domenica 31 gennaio 2010

Un frammento biografico: il mio viaggio in Islanda nel remoto 1975

The way I was - Islanda, 1975

Dopo la laurea (nel luglio 1975), decisi di partire per un viaggio abbastanza avventuroso, quasi tutto in solitaria.
Prima raggiunsi ad Amsterdam un mio cugino (Gianfranco). Da lì, assieme, ci muovemmo in autostop attraverso la Germania e la Danimarcoa sino alla Norvegia. Lo spostamento in autostop non fu agevole, ma alla fine ce la facemmo, grazie anche ad incontri veramente insoliti e memorabili. Chi sa perchè, ma quelli che si fermavano a prenderci su erano tutti al 90% dei tipi assolutamente bizzarri ed inusuali.
Ad Oslo, andammo a trovare una coppia di assistenti sociali che vivevano in una struttura per la riabilitazione degli adolescenti con problemi di adattamento sociale. I due li avevo conosciuti a Palermo, dove avevano soggiornato per quasi sei mesi ed io ero stato contattato per far loro da interpreti, vista la mia discreta conoscenza dell'inglese. In particolare, erano arrivati in Sicilia con l'obiettivo prioritario di rendere visita a Danilo Dolci, ma nello stesso tempo erano appassionati del mare e del sole, oltre che grandi bevitori, come la maggior parte degli Scandinavi, del resto. Lui - il suo nome era Thor - prima di diventare assistente sociale aveva girato in lungo e in largo il mondo nella navi mercantili: insomma un personaggio.
Ci fermammo per qualche giorno, a casa loro, che era anche la struttura dove vivevano con i ragazzi che venivano loro affidati, in un luogo quasi paradisiaco, campagna, prati verdi, grandi alberi frondosi e lunghe interminabili conversazioni (e bevute) con i nostri ospiti.
Da lì, prosegui da solo, sino a Bergen, in fondo ad un labirinto di isole e penisole che rendono frastagliata ed infinita la costa norvegese.
Mi imbarcai su di una nave che era diretta in Islanda e che avrebbe compiutao la traversata in circa due giorni perchè era prevista una sosta di molte ore nelle isole
Fær Øer, di cui ricordo una memorabile passeggiata pomeridiana attraverso un paesaggio di dolci colline senza alberi, rivestite di prati verde smeraldo e disseminate di pecore e mucche al pascolo. E poi, dela sosta in queste isole fuori dal mondo, ricordo ancora un'interminabile bevuta di birra con alcuni ragazzi del posto in una versione locale del pub inglese.
Arrivato in Islanda, mi sentii un po' spaesato: pochissima gente, paesaggi immensi, distanze enormi attraversopaesaggi deserti.
Arrivai il Sabato mattino: la cittadina di approdo era deserta, perchè tutti erano impegnati a bere di brutto, secondo le usanze locali.
Mi sentii un po' sconfortato: per caso, nello stesso Ostello in cui presi alloggio, conobbi una ragazza tedesca che viaggiava pure da sola e seguiva con molta determinazione un suo itineraro.
Le nostre vie ogni tanto si intersecavano e, allora, passavamo insieme ore ed ore a passeggiare e a conversare.
La sua capacità di affrontare le cose da solo mi furono di esempio e mi confortarono. Infatti, passati i primi giorni, riuscii ad organizzarmi e ad affrontare la necessaria solitudine del viaggio.
Passavo molto tempo a leggere: indugiavo a letto o nel sacco a pelo, la mattina: mi preparavo la colazione nei cucinini degli ostelli, ascoltavo le conversazioni degli altri viaggiatori, leggevo, riflettevo.
La mia lettura era fondamentalmente da un libro in inglese, scritto a due mani da una certa Mary Barnes e da
Joseph Berke, uno psichiatra inglese (o forse di origine americana, ma divenuto seguace delle ide di Ronald laing), dal titolo Mary Barnes. Two accounts of a jouney through madness. Me ne avevano consigliato la lettura i due miei amici norvegesi quando avevano sentito che volevo proseguire gli studi di specializzazione in psichiatria.
Man mano che leggevo le considerazioni della paziente Mary Barnes, delle sue vicissitudini attraverso la follia sino all'incontro prezioso con Ronald Laing e al suo ingresso a Kingsley Hall dove potè compiere integralmente il viaggio attraverso la sua follia, sino a riemergerne con una rinnovata consapevolezza, si rafforzava in me il convincimento che la strada che volevo imboccare era quella giusto, corrispondendo esattamente a ciò che volevo fare...
La foto me la fece proprio lla ragazza tedesca, nei pressi di Reykjavík dove allora vi era un piccolo aeroporto: qui ci recavamo a guardare gli aerei che arrivavano e decollavano, tutti ad elica.
Questa è l'unica fotografia mia di quel viaggio.
Io, allora, usavo esclusivamente le pellicole per diapositive e, nel corso del mio tour, fotografai rigorosamente i grandi paesaggi, distese infinite semi-desertiche, canyon, cascate maestose, che si dispiegavano davanti ai miei occhi meravigliati.
Per tre giorni fui preso in macchina da una coppia di tedeschi molto simpatici e segui il loro itinerario.
Da Reykjavík, infine, dopo una visita alle isole Vestmannaeyjar che erano state di recente teatro d'una devastante eruzione vulcanica che aveva seppellito gran parte della cittadina prinicipale sotto una coltre di ceneri e lapilli, spessa alcuni metri viaggiai in aereo su Glasgow e, di lì, di nuovo in autostop sino a York dove abitava la ragazza inglese con cui ero stato sino a poco tempo prima.
Quindi, dopo tre giorni di sosta, mi sono messo di nuovo on the road, abbandonando l'Inghilterra via mare sino a Ostenda, e in treno sono arrivato a Colonia, dove si era trasferito un mio caro compagno di scuola ed amico (Mario Gulli) che lì insegnava all'Istituto italiano di cultura.
Rimasi da lui per cinque giorni, abboffandomi di uova strapazzate e di insalate di patate (ma anche occasionalmente di qualche buon piatto di pasta per non dover dimenticare la nostra matrice italica) e, infine, mi decisi a tornare in u'unica tirata, con il treno.
Negli ultimi quindici giorni, avevo trascurato di farmi sentire a casa (questo oggi ci sembra quasi inconcepibile, ma allora non esistevano i cellulari) e quando finalmente arrivai a Palermo, mia madre era decisamente preoccupata e mi abbracciò quasi piangente, rimproverandomi della mia trascuratzza.
Fu un bellissimo viaggio, durato quasi un mese e mezzo, di quelli che rimangono profondamente impressi nella memoria.
Viaggiavo in economia, in autostop laddove potevo, dormendo il più delle volte negli ostelli della gioventù e, avendo anche il sacco il pelo, dove potevo.
Dimostrai a me stesso che mi potevo arrangiare e affrontare le cose da solo.
Fu, decisamente, un'esperienza di fomazione, di quelle che lasciano una loro traccia indelebile.

