lunedì 28 dicembre 2009

La "storia segreta" di Leonardo da Vinci nella biografia romanzata di Jack Dann


Molti, tra i meno i giovani, ricorderanno le grandi biografie romanzate di Irving Stone su grandi personaggi che hanno impresso un'impronta indelebile nella scienza e nell'arte, come Michelangelo, Freud, Darwin, Pisarro e gli Impressionisti, Van Gogh.
La cattedrale della memoria. La storia segreta di Leonardo da Vinci di Jack Dann, pubblicato nel 1995 e solo nel 2009 in traduzione italiana, si pone appunto in questo solco, illuminando quel che è noto della biografia di Leonardo da Vinci, grande genio a tutto compo dell'Umanesimo, da vertici di osservazioni particolari ed inediti, di cui alcuni basati su fonti e altri semplicemente estrapolati o francamente inventati.
D'altra parte, per usare le parole dello stesso Jack Dann all'esordio della sua postfazione:
"La storia, soprattutto la storia dei grandi personaggi, è una sorta di creazione del mito, un'estrapolazione di fatti noti da romanzare" (p. 615).
Molto illuminante, a questo riguardo, è proprio la postfazione al romanzo, poichè in essa emergono alcuni dei punti vista prevalentemente utilizzati dall'autore.
Innanzitutto, l'ossessione per il volo che il genio leonardesco alimentò dentro di sè, per gran parte della sua vita, come testimoniano gli appunti e gli schizzi da lui eseguiti a più riprese, a partire dal famoso "sogno di volo", risalente alla sua infanzia e che fu oggetto di interpretazione da parte di Freud in "Un ricordo d'infanzia di Leonardo da Vinci", sogno su cui si fondò successivamente la convinzione che Leonardo fosse omosessuale. L'ossessione per il volo - e in particolare la convinzione che fosse possibile volare su ala rigida e mobile - guidò Leonardo in una serie di esplorazioni ed osservazioni, ma sfociò anche nell'elaborazione di disegni (e modellini) sbalorditivamente antesignani dell'elicottero e dell'aliante (quest'ultimo aderente ad una visone di grandissima modernità).
Leonardo fallì nella realizzazione concreta di molte delle sue intuizioni, ma lo stesso Hargrave (quello che in epoca moderna effettivamente realizzò l'aliante) testimonia della difficoltà che egli ebbe nel passare dall'intuizione all'operatività.

Vi è poi una parte consistente della storia romanzata di Dann riguardante il periodo trascorso da Leonardo in Medio Oriente, in Siria specificatamente, al servizio del califfo Ka'it Bay, dove avrebbe utilizzato le proprie invenzioni ingegnerestiche applicate alla guerra per sconfiggere le forze del turco Mehmet.
Si tratta di uno scorcio della storia leonardesca, quello intercorrente tra il 1482 e il 1486, su cui non si hanno molte notizie: pare che Leonardo sia vissuto quasi in una sorta di anonimato - anche epistolare - per oltre due anni.
L'autore, fondandosi sul valore euristico di alcune epistole inedite (vere o non vere che siano non importa
perchè fanno comodo all'intreccio romanzesco e alla costruzione d'un corpus mitico) si dilunga molto, su questo periodo, soffermandosi sull'effetto che ebbero le numerose applicazioni del genio leonardesco alla guerra, laddove nella realtà italiana - benchè egli avesse prodotto numerosi schizzi dimostrativi per Ludovico Sforza - non venne mai preso veramente sul serio, come pure da Lorenzo il Magnifico a Firenze. D'altra parte, l'autore sottolinea che Leonardo nei suoi disegni delle macchine da guerra raffigurate con dovizie di effetti avesse nei loro confronti un atteggiamento asettico, quasi amorale, tipico dello scienzato che persegue la sua idea "platonica", senza preoccuparsi degli effetti - anche devastanti - di una loro effettiva applicazione nella realtà.
La lettura del testo è accativante e scorrevole.
La Cattedrale della memoria è il primo romanzo di Jack Dann tradotto in lingua italiana.
Jack Dann, nato nel 1945, è un autore prolifico, autore di oltre sessanta romanzi, pluripremiato.
Questa in sintesi la trama (da IBS)

