentato:

    Di solito vengono chiamati “senzatetto” ma la realtà è che spesso questo tipo di vita non è stata una scelta, persone che forse in precedenza riuscivano a garantirsi una stabilità economica e una vita familiare regolare ma che ora non riescono più a sostenere lo stesso tenore di vita.
    Il mondo all’interno di quel “rifugio” mi era sembrato così intimo e personale, aveva inserito tutto quel che gli poteva, in un certo senso, esser utile e che lo riportasse in un’atmosfera di normalità quotidiana.
    Il non-abitare diviene, per chi non lo ha scelto una forma di devianza e la casa rappresenta un fondamentale elemento di identità e di integrazione sociale.
    Le sue coperte ammassate una sopra l'altra, i cuscini, la tavola di legno dove appoggiare le sue cose, una piccola lampada e il giornale che stava leggendo, tutto si intravedeva solo dietro una brarriera plastificata, quasi trasparente, e che apparentemente lo proteggeva e creava i suoi confini.
    In fondo ognuno di noi delimita il proprio territorio con i mezzi che ha e forse solo così quella persona “invisible” riuscirà a non cadere nella rassegnazione della perdita di una vita passata...

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