Su Mary Barnes
Nel 1965, Laing avviò una sperimentazione residenziale al Kingsley Hall di Londra, in cui i pazienti erano liberi di andare e venire godendo dell’assistenza, spazio e tempo necessari a elaborare la loro condizione mentale, invece di essere “curati” con mezzi farmacologici. L’approccio radicale di Kingsley Hall alla “follia” e alle sue terapie attirò l’attenzione pubblica sulla controversa teoria di Laing della pazzia come processo, che può implicare l’auto-guarigione e la rinascita. Il film accorpa un vasto assortimento di materiale di ricerca e audio-visivo, nell’ottica di trascendere il contesto per concentrarsi sulle esperienze dei pazienti, compreso Laing, in veste di psichiatra e quindi parte in causa a pieno titolo.
Nodo fondamentale del progetto era la libertà di espressione – quella che si mostra nel comportamento eccentrico dei pazienti, o nelle frasi e immagini scarabocchiate sulle pareti – che Fowler riflette in un fitto collage di materiali, con una particolare sensibilità per la grana delle immagini, nell’aspetto fluttuante delle vecchie riprese, e nell’attenzione per il dettaglio grafico.
Mary Barnes era una pittrice, protagonista dell’esperimento, che regredì all’infanzia per poter rinascere, processo vissuto con l’aiuto di Laing e degli altri pazienti.
Guardata con sospetto dall’establishment medico e dalla comunità locale, Kingsley Hall fu smantellata nel 1970 e la sua eredità in gran parte infangata dai mass media. La testimonianza di Mary in un’intervista contemporanea, insieme alla documentazione originale, e a una messa in scena teatrale per la tv dell’epoca, rievoca l’esperienza della paziente di Laing più emblematica, e la circostanza che ebbe modo di vivere, nelle sue parole: “Ronnie mi dette un’occasione, e quell’occasione mi fa vivere ancora oggi”.

sabato 30 gennaio 2010

Varney the vampire: la saga feuilleton del vampiro londinese ora riproposta in versione integrale

Uno dei classici del romanzo gotico, finalmente sarà disponibile in Italia, grazie alla Gargoyle Books, che ha in programma la pubblicazione, nel corso del 2010 - anno in cui la casa editrice festeggia i suoi cinque anni di vita - della saga di Varney il Vampiro, il feuilleton che - nell’Inghilterra di metà Ottocento - consacrava la figura del nobile succhia-sangue come icona della nascente stampa popolare.
Infatti, a partire dal 1847 (anche se, secondo altri, a partire dal 1845, con la pubblicazione di una prima serie di dispense) le macabre avventure di Sir Francis Varney — scheletrico non morto a metà strada tra il byroniano Lord Rutven di John William Polidori e il Conte Dracula ideato da Bram Stoker — furono pubblicate dall'editore Lloyd a dispense settimanali, attirando per almeno due anni l'interesse di migliaia di persone e raggiungendo la ragguardevole meta di 220 capitoli per 870 pagine redatte in doppia colonna con un corpo di stampa piccolissimo.
Un’opera davvero colossale, attribuita in un primo tempo a Thomas Preskett Prest — autore londinese cui si deve il romanzo Sweeney Todd, the Demon Barber of Fleet Street (di recente traslato in film ad opera del poliedrico Tim Burton) - e condivisa più tardi con James Malcolm Rymer, ingegnere civile che arrotondava i suoi introiti scrivendo per Lloyd, probabilmente spartendosi a sua volta il lavoro con altri vari autori rimasti ignoti, al punto tale che non sono pochi coloro che sostengono che sia proprio Rymer il vero “inventore” di Varney: dimensioni tali che hanno fatto sì che un po' in tutto il mondo Varney the Vampire sia una delle opere più citate del genere, ma meno lette, in ambito vampirico, frenata in ciò da considerazioni di carattere prettamente economico., vista la sua imponenza.
Si trattava, infatti, di un’opera davvero monumentale che, nell’edizione originale, constava di circa 870 pagine stampate in colonna doppia.
Malgrado le sue manchevolezze, la saga di Varney the vampire si presenta come un insieme più o meno ben amalgamato di elementi che hanno dato origine ad alcuni temi e consuetudini narrative, ben riconoscibili al pubblico moderno.
Nel corso del 2010, Varney il Vampiro verrà presentato - si diceva - in edizione integrale, in tre volumi per un totale di circa 1500 pagine.
Un'opera davvero meritoria da parte della Gargoyle Books per gli amanti del genere, visto che Varney the vampire aveva visto la luce in edizione italiana in maniera assolutamente parcellare e frammentaria, con uno smilzo volumetto, presentato nel 1993 dalla Datanews, corredato di un'interessante prefazione di Fabio Giovannini, uno dei maggiori esperti di letteratura horror in genere e sui vampiri, in Italia.
Il libricino della Datanews appariva smilzo, di appena 87 pagine, inclusa la prefazione di Fabio Giovannini che ne ne occupava ben venti: quindi si trattava più che altro d'un semplice "assaggio" dell'opera originale per i gourmet del genere.
Per quanto brossurato e con il testo ridotto ai minimi termini, si trattò di un'edizione accurata, corredata com'era di alcune illustrazioni tratte dall'edizione originale o, comunque, di quell'epoca.
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Scriveva Giovannini, per contestualizzare Varney the vampire davanti al lettore italiano
Il 1847 è stato un anno importante per la cultura del vampiro, questo filone sotterranneo insinuato nella letteratura e nel cinema, nell'arte e nei diversi media, che sembra riaffacciarsi prepotentemente nella nostra fine di secolo.
Nel 1847 nasce a Dublino Bram Stoker, l'uomo che scriverà anni dopo il romanzo Dracula. E del 1947 è la pubblicazione delle avventure di Varney il vampiro, un personaggio che di Dracula è considerato a buon diritto il vero antenato e che appariva come protagonista centrale di quello che può essere considerato il primo romanzo inglese dedicato al vampiro.
Quello della Datanews era un semplice ripescaggio "antologico", indubbiamente lodevole, scaturente soprattutto dall'onda lunga dell'interesse germogliato nel pubblico (e immediatamente "cavalcato" dallle scelte editoriali) nei confronti della letteratura fantastica in genere e di alcuni suoi autori-cardine che erano stati illuminati e trattati come oggetto di interesse cult da Jorge L. Borges, da Silvina Ocampo e da Adolfo Bioy Casares nella loro Antologia della letteratura fantastica.