Questo romanzo traccia un ritratto inedito della vita di Leonardo che è anche un grande affresco del nostro Rinascimento. Partendo dall'infanzia e dalla formazione del genio di Vinci nella bottega del Verrocchio, Dann segue le tappe della biografia leonardesca con la tenacia e l'intuito di un detective. La vita artistica, culturale e politica della Firenze medicea è raccontata in queste pagine con la leggerezza e la finezza tipica dei grandi romanzieri. Le figure di Machiavelli, di Botticelli e di tutti i personaggi di spicco del Rinascimento fiorentino risaltano, nei loro rapporti con Leonardo, come caratteri sbozzati dalla mano di un raffinato scultore. Ma il cuore del libro è sicuramente nella scoperta fatta da Jack Dann di una pagina assolutamente inedita, e finora misteriosa, della vita di Leonardo. L'impiego delle sue geniali e fantasmagoriche "macchine da guerra" - quelle mirabilmente ideate e ritratte dalla mano leonardesca nei suoi libri di appunti - in una sanguinosa battaglia combattuta in Medio Oriente, dove Leonardo si trovava al servizio di un generale siriano. Il titolo del romanzo si rifà all'antica disciplina della mnemotecnica, che concepiva la mente come un complesso edificio - una cattedrale, appunto - per la "conservazione" dei ricordi e delle nozioni attraverso la memoria. Un edificio di cui occorre conoscere ogni stanza, e che bisogna imparare a percorrere: una cattedrale in cui sapersi orientare, per ritrovare i ricordi e le immagini e riconnetterli tra di loro.

Jack Dann

sabato 26 dicembre 2009

Gli sportivi il Natale vogliono festeggiarlo a modo loro! Podisti e nuotatori a Palermo lo hanno fatto così


Gli sportivi vogliono imprimere ai giorni di festa codificati la specifica impronta di ciò che è oggetto della loro passione. Quindi, ricorrenze come il Natale o il Capodanno diventano occasione per dar vita ad un rituale specifico che metta assieme lo speciale statuto del giorno con lo sport prediletto.
Allora, si esce a correre tutti assieme, magari con uno stile un po' diverso da quello solito: e qualcuno non disdegna di travestirsi da Babbo Natale oppure da "altro".
Ci si ritrova tutti sulla spiaggia per un rituale tuffo a mare (e così è soddisfatta la passione dei nuotatori, magari facendo seguire al tuffo un brindisi e una fetta di panettone). Si esce tutti assieme in canoa e si brinda a mare.
Sono tutti modi diversi per sottolineare che il vero sportivo non si piega alla convenzione della festa comandata, casa chiesa e famiglia, e che preferisce dedicare una parte del suo tempo a celebrare "ritualmente" la sua passione: si tratta infatti in queste occasioni più di una messa in scena ludica che non di un autentico alllenamento.
Un modo per ricordare a se stessi e agli altri quale sia la propria passione e che si tratta di cosa che, come ogni passione, non può essere trascurata nemmeno per un giorno.
Per tradizione l'ASD Palermo H13.30, sin dalla sua fondazione, pratica la corsa di Natale: ogni anno, la compagine dei partecipanti a questo raduno spontaneo è sempre più folta. Ci si riunisce davanti allo stadio di atletica e si corre compatti sino al teatro Massimo e, quindi, al ritorno si brinda con l'augurio di molte corse nel nuovo anno.
Afferma Luisa Balsamo, presidentessa dell'associazione podistica: "Vorrei ringraziare tutti i ragazzi che sono venuti a correre per le strade della città (stranamente animata, questo Natale) insieme a noi ! Non appartenevano soltanto alla PA H 13.30, ma c'erano anche parecchi ragazzi di tante altre Società, ed è proprio questo lo spirito che vogliamo vedere nel mondo dello sport.Lo sport è di tutti e non esistono barriere; è bello viverlo tutti insieme con lo spirito giusto"!

A Mondello, invece, quest'anno, oltre a numerosi sportivi che si sono tuffati individualmente - alcuni dopo aver corso - avvantaggiandosi della temperatura particolarmente mite, un folto gruppo di nuotatori si è riunito attorno a Mauro Giaconia per dare corso ad una lieta e goliardica nuotata collettiva, preceduta da una gioiosa rincorsa, di spruzzi e schizzi, nell'acqua bassa. Dopo il tuffo a mare, un bel brindisi ed una fetta di panettone.
Mauro Giaconia è detentore del record mondiale 24 ore di nuoto in acque chiuse, conseguito tra il 18 e il 19 dicembre 2008, a San Halfonso del Mar, in Cile.
Entusiasta della riuscita dell'iniziativa, Mauro Giaconia lancia un appello ai podisti: "Anche per noi è stato bellissimo! Un abbraccio e 1000 auguri. Dovremmo organizzare qualcosa insieme per il Natale 2010..."

giovedì 24 dicembre 2009

Lo faccio per pagare gli Elfi! Babbo Natale rapina una banca di Nashville, Tennessee


Babbo Natale Ha rapinato una banca. E' successo a Nashville (Tennessee, USA). Ma si trattava di Babbo Natale, improvvisatosi rapinatore oppure di un rapinatore travestito da Babbo Natale? Questa la notizia (del 23.12.2009)...

Babbo Natale rapina una banca
"per pagare gli elfi"

Il look era davvero natalizio: classico costume rosso e bianco, barba, baffi e cappellino. Un po' meno azzeccati gli occhiali da sole. A completare il quadro, una pistola. Un Babbo Natale rapinatore ha colpito una banca di Nashville, in America, riuscendo a portarsi via un bel gruzzoletto.

L'uomo si è presentato allo sportello della SunTrust Bank e, dopo aver puntato la pistola contro la cassiera, le ha ordinato di consegnargli una somma imprecisata. "Fai quello che ti dico, o uccido tutti!", la sua minaccia. La dipendente, terrorizzata, ha rispettato la sua richiesta. Preso il malloppo, Babbo Natale è fuggito su un'auto grigia. Prima di darsela a gambe, però, ha voluto spiegare ai presenti il perché del suo gesto: "Quei soldi mi servono per pagare gli elfi".

La polizia ha subito fatto partire le ricerche, anche se, dato il travestimento, sarà difficile riuscire a sfruttare le immagini riprese dalle telecamere a circuito chiuso (sopra ne vedete un fotogramma). "E' la prima volta che, nella nostra città, Babbo Natale colpisce una banca - ha detto il portavoce della polizia - In genere, i rapinatori indossano occhiali da sole, o, al limite, una maschera di Halloween".
E' una notizia davvero sconvolgente che attenta all'immagine buonistica di Babbo Natale/Santa Klaus, una vera picconata al mito alimentato da decenni di speculazione commerciale: se non ci si può più fidare di Santa Klaus e della sua innata, quasi proverbiale, bontà, di chi ci potrà mai fidare in un prossimo futuro? Almeno, la motivazione della rapina rispettava il cliché. Il buon Babbo Natale doveva pagare elfi e folletti, che minacciavano di entrare in sciopero a causa di un mancato pagamento dei precedenti stipendi, ed egli, di fronte al rischio di mali estremi, ha voluto fare ricorso a "estremi rimedi", agendo - a conti fatti - a fin di bene.
Pagati i suoi dipendenti con denaro cash e scongiurato il rischio di sciopero, tutti i bambini del mondo potranno avere i loro doni!

Un Babbo Natale che s'è modernizzato, allineandosi ai moderni metodi di far soldi... applicando il principio secondo cui "il fine giustifica i mezzi"... Rapido ed invisibile, peraltro: il Babbo Natale rapinatore s'è dileguato, senza lasciare alcuna traccia di sé. Così rapidamente, che si sarebbe portati a pensare che, fuori dall'Istituto di Credito, lo aspettasse una slitta trainata da un tiro di renne, la stessa da lui usata per distribuire i doni a tutti i bambini del mondo in una sola notte...