Verso la fine degli anni '30 tre amici di Buenos Aires - Jorge Luis Borges, Adolfo Bioy Casares e sua moglie Silvina Ocampo - decidono di inventare una sorta di personalissima antologia dei propri autori preferiti. Nasce così, nel 1940, l'"Antologia della letteratura fantastica", una silloge di settantacinque racconti fantastici: da Niu Sengru a Martin Buber, da Lewis Carroll a Cocteau, da Chesterton a Joyce, da Kafka a Kipling. Naturalmente, il "fantastico" va inteso in senso borgesiano: una letteratura segnata dall'immaginario e da un nuovo modo di rappresentare la realtà, che determina una rottura con la tradizione realista in voga negli anni Trenta, e che nulla ha a che vedere con il genere "gotico".Tale antologia diede uno spunto decisivo nel rendere "lecita" e culturalmente valido l'interesse verso autori prima considerati esclusivamente di genere.
Cambiando genere, il successo e l'interesse (con relative aperture culturali, per quanto inizialmente mosse dalla "moda") determinati dalla raccolta di racconti fantastici furono pari a quelli suscitati dalla famosa antologia curata da Fruttero e Lucentini, Le meraviglie del possibile. Antologia della fantascienza che, in Italia, consentì di sdoganare nel territorio dell'editoria di serie A, opere che prima erano considerate "non degne", in quanto troppo legate ad un "genere" al quale non si riconosceva alcun valore letterario.
Ma tornando a Varney the vampire, il programma editoriale che la Gargoyle Books sta portando a compimento, riflette le esigenze di un pubblico di lettori che - per quanto di nicchia - si sta rivelando sempre più maturo ed esigente nelle sue scelte.
Queste le scadenze editoriali nella riprosta della saga di Varney.
A marzo, è prevista l’uscita del primo volume, con il sottotitolo Il banchetto di sangue (che è poi quello originale del romanzo: The feast of Blood), con l'introduzione di Carlo Pagetti, ordinario di Letteratura Inglese all'Università degli Studi di Milano storico ed esperto di letteratura fantastica; a luglio, uscirà il secondo volume dal titolo L'inafferrabile, introdotto Fabio Giovannini, che traccerà nelle sue note introduttive un excursus sulla figura del vampiro; il terzo volume, sottotilato "L'ombra del vesuvio", infine, sarà in libreria a novembre con il contributo di Mauro Boselli, l'ideatore di Dampyr, che nel suo commento traccerà l'evoluzione del vampiro nella letteratura popolare, dal penny dreadful al fumetto.
Si tratterà dunque di un recupero "colto" del feuilleton vampirico, antesignano della successiva produzione letteraria che consegna il tema del vampiro al grande pubblico, creando le premesse per una sua continuità sino ad oggi, visto che possedeva un fascino che "...resiste al tempo grazie all'incredibile modernità seriale del plot che anticipa temi come il contagio di massa e le società segrete che proteggono nell'ombra i non-morti" (dalla presentazione della saga da parte della casa editrice).
Aggiungiamo, per completezza, che i "penny dreadful" (ovvero,"spaventi - o terrori - al costo di un penny") nell'Inghilterra vittoriana, erano dei libri di bassissimo costo ( un penny, appunto) e dal contenuto in genere orrido, ma il più delle volte anche scadente. Fu un'espressione idiomatica analoga alla più recente parola pulp che, nella cultura americana degli anni '50 e '60, venne utilizzata per indicare prodotti editoriali nel campo del genere science-fiction e horror economicissimi (e, quindi, di bassa qualità e durata nel tempo), ma spesso firmati da autori che, in seguito, scoperti da un pubblico, più vasto e colto, avrebbero assunto grande rilevanza, divenendo essi stessi "cult".
La traduzione di questo kolossal vampirico è stata affidata a Chiara Vatteroni.

giovedì 28 gennaio 2010

Il fascino del mare e la solitudine dell'Uomo davanti all'immensità della Natura (Alice Ferretti)


C’è un dipinto realizzato da Caspar David Friedrich, “Il viandante sul mare di nebbia”, forse una delle opere più famose dell’artista, dove un viandante solitario viene ritratto di spalle su una scogliera ed è affacciato su un mare di nebbia.
La sensazione, nel guardare il dipinto, è immediata, una natura immensa e potente, meraviglia e sgomento di fronte all’immensità dell’universo.
E’ la stessa sensazione che ho io quando passeggio sulla spiaggia da sola e mi siedo a guardare il mare.
E’ come se mi trovassi di fronte a qualcosa di assolutamente inaccessibile, forse sconosciuto, ma ad un tempo ne sono affascinata, attratta. Quando me ne ritorno a casa, a volte, mi porto un po' della sua sabbia , ed è come se mi portassi un po’ del suo sale e della sua infinità.
Ci sono poi dei giorni in cui, tramontando il sole sul mare, è come se ci fossero delle pennellate di oro e rubino sullo sfondo blu del cielo che si tuffano tremolanti.
Questi momenti mi fanno allora riflettere sul controsenso che tutto prima o poi debba finire.
Certo potremmo star a filosofeggiare, a discutere sulla fede, sul nulla prima della nascita e sul nulla dopo la morte, ma forse dovremmo prima decidere su come comportarci tra il primo e l’ultimo istante della nostra vita, a quanti incontri, sensazioni, volti possono renderci felici.