Da un'altra fonte risulta che la dipendente interpellata da Babbo Natale e sotto la minaccia dell'arma puntata su di lei, angosciata, gli avrebbe chiesto di levarsi almeno quegli inquietanti occhiali da sole, in modo tale che lei potesse almeno riconoscerlo indiscutibilmente come il "vero" Babbo Natale... Questo, per dire, come in America (USA) e nel resto del mondo colonizzato culturalmente dalla "pax americana" sia forte e radicato il mito del Babbo Natale buono e provvido: come dire, "Se sei Babbo Natale come dici di essere, fatti riconoscere, levati quegli occhiali da sole ed io non avrò più alcuna paura!"

mercoledì 16 dicembre 2009

I diversi volti della Medicina contemporanea nel crudo romanzo di Christian Lehmann

Per i tipi di Meridiano Zero e nella traduzione di Giovanni Zucca, ha visto la luce in edizione italiana Il seme della colpa del francese Christian Lehmann, inquadrato all'interno di una collana di noir, anche se - a mio avviso - ha poco del noir in senso stretto e sembra possedere piuttosto le qualità del romanzo-denuncia che, in questo caso, tocca i temi scottanti dei diversi volti della Medicina contemporanea divisa tra aspetti umanitari e pratiche di potere e violenza che ben poco hanno a cuore la salute del paziente, se non per "vetrina".
La storia di Lehmann, egli stesso medico (pediatra) oltre che scrittore, mostra infatti il conflitto tra mondi diversi ed incompatibili nella pratica della Medicina odierna.
Da un lato, vi è lo zoccolo duro del lavoro silenzioso, senza gloria e con molti oneri, dei medici di famiglia che, se non si lasciano prendere dalla semplice burocratizzazione del proprio ruolo, sono costretti spesso a farsi carico di situazioni difficili e disperate, specie nel campo delle malattie degenerative di stadio avanzato e in quelle terminali.
Dall'altro, si riconosce in modo inequivoco la pratica della medicina come esercizio di potere, tipica di certi cattedratici e dei primari ospedalieri (almeno, di alcuni di essi), in cui ciò che conta è la salvaguardia del proprio ruolo (tutelarsi sempre le spalle e il c***), e la possibilità di mietere riconoscimenti e benefit vari, mentre i loro collaboratori sono spesso gettati allo sbaraglio, costretti ad assistere impotenti a situazioni difficili o a dover fare salti mortali per sopperire a gravi carenze strutturali.
Infine, la terza realtà è quella scintillante della Medicina mediatica, dei palinsesti che si occupano di problematiche mediche, di tutela della salute e/o di prevenzione, oppure di "casi" di malasanità.
E' questo un mondo scintillante (in cui ciò che si presenta è sempre perfetto e all'avanguardia), ma nello stesso tempo crudele e spietato, quando va alla ricerca dei "casi" da esporre al grande pubblico (il battàge mediatico attorno al caso Englaro ne è la prova).
Spesso i paladini di queste trasmissioni sono medici (specialisti e non) che hanno abbbandonato - o significativamente ridotto - la loro pratica professionale per entrare nell'universo mediatico.
E spesso si tratta di personaggi pronti a piombare come avvoltoi (o squali) sulla loro preda, che viene considerata cadavere ancora prima di esserlo, esibendo per far ciò una falsa umanità.
Spesso le apparenze ingannano e, in tali contesti, i processi mediatici vengono celebrati, prima che un un legittimo verdetto di colpevolezza sia emesso e provocando, a volte, degli effetti di linciaggio morale.
Prendendo spunto da un "presunto" caso di eutanasia, il romanzo di Lehmann ci mostra appunto questi intrecci in tutto il loro turpe squallore, gettando luce - tuttavia - sulla generosità e l'agire disinteressato di alcuni altri.