Il viandante sul mare di nebbia (1811) Caspar David Friedrich – (Der Wanderer über dem Nebelmeer) è un dipinto ad olio su tela realizzato nel 1811 ed è forse il quadro piu famoso del pittore, forse proprio perchè in quest’opera si avverte immediatamente la poetica del pittore, traducibile nel sublime, nel senso di una natura immensa e potente, che sarebbe poi il cardine del sentire romantico.
Viene così ritratto di spalle un’uomo, il viandante solitario, la quale posizione evoca proprio la parte inconscia e nascosta dello stesso, e che affacciato sul mare di nebbia che copre un’intero paesaggio montagnoso è li ad osservare il tutto.
L'assenza di vegetazione sottolinea la mancanza di posti accoglienti.
Il tutto, infatti, trasmette un senso di inquietudine e la stessa sensazione esprimono le rocce, nere e inospitali, che spuntano fuori dalla nube di nebbia, che sembra essere quasi un vapore esalato dalla terra dal suo interno.
E ciò ci riporta ad immaginare un paesaggio angusto, quasi come doveva essere attimi dopo la creazione.
L’uomo, li sulla scogliera, ci permette di capire quanto è piccola la dimensione umana rispetto alla grandiosità della natura.

sabato 16 gennaio 2010

Nel film di Guy Ritchie, un "nuovo" Sherlock Holmes in bilico tra innovazione e tradizione


Il nuovo film su Sherlock Holmes è stato studiato dal produttore Lionel Wigram per circa un decennio. Egli, realizzando nuove prospettive in cui inquadrare il personaggio, pensieri e bozze sul suo carattere e sul suo aspetto, ha cercato di riscriverlo in una versione moderna alquanto bohemien.
Nel 2006, abbandonando il posto di dirigente presso la Warner Bros., iniziò a scrivere un fumetto basato sullo script scritto, elaborato anni prima.
Rivedendo i tratti che hanno accomunato l'investigatore nel corso delle prolifiche saghe cinematografiche, Wigram ha reinventato il personaggio, avvicinandolo alla sensibilità contemporanea, così da poter attrarre un vasto pubblico, compresi i giovani e i giovanissimi che nulla sanno della saga di romanzi e di racconti (sia del creatore Sir Arthur Conan Doyle, sia dei numerosi epigoni che, ispirandosi al canone stabilito da Doyle hanno continuato a proporne di nuovi) che hanno per protagonista Sherlock Holmes e il suo assistente Watson e che, sicuramente, si annoierebbero a morte a guardare uno dei tanti film di vecchia generazione che lo hanno visto come protagonista.
Qui, l'antagonista di Holmes è Lord Blackwood, creato ispirandosi alla vita e alle attività dell'occultista Aleister Crowley e introdotto con l'intenzione di inserire a fine film l'acerrimo nemico di Holmes, il professor Moriarty, possibilmente per avere il pretesto per dei seguiti a venire.
Devo confessare che avevo nutrito forti perplessità e resistenze davanti a questo film.
I trailer, proiettati al cinema proponevamo un film d’azione, fatto di risse, inseguimenti e acrobazie varie, un’action movie insomma con tutti i crismi. E dal trailer mi sarebbe sembrato impossibile immaginare una storia anche di poco aderente a quel canone che, da adolescente, avevo appreso ad amare grazie a quei libri che mio padre aveva cominciato a passarmi tra i 14 e i 15 anni: storie davvero indimenticabili a partire da Uno studio in rosso oppure dall’intrigantissimo Il Mastino di Baskerville.
Non volevo rovinarmi il piacere del personaggio e di quel tipo di avventure.
Poi, alla fine, ci sono andato: la curiosità l’ha avuta vinta sulle resistenze.
E devo dire che mi sono ampiamente ricreduto!
Guy Ritchie è riuscito a confezionare un prodotto capace di mantenersi in equilibrio tra tradizione e modernità, tra rispetto del canone holmesiano e innovazione.
Ed è indubbiamente grande la performance di Robert Downey Jr, nei panni di Sherlock Holmes, non più soltanto freddamente razionale e quasi del tutto sordo alla voce del cuore e delle emozioni. Quello del film è un personaggio istrionico, un po’ bohemien, acuto nel ragionamento abduttivo, ma altrettanto determinato e fulmineo nell’azione, dedito alla meditazioni e alle arti marziali, capace di intrufolarsi nei bassifondi dove non disdegna a partecipare a scommettere nelle partite di pugilato a mani nude, mettendosi egli stessi nei panni del pugilatore, attratto dal gentil sesso, ma nello stesso tempo legato in un rapporto sottilmente omosessuale al fidato Watson (Jude Law) che, a far da contraltare alla genialità esuberante di Holmes, appare alquanto compassato e gigionesco, ma anche affascinante e dandy quanto basta.


Anche le ambientazioni in una Londra di fine secolo egregiamente ricostruite in digitale propongono un equilibrio dinamico tra modernizzazione della tarda età vittoriana (l’apertura di grandi slarghi, la bonifica della zona dei docks e la costruzione del mirabolante Tower Bridge) e aderenza alla rappresentazione di una metropoli dickensiana fatta di bassifondi, vicoli maleodoranti e popolati da turpi individui, oltre che di misteriosi sotterranei e passaggi ricavati dalla rete fognaria che evocano tanto atmosfere da feuilleton alla maniera di Sue e de I Misteri di Parigi.
Le scene di azione concitata, in cui si esaurivano i trailer, sono in verità molto circoscritti e servono a mostrare, in verità, la grande maestria nelle arti marziali di Holmes che anticipa con fredda razionalità la sua azione punto per punto per poi trasformarla in azione fulminea e quasi istantanea (e, a questo scopo, l’uso alternato del fast e dello slow forward è davvero magistrale)
Per quanto concerne l’intreccio, l’avventura proposta nel grande schema non riflette nessuna di quelle del canone holmesiano: non risulta nessuna storia in cui Holmes si dedichi a contrastare e a sconfiggere una setta occultistica il cui capo carismatico sia animato da una dissennata volontà di potenza e dal desiderio di controllare la nazione inglese e, poi, il mondo.
Diciamo pure che il plot del film propone il tipo di avventura pensata per rendere originale ed appetibile l’intreccio, portandolo su tematiche indubbiamente attuali: Sherlock Holmes diventa così il salvatore dell’Inghilterra, ma anche del mondo.
Peraltro, alla fine si scopre che il malvagio Lord Blackwood altri non è che il dott. Moriarty, il nemico giurato di Sherlock Holmes: e, così, si rientra a pieno - ancora una volta - nel canone holmesiano.
Peraltro, l’introduzione di questo elemento occultistico è un modo per rendere omaggio a Sir Arthur Conan Doyle che, nell’ultima parte della sua vita dopo la morte della moglie, fu ossessionato dal paranormale e che, in diverse circostanze, partecipò a sedute spiritiche e ad incontri con celebrati medium del suo tempo nel tentativo di mettersi in contatto con la defunta consorte.
Peraltro, gli altri personaggi ricorrenti nella saga scritta ci sono tutti, come ad esempio l’ispettore Lestrade (deuteragonista "ufficiale" delle indagini portate avanti da Holmes e spesso "bisognoso" del suo intervento risolutore) che ci appare assolutamente identico all'omologo letterario.
Insomma, si tratta a conti fatti di un film da vedere che
riesce a dare esattamente ciò che promette e ha il pregio di poter fornire ai più giovani uno stimolo per visitare, se ancora non l'hanno fatto, i romanzi e i racconti di Sir Arthur Conan Doyle.

Scheda film
Regia: Guy Ritchie
Interpreti principali: Robert Downey Jr., Jude Law, Rachel McAdams, Mark Strong, Kelly Reilly,Hans Matheson, Eddie Marsan, James Fox, Bronagh Gallagher, Robert Stone, William Hope, Robert Maillet, William Houston, David Garrick, Terry Taplin, Geraldine James, James A. Stephens, Joe Egan
Genere: azione
Ratings: Kids+13
Durata 128 min.
Origine: USA, Gran Bretagna, Australia 2009
Warner Bros Italia
Uscita: venerdì 25 dicembre 2009

sabato 9 gennaio 2010

Hachiko: la storia toccante di un cane fedele sino alla morte

Hachikō (10 novembre 1923 – 8 marzo 1935) fu un cane di razza Akita. Dopo la morte del suo padrone, Hidesaburō Ueno, si recò ogni giorno, per quasi dieci anni, ad attenderlo, invano, alla stazione, in cui l'uomo prendeva il treno. La vicenda ebbe un enorme riscontro nell'opinione pubblica dell'epoca e ben presto Hachikō divenne, in Giappone, un emblema di affetto e lealtà.

Nel 1934, al fedele animale fu dedicata una statua e, negli anni, la sua storia divenne il soggetto di film e di alcuni libri. Conosciuto anche come Chūken Hachikō letteralmente cane fedele Hachikō), il suo vero nome era Hachi (il suffisso "kō" è usato come vezzeggiativo)

Hachikō nacque in una fattoria di Odate, nella Prefettura di Akita, il 10 novembre 1923.
Era un esemplare maschio di Akita bianco. All'età di due mesi, venne adottato da Hidesaburō Ueno, un professore universitario del dipartimento agricolo di Tokyo, che lo portò con sé nella sua abitazione a Shibuya.
Ogni mattina, il professor Ueno, pendolare per esigenze di lavoro, si dirigeva alla stazione di Shibuya per andare a lavorare. Il suo fedele cane lo accompagnava sempre e ritornava alla stazione quando il suo padrone rientrava dalla giornata lavorativa. Il 21 maggio 1925, Ueno morì di ictus mentre era all'università. Hachikō, come ogni giorno, si presentò alla stazione per le 3.00 del pomeriggio (l'orario in cui il suo padrone solitamente arrivava), ma il professor Ueno non era ancora tornato.
Il cane attese invano il suo arrivo. Ciononostante, tornò alla stazione il giorno seguente e fece così anche nei giorni successivi.
Con il passare del tempo, il capostazione di Shibuya e le persone che prendevano quotidianamente il treno iniziarono ad accorgersi di lui e cercarono di accudirlo, offrendogli cibo e riparo.
Con il tempo, tutto il popolo giapponese venne a conoscenza della storia di Hachikō; molte persone cominciarono ad andare a Shibuya solo per vederlo e per poterlo accarezzare.
Nonostante il passare degli anni e il progressivo invecchiamento, il cane continuò comunque a recarsi alla stazione, esclusivamente la sera, quando il suo padrone sarebbe dovuto arrivare.
Nell'aprile 1934, venne realizzata, ad opera dello scultore Teru Ando, una statua in bronzo con le sue sembianze, posta nella stazione di Shibuya; un'altra simile venne eretta ad Odate, la sua città natale; lo stesso cane fu presente all'inaugurazione.
L'8 marzo 1935 Hachikō morì di filariasi all'età di 12 anni, dopo aver atteso ininterrottamente per ben 10 anni il ritorno del suo padrone.
La sua morte impietosì la comunità nipponica; la notizia venne inserita in tutte le prime pagine dei giornali giapponesi e venne dichiarato un giorno di lutto per ricordare il suo reiterato gesto di fedeltà nei confronti del padrone.
Durante la seconda guerra mondiale, il governo giapponese, necessitando quantità ingenti di metalli per costruire le armi, ordinò di usare anche quello della statua di Hachikō.
Nel 1948, tre anni dopo la fine del conflitto, Takeshi Ando, figlio di Teru, ricevette la commissione di scolpire una nuova statua raffigurante il cane, sempre nello stesso posto di quella precedente.
Nonostante il corpo di Hachikō sia stato preservato tramite tassidermia ed esposto al Museo Nazionale di
Natura e Scienza a nordovest della stazione, alcune sue ossa sono sepolte nel cimitero di Aoyama, accanto alla tomba del professor Ueno.
L'8 aprile di ogni anno, in Giappone viene organizzata una cerimonia per ricordare Hachikō, alla quale
partecipano vari amanti dei cani che portano il loro omaggio alla sua lealtà e alla sua devozione.
La storia del cane fedele Hachiko venne discussa dallo psicoanalista Jeffrey Moussayeff Masson - già curatore dell'Archivio Freud - in un libro in cui analizza - con l'aiuto di osservazioni personali e il supporto di una vastissima aneddotica - la capacità dei cani di provare emozioni, di amare e di serbare una profonda memoria affettiva (I cani non mentono sull'amore, Baldini&Castoldi, 1997).
La storia di Hachiko è una delle più emblematiche tra quelle da lui riportate.
Di recente, è uscito nel grande schermo un nuovo film che racconta questa storia toccante ed esemplare, dal titolo
Hachiko - il tuo migliore amico (Hachiko: A Dog's Story).
In particolare il film si concentra sulla lunga attesa di Hachi, convinto che prima o poi il professor Ueno sarebbe tornato: con il passare del tempo, Hachiko - durante la sua visita quotidiana alla stazione - tocca la vita di molti che lavorano nelle vicinanze, insegnando alla popolazione locale con il suo esempio vivente l'amore, la compassione e soprattutto l'irriducibile fedeltà.
Oggi, la statua in bronzo di Hachiko siede nel suo posto di attesa subito al di fuori della stazione di Shibuya in Giappone come un ricordo permanente di una devozione e di un amore incondizionato che si allargano sino a diventare un'icona universale di tali virtù.