Questa la trama
Il dottor Laurent Scheller credeva nel suo lavoro, aveva a cuore i suoi pazienti e amava profondamente sua moglie. Una vita fa. Ora è uno scrittore di best seller e un'acclamata star televisiva. La vita di tredici anni prima è un ricordo che il successo ha soffiato via. Finché una notte, al telefono, una donna, la voce rotta dal pianto, chiede il suo aiuto. Il suo vecchio amico Thierry Salvaing è finito in prigione con l'accusa di aver ucciso una paziente. Ma il Thierry che ricorda lui è un puro, forse anche troppo ingenuo, che del mondo ha ritagliato solo lo spazio di un piccolo nido per sé e la sua famiglia. L'uomo che lo accusa è invece un arrogante barone della medicina, un intoccabile ipocrita le cui molestie sui pazienti e sui sottoposti sembrano essere al di sopra della legge. Per un divo della tv sembra così facile commuovere il pubblico, lottare per Thierry, ribaltare l'esito scontato di un processo in un trionfo che vada contro ogni previsione e aspettativa possibili. Ma la ricerca della verità, il faccia a faccia con gli affetti a cui ha rinunciato, porterà Laurent sotto i riflettori di un'intera nazione, dove la troppa luce non risparmia in nessuno i germi del male. E ciò che emergerà non farà piacere a molte persone, a cominciare da Laurent.


Breve nota biografica sull'autore

Christian Lehmann nasce a Parigi nel 1958. Diventa medico generico nel 1985. Da allora affianca la sua professione con quella di scrittore e giornalista. Oltre a essere autore di gialli e noir è un apprezzato scrittore per bambini.

lunedì 14 dicembre 2009

A Christmas Carol: una sempreverde lezione morale condita di effetti speciali 3D


Zemeckis coglie il profondo senso morale dell'opera di Dickens e non ne attenua i toni. Ne nasce quindi un film non adatto ai più piccoli (le scene con Marley e con lo Spirito dei Natali Futuri sono degne di un horror di classe, per di più in tre dimensioni). E' però capace di far riflettere con efficacia non tanto su una visione edulcorata del Natale quanto piuttosto sul senso che la vita di ognuno (credente o non credente che sia, considerata la non leggera considerazione sugli uomini di chiesa pronunciata dal quasi mitologico Spirito del Natale Presente) può assumere su questa terra (da www.mymovies.it)

A Carol Christmas 3D è il nuovo scintillante prodotto Walt Disney della cinematografia tridimensionale, per la regia di Robert Zemeckis e la partecipazione di un cast di attori eccezionali che hanno prestato volto e voce, prima dell'elaborazione digitale, Jim Carrey in testa a tutti.
La storia originariamente scritta da Charles Dickens e pubblicata per la prima volta più di 165 anni addietro (A Christmas Carol in prose. A ghost story of Christmas) è arcinota.

Il frontespizio dell'edizione originale di "A Christmas Carol in prose. A ghost story of Christmas")

Ebenezer Scrooge, l'avido strozzino dal cuore arido viene visitato alla vigilia di un Natale dal fantasma del suo socio in affari (Marley) che, avvisandolo che ha ancora una chance di evitare di finire tra le anime dei dannati come - senza scampo - è già accaduto a lui per le malefatte che ha compiuto in vita, gli preannuncia l'arrivo di tre spiriti.
Ed è quello che accade. Uno appresso all'altro arrivano gli spiriti e gli mostrano il Natale che è passato, quello attuale e quello che verrà, riportando Ebenezer a squarci della sua vita passata, quando ancora aveva un cuore, e mostrandogli quale e quando potrà essere la conclusione della sua vita, in assenza di pentimento.
Ebenezer scopre che, malgrado il suo atteggiamento sia stato sempre ostile e respingente (se non addirittura odioso), quelli che lui ha vessato sono disposti a brindare per lui, ad augurargli - in sua assenza - un felice Natale.
Per l'attivarsi della voce dei sentimenti (attraverso la rivisitazione di un passato perduto e sepolto profondamente nella memoria), ma anche per la forte ed ineludibile lezione morale che riceve dai tre spiriti, arriva il pentimento sincero e, trascorsa la fantasmagorica notte, Ebenezer è un uomo rinato, pronto a fare opere di bene al suo prossimo e a tenere conto della sua esistenza.
La novella di Dickens ha ovviamente un risvolto moralistico nella sua conclusione, ma è anche spaventosa nei modi propri della narrativa nordeuropea affascinata, per tutto l'Ottocento, dalle storie di fantasmi (soprattutto la letteratura inglese).
E, ovviamente, vuole essere una orma di lieta novella, anche se in forma laica, poichè non vi è alcun riferimento alle tradizioni del Cristianesimo, nella forma d'una vicenda di morte/rinascita e di trasformazione spirituale attraverso un percorso interiore.