Scheda del film
Regia: Lasse Hallström
Sceneggiatura: Stephen P. Lindsey, Kaneto Shindô
Interpreti: Richard Gere, Joan Allen, Jason Alexander, Cary-Hiroyuki Tagawa, Erick Avari, Davenia McFadden, Sarah Roemer, Kevin DeCoste, Robbie Sublett, Donna Sorbello, Tora Hallstrom, Bates Wilder, Denece Ryland
Fotografia: Ron Fortunato Montaggio: Kristina Boden
Musiche: Jan A.P. Kaczmarek
Produzione: Grand Army Entertainment, Inferno Distribution, Shochiku Kinema Kenkyû-jo
Distribuzione: Lucky Red
Origine: USA 2009
Uscita Cinema: 30/12/2009
Genere: Drammatico
Durata: 93 Min
Formato: Colore

venerdì 8 gennaio 2010

Vanessa Duriès, icona del Sado-Maso, racconta in un piccolo diario il suo percorso di formazione alla sottomissione


Vanessa Duriès, anche conosciuta come Katia Lamara, è un scrittrice francese, precocemente scomparsa (1972 - 13 décembre 1993). In particolare è autrice di un una sorta di “diario” o monologo sado-maso che, pubblicato nel 1993 con il titolo “Le lien”, è una confessione romanzata della sua sottomissione volontaria (per amore) ad un “dominatore” (Laika, nel piccolo libro, è il nome “pubblico” della narratrice e Pierre quello del suo padrone-dominatore e “maestro).
La pubblicazione del romanzo della Duriès suscitò in Francia qualche scalpore in ragione della giovanissima età della sua autrice, ma anche del suo candore sia nel raccontare anche di cose estremamente scabrose sia nell’esibirsi pubblicamente in alcune trasmissioni su di lei e sul Sado-Maso, mandate in onda da alcune grandi reti televisive nazionali francesi.
Ad accrescere lo “scandalo” e l’imbarazzo generale, vennero pubblicate nel numero di maggio 1993 di “Penthouse” (edizione francese) un’intervista a Vanessa corredata di numerose foto in tenuta da “schiava”. Quando il suo caso venne alle luci della ribalta, Vanessa Duriès venne definitivamente allontanata dalla sua famiglia che non accettò in alcun modo le sue scelte e gli ambienti nei quali si muoveva. La sua morte sopraggiunse improvvisamente, in un incidente d’auto, il 13 dicembre 1993, lungo una strada del Sud della Francia, all’età di 21 anni. Fu proprio questa morte prematura a farla diventare rapidamente un’autentica icona negli ambienti SM.
Poco dopo la sua morte vennero pubblicati i primi capitoli di un secondo romanzo, rimasto incompiuto, cui Vanessa stava lavorando, L’étudiante.
Il suo racconto non è semplicemente un’esposizione di alcune pratiche erotiche estreme (se così fosse la sua lettura sarebbe unicamente morbosa) ma è un’esposizione accurata (ed attendibile) delle caratteristiche del legame che connette in modi inestricabili una “schiava” con il suo “padrone” e della filosofia che vi è sottesa.
Per alcuni aspetti il Sado-Maso diventa un gioco erotico fatto di mosse e contromosse, ma è pur sempre un gioco, nel senso che è limitato da regole che, preventivamente, impongono dei limiti che non devono essere superati.
Un gioco che, per quanto estremo, ha dei risvolti raffinati con pratiche volte a potenziare il livello psicologico ed emozionale della relazione. In questo senso il SM non ha nulla a che a vedere con il sadismo e il masochismo intesi come categorie psicopatologiche (un tempo definite come “parafilie”), né tanto meno con il masochismo morale ( il bisogno di asservimento ed umiliazione) e con l’algolagnia (la ricerca del dolore come fonte di piacere).

Il fulcro attorno cui ruotano le relazioni SM, con tutte le relative ritualità ed effetti “speciali” (il dungeon, le cinture di castità ed una serie di svariati e fantasiosi attrezzi) è quello del gioco sottile e continuamente mutevole tra sottomissione e dominio, come acutamente mostra Vanessa Duriès nel suo scritto.
Il gioco delle relazioni tra il Padrone e sua schiava è sottile e delicato. Le schiave devono sapere indicare ai Padroni i limiti da non superare. L’autorità assoluta è un sapiente gioco di equilibrio, il più piccolo passo falso rompe l’armonia, oltre a fare a pezzi la considerazione che uno ha dell’altro. Ogni essere umano ha i suoi limiti e la schiava ha i suoi. Nessun Padrone può andare al di là di quelli accettati, moralmente o fisicamente, dalla sua schiava. Ogni deroga a questa regola può rivelarsi mortale (p.25)
Ma è anche vero che, in questo gioco sottile di ritualità, mosse e contromosse, si crea un paradosso, acutamente descritto dalla Duriès
“…il Padrone non è mai ciò che si crede. Il Padrone vive in uno stato di totale dipendenza dalla sua schiava. In realtà è schiavo della sua stessa schiava, della sua accettazione a subire le sevizie che lo eccitano. Dopo aver compreso questa realtà paradossale non c’è più vergogna a essere schiava. Al contrario, per il gioco sottile dei rapporti di forza, la schiava può rivelarsi colei che esercita il vero potere all’interno della relazione sado-masochistica (p. 28, corsivo mio)
In tutta la sua narrazione, Vanesa Duriès tende a sottolineare che esistono nel sado-maso due mondi che occasionalmente vengono a contatto: uno è quello sofisticato e rarefatto che lei descrive (e che potrebbe essere bene rappresentato dalle foto di Helmut Newton), l’altro è quello del sado-maso commerciale e mercenario che è una pura speculazione sulle perversioni altrui, ma che non ha nulla che vedere con uno stile di vita improntato al rigore delle proprie scelte proprio di una élite molto ristretta. Il “vero” cultore del sado-maso considera i rappresentanti di questa seconda realtà “non degni”.
Il piccolo libro della Duriès che, in questi giorni esce in edizione italiana per i tipi della Aliberti, in poco più di 120 pagine illustra tutto questo. E’ suddiviso in una serie di brevi capitoli che letti in sequenza possono apparire come un percorso di “formazione” alla sottomissione, attraverso una serie di prove successive, ma che nello stesso tempo – se letti in ordine sparso - offrono al lettore una serie di tematiche del sado-maso
Dalla scheda di IBS
Novella "O", Vanessa Duriès è un'icona del sadomaso, sia per essere l'autrice de Il legame, libro culto della letteratura erotica osannato dalla critica e tradotto in una decina di paesi, sia per la sua tragica scomparsa a soli ventun anni.
La sua morte prematura ha contribuito a renderla un personaggio leggendario. Racconto sconcertante di passione e di dolore, Il legame narra l'amore paradossale di Vanessa Duriès per Pierre, il suo primo amante che l'ha iniziata alla sottomissione e alle pratiche del BDSM (Bondage-SadoMaso). Introdotta sin dalla sua prima esperienza sessuale nel cuore di un universo erotico estremo, Vanessa Duriès analizza perfettamente il legame che unisce, nella sofferenza e nell'umiliazione, la schiava al suo padrone. Ciò che può apparire scioccante nelle sedute di dominazione diviene, per Vanessa, una naturale e indiscutibile prova della sua passione amorosa.

domenica 3 gennaio 2010

Finiscono, prima o poi, finiscono... le pene d'amore

(Palermo, Fossa del Gallo - Foto di Maurizio Crispi)

No, no, stai tranquillo, amico mio! Prima o poi finirà.
E, quando ciò accadrà, sarai stupito di te stesso, ignoto graffitaro!
Quello che ti sarebbe sembrato prima impossibile, ti apparirà semplice e scontato.
E sarai stupito della facilità con cui dimenticherai, della rapidità con cui quella persona che ti era sembrata unica ed insostituibile diventerà ordinaria e quasi significante, un ricordo come tanti altri nel flusso della tua vita.
Basta essere pazienti!!!
E' sufficiente che tu abbandoni questa tua incrollabile, minacciosa, convinzione che non ti giova a nulla e che non fa che peggiorar le cose!
Sono certo che hai ancora molte cose da fare e da vedere nella tua vita...
Ti senti ferito adesso, ti senti anche offeso, forse...
Esci dal tuo guscio e guardati attorno...
Vedrai che la vita attorno a te brilla di molti colori e che tante altre possono essere le sue seduzioni e i suoi incanti...
Non stare a penare per chi ti ha abbandonato...
Sicuramente non lo merita!
Tanto quello che hai provato, quello che hai sentito, rimarrà per sempre tuo e nessuno te lo potrà mai levare...

sabato 2 gennaio 2010

Il perdono istrionico di Berlusconi e il silenzio carismatico del Papa


Dopo le parole distensive sull’amore che vince sull’odio, sui toni da abbassare, Silvio Berlusconi ha fatto la dichiarazione plateale: "Ha perdonato" Massimo Tartaglia.
Ma, sin dall'inizio, Massimo Tartaglia è stato dichiarato dai media, sulla base di fondate informazioni, un soggetto sofferente di problemi psichici, per i quali è stato da anni in trattamento presso strutture psichiatriche.
Siccome, nello stesso tempo, Berlusconi chiede alla giustizia di non fare eccessivi sconti all’aggressore di piazza Duomo perché altrimenti il rischio sarebbe quello di far passare il messaggio che chiunque può colpire liberamente un'istituzione, si attiva una contraddizione in termini.
Il perdono può essere erogato soltanto a chi manifesta consapevolezza della colpa per un gesto lesivo compiuto.
Laddove, per via di un'infermità psichica, non vi sia consapevolezza alcuna del gesto appena compiuto in modi che abbiano causato nocumento ad altri non vi può essere pentimento nè tantomeno dall'offeso può essere elargito un perdono.
Le dichiarazioni di Berlusconi, in questo senso sono state premature, poichè egli ha espresso il suo perdono a Tartaglia d'emblée, come dichiarazione plateale ed ostentata.
Evidentemente, considerandolo consapevole del suo gesto (non il gesto di un folle, ma quello portato avanti con lucida determinazione), contestualmente, afferma tuttavia che i magistrati non dovranno fare a Tartaglia eccessivi sconti di pena.
Allora, Tartaglia è perdonato o non è perdonato?
Se è perdonato, non dovrebbe essere perseguito, né penalmente, né civilmente, mentre - indubbiamente - i legali di Berlusconi intraprenderanno contro di lui anche un contenzioso civile per il risarcimento del danno subito dal Premier (sia somatico sia esistenziale).
Ma se Tartaglia è un disabile psichico che, per via delle sue manifestazioni psicopatologiche, presenta una semi-infermità di mente, che ha gravemente menomato la sua capacità di intendere e di volere, o una totale infermità di mente che tali capacità ha abolito del tutto, allora - per definizione - non è consapevole di ciò che ha fatto, non può fare alcun esercizio di auto-critica e non ha la possibilità di valutare la gravità degli effetti della sua azione; di conseguenza, non può nemmeno esprimere pentimento, né tantomeno essere perdonato.
Giustamente, la vedova del poliziotto di scorta ucciso dalla mafia, grido in chiesa, durante la cerimonia funebre per le vittime di quella strage: "Mafiosi, inginocchiatevi! Ed io vi perdono.", quasi dire. Venite allo scoperto, riconoscete la vostra colpa inginocchiandovi ed io vi potrò perdonare". E si badi il perdono "umano" del singolo non necessariamente coincide con il decorso della Giustizia, nel senso che il perdono in sè non esenta dall'azione penale. Anzi, il corretto decorso dellìazione penale è un requisito fondamentale perchè si possano attuare tutte quelle condizioni che favoriscano l'intimo riconoscimento della colpa, il pentimento e, eventualmente, il generarsi del perdono da parte dell'offeso.
Il perdono di Berlusconi, invece, è stato affrettato, mostrandosi con una sua qualità plateale e, indubbiamente, istrionica,ed è stato lanciato più per l'immagine che nella sostanza.
Che Berlusconi perdoni così precipitosamente - prima che sia perfezionato un reale accertamento delle cose, compresa una specifica perizia psichiatrica su Tartaglia che consenta di legare in qualche misura le sue condizioni psicopatologiche al gesto compiuto - è quanto meno prematuro, avventato, superficiale.
Ma, considerando le qualità del nostro premier e della particolare tipologia di società dello spettacolo che egli ha generato, il singolo gesto per essere spettacolare non necessita nè di profondità nè di sostanza, ma deve soltanto colpire lo spettatore per la sua gratuita spettacolarità: il perdono, dunque,è stato un gesto da guitto - più che altro - attento a soddisfare le esigenze del suo pubblico.
Appare evidente che Tartaglia, correttamente, debba essere prima giudicato e che, laddove dichiarato colpevole (quindi con una pena erogata), solo allora e, a condizione, che egli esprima pentimento, Berlusconi possa - umanamente, solo umanamente - perdonarlo.
Ma c'è da dubitare che, a percorso processuale compiuto e nella riservatezza di uno spazio privato, Berlusconi possa aver voglia ancora di perdonare Massimo Tartaglia.
Ben diversamente si è comportato il Papa dopo l'aggressione in Vaticano, alla vigilia di Natale, da parte di Iva Majoli. Dopo l'interruzione concitata della processione e la sua caduta, il Papa si è ripreso e, con la ieraticità richiesta, ha continuato a celebrare la cerimonia in cui era intento.
Non ha pronunciato una sola parola in merito all'accaduto, né subito dopo il fatto (a caldo), né dopo (a Messa conclusa o nei giorni successivi).
Vorrei ricordare che Papa Giovanni Paolo II, a distanza di anni, andò a visitare il suo attentatore che, chiuso in una cella, scontava la sua pena, e - soltanto dopo che Alì Agca ebbe modo di esprimere pentimento per il gesto compiuto - il Papa lo perdonò, nel senso cristiano del termine, cioè gli remise la sua colpa, come per effetto di una confessione.
Nel confronto tra i due fatti recenti, entrambi connotati da un'azione aggressiva per quanto calibrata in modo diverso, si ravvisa immediatamente la differenza di statura tra i due personaggi: istrionico il nostro premier, pronto a fare una dichiarazione avventata e non fondata (perchè le circostanze ed il clima psicologico del gesto di Tartaglia devono ancora essere indagate e giudicate) e assolutamente carismatico ed ieratico il Papa che, nemmeno per un istante, ha tradito la compostezza rituale richiesta al suo ruolo di rappresentante del Dio dei Cristiani in terra.
Alla luce delle riflessioni sulle diverse categorie del perdono esposte sotto, appare evidente che, con il suo perdono, Berlusconi sia sia collocato in una posizione di preminenza rispetto al Papa. Mentre quest'ultimo, infatti, ha mantenuto un composto silenzio sull'aggressione subita, Berlusconi si è immediatamente pronunciato, a caldo, con il volto lacerato e sanguinante, ad accrescere il pathos della sua dichiarazione. Viene da pensare alle parole - tramandate dai Vangeli - che Gesù Cristo pronunciòcrocifisso ed agonizzante:"Padre, perdona loro, perchè non sanno quel che fanno" e al fatto che lo stesso Gesù Cristo rimette il perdono al padre. Lui, mentre è crocifisso e soffre per quello che gli uomini gli stanno facendo, non è in condizione di perdonare.
Psicologicamente, quando si subisce un male, è difficile - se non impossibile - perdonare il proprio carnefice.
Ebbene, Berlusconi ha perdonato, assumendo contemporaneamente il ruolo del Figlio, come vittima sacrificale, e del Padre a cui si rimette il perdono.
Resta da capire se le parole del nostro Premier siano state dettate da ingenua buona fede, o da megalomania e delirio di onnipotenza, oppure infine da un'esigenza tattica che decisa a tavolino ripropone in modo ossessivo - anche se metamorfico - una rappresentazione di Sè come potentissimo dittatore oppure come un monarca assoluto. Ricordiamo che alcuni, analizzando la figura di Berlusconi, hanno chiamato in campo la figura dei "re taumaturghi" (di cui i sovrani francesi, sino alla Rivoluzione furono un paradigmatico esempio) che. come avevano il potere di guarire, così avevano il potere di perdonare.