Jim Carrie
Questa la storia.
Per quanto riguarda la trasposizione filmica si ricorderà che la storia di Dickens è stata molto attenzionata sia da cineasti sia da registi di prosa.
Si può ricordareil cartone della Disney di molti anni addietro e, d'altra parte, Ebenezer Scrooge è divenuto il paradigma dell'avarizia, dell'avidità e della meschinità alla massima potenza, tanto che lo zio Paperone dei cartoni della Disney è "Uncle Scrooge", ma si ricorderanno anche diverse altre trasposizioni cinematografiche con attori veri, oltre ad alcune versioni teatrali.
Ebenezer Scrooge è divenuto un'icona dell'avarizia e dello strozzinaggio.
Il film è godibilissimo, per carità, molto fedele alla lettera del racconto e alla sua sequenza narrativa e per questo a tratti cupo e duro e di certo non rasserenante per i più piccini.

Tuttavia, come in tutti i film in 3D di recente produzione, sia in quelli già usciti, sia in quelli in programmazione nei prossimi mesi, si avverte una preoccupante tendenza: quella di subordinare la trama all'effetto speciale (in questo caso, quello della tridimensionalità), introducendo di conseguenza intermezzi narrativi non necessari giusto per poter deliziare lo spettatore con effetti speciali.
In questo film, tale fenomeno è poco appariscente, perchè la trama è un canovaccio obbligato che ha portato lo sceneggiatore a rispettare determinati passaggi e la loro tempistica, ma è evidente nell'indugiare compiaciuto nella ripresa di scene di vita quotidiana (per esempio i vari siparietti che animano le strade londinesi alla vigilia di Natale), oppure in alcune sequenze molto dinamiche (come l'inseguimento di Scrooge da parte di un lugubre carro mortuario). Per esempio, l'effetto "neve che scende" è veramente da sballo!
Veniva quasi naturale allungare la mano per toccare i fiocchi! E poi erano aprrezzabili anche alcuni insoliti punti d'osservazione o il repentino cambiamento dal grande al piccino, con i relativi mutamenti di prospettiva...
In altri film, tuttavia, (come, ad esempio, ne L'era glaciale in 3D) la trama si stempera notevolmente e il tutto si traduce in una accozzaglia di scene messe assieme per poter esibire gli effetti speciali che, alla lunga, senza un supporto narrativo di un qualche spessore, diventano stucchevoli.
A parte il fatto che gli effetti speciali, il più delle volte, vengono presentati quasi per intero nel trailer del film, sicchè visto questo, il film nella sua interezza può risultare noioso e lento, perchè le parti clou sono già conosciute e memorizzate.
E alla fine lo spettatore si sente un po' turlupinato.
Sembra che con il 3D si sia un po' ritornati ai primordi della cinematografia, quando sui rozzi schermi di un tempo si presentava solo l'effetto fantasmagorico del film per impressionare e stupire gli spettatori, ma senza il supporto di alcuna storia (per esempio, divenne celebre - per le reazioni di panico capaci di indurre nel pubblico - la scena della locomotiva a vapore che, lanciata da lontano a tutta velocità, sembrava piombare dritta dentro la platea).
Si può solo sperare che, passata l'ebbrezza dell'effetto speciale, si possa tornare a modelli narrativi più equilibrati con la giusta dosatura tra trama, novel e effetti.
In questo senso il 3D potrebbe essere davvero una nuova frontiera della cinematografia.

Vai al trailer del film

Scheda del film
A Christmas Carol
Regia di Robert Zemeckis
Interpreti principali: Jim Carrey, Robin Wright Penn, Gary Oldman, Colin Firth, Cary Elwes. Daryl Sabara, Bob Hoskins, Sammi Hanratty, Sonje Fortag, Fay Masterson, Raymond Ochoa, Tarah Paige, Ryan Ochoa, Molly C. Quinn, Kelly Connolly, Jacquie Barnbrook, Beckie King, Ron Bottitta, Lesley Manville, Steve Valentine Genere: fantastico,
Adatto anche per i bambini (ma con un accompagnamento adulto)
Durata 90 min.
Origine: USA 2009 - Walt Disney
Nelle sale cinematografiche italiane dal 3 dicembre 2009

Da Wikipedia
I film ispirati a "A Christmas carol"
  • Lo schiavo dell'oro (Scrooge) - film del 1951
  • Non è mai troppo tardi - film del 1953
  • La più bella storia di Dickens (Scrooge) - film del 1970
  • Canto di Natale di Topolino - mediometraggio del 1983
  • S.O.S. fantasmi (Scrooged) - film del 1988
  • Festa in casa Muppet (The Muppet Christmas Carol) - film del 1992
  • Natale a casa Deejay - film del 2004
  • Barbie e il canto di Natale - film del 2008

giovedì 10 dicembre 2009

La cagnetta Frida e quel suo nasone prominente per vedere l'essenziale invisibile agli occhi (testo di Vincenzo Cordovana)


La cagnetta Frida
(foto di Maurizio Crispi)


Ciao dolce Frida, nasone prominente,
forse con quel tartufo tu senti ulteriormente,
non son soltanto odori quelli che percepisci
forse cio che è nel cuore col naso tu intuisci.

Mi fissi con quegli occhi che guardano lontano,
oltre la mia apparenza, un gesto, la mia mano,
a te certo non sfuggo, un intimo dolore
rimane catturato dal naso indagatore.

Io sento la tua anima a me tanto vicina,
un'anima olfattiva, sensibile, canina.
Senti forse l'odore di un forte sentimento
e scavi con grande canino accanimento

Brava la Fridolina, ecco l'hai ritrovato,
scava decisa dentro al mio cuor come in un prato,
a me sembra impossibile trovar quella parola
che solo annusandomi capir puoi tu, da sola

Ecco il mio segreto. E' molto semplice:
non si vede bene che col cuore.
L'essenziale è invisibile agli occhi


mercoledì 9 dicembre 2009

Il sogno dei nazisti: ed è subito sera

Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:

ed è subito sera

(Ungaretti)

Ecco il sogno che mi è arrivato questa notte.
Sono in una città (inizialmente, a me sconosciuta).
La città é sotto assedio e i Tedeschi stanno penetrando verso il centro con una manovra a tenaglia, costringendoci in una sacca senza vie di uscita.
Si sentono brevi raffiche di mitra e secchi colpi singoli.
L'ordine diffuso da megafoni e altoparlanti è che, ad un certo punto, dobbiamo spogliarci di tutto lasciando i nostri miseri beni a terra (abiti, scarpe, valigie e quant'altro).
Ci chiediamo: "E se non lo facciamo, se disubbidiamo all'ordine, cosa potrà succederci oltre a quello che già sta accadendo"?
Il tempo stringe.
Vediamo che dalle traverse laterali emergono dei soldati in divisa bruna che dopo essersi posizionati, con calma e sistematicità, sparano contro altri di noi e i primi a morire sono quelli disobbedienti agli ordini impartiti.
Ecco la risposta alla mia muta domanda: "Chi disobbedisce morirà per primo!"
Sono con mia madre, adesso.
Siamo spauriti.
Tutto intorno a noi si sente un grande trambusto, clamori, grida, gente che invoca pietá.
Ma la pietà non arriva per nessuno.
Nessuno è graziato, tutti ricevono un colpo di grazia.
Arriviamo trafelati ad un incrocio semideserto.
Qui sostiamo per ubbidire agli ordini, poichè non sarebbe prudente dilazionare oltre questo umiliante rito di spoliazione.
Quindi lasciamo i nostri vestiti in un mucchio informe, per riprendere a procedere, pieni di apprensione, in attesa del colpo fatale.
E qui, il risveglio...
I mattoni di costruzione di questo sogno derivano dall'aver visto di recente "Valzer con Bashir" che racconta dell'eccidio nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, ad opera dei Falangisti libanesi, favorita dall'inerzia complice degli Israeliani. Un bellissimo film che consiglio a tutti di vedere, perchè è una riflessione sulla guerra e