La parola perdono deriva dal verbo perdonare che ha origine da condonare con cambio di prefisso e come forma rafforzativa (dal latino medievale, documentato nel secolo X).

1. Il perdono è un gesto umanitario con cui, vincendo rancori e risentimenti, si rinuncia a ogni forma di rivalsa di punizione o di vendetta nei confronti di un offensore. Per estensione ha il valore d'indulgenza verso le debolezze o le difficoltà altrui, oppure di commiserazione o di benevolenza. Un'altra estensione è la forma di cortesia: Chiedo, domando perdono....

2. Il perdono è anche un atto di clemenza di una pubblica autorità, un atto di grazia, la sospensione della persecuzione per varie categorie di reati. Nel passato, in linguaggio desueto, per perdono della vita s'intendeva l'esenzione della pena di morte o la grazia della vita. Nel diritto penale il perdono giudiziale è il beneficio applicato in particolari condizioni, secondo quanto previsto dagli articoli del Codice Penale.

3. Il perdono in senso ecclesiastico è la remissione dei peccati, l'assoluzione delle colpe contro Dio e contro la Chiesa. Può assumere la veste d'indulgenza plenaria o parziale, temporanea o perpetua concessa dalla Chiesa in relazione a una ricorrenza (giubileo) o un luogo importante, o collegato a un insieme di pratiche collettive o a un pellegrinaggio.

4. Il perdono in senso cristiano è la remissione dei peccati che Dio accorda quando il peccatore pentito riconosce, confessa e abbandona il suo peccato. I peccati sono perdonati da Dio grazie all'opera perfetta compiuta da Gesù Cristo che, morendo sulla croce e risuscitando il terzo giorno, ha pagato il prezzo che nessun uomo poteva pagare.Il perdono cristiano è strettamente legato alla penitenza, in greco metamelomai (avere rimorso rimpianto e pentimento, cambiare opinione e giudizio su qualcuno) e metanoeo (cambiare mentalità, mutare pensiero, convertirsi).
Gesù invita alla penitenza in (Lc 13). San Paolo scrive: - Benedetti (makarioi) e felici e degni di invidia coloro a cui le iniquità sono perdonate e i cui peccati sono sepolti - (Romani 4, 7-8).

Teorie psicologiche sul perdono

Negli ultimi decenni, il perdono ha ricevuto l'attenzione di quanti studiano la psicologia sociale. Sebbene non vi sia ancora una definizione da un punto di vista psicologico di questo concetto che raggiunga un sufficiente consenso nella letteratura relativa alla ricerca in tale campo, molti ricercatori assumono che il perdono sia correlato ad un cambiamento verso la socialità nelle motivazioni interpersonali nei confronti di un'altra persona che ha commesso un torto o un danno. Nello specifico, tre cambiamenti nelle motivazioni sembrano avvenire quando si perdona qualcuno:

1. Un aumento nella motivazione ad agire in un modo che beneficia colui che ci ha offeso o la relazione con tale persona;

2. Un calo nella motivazione di rivalersi nei confronti di colui che ha commesso il torto;

3. Un calo nella motivazione di evitare la persona che ha commesso il torto.

 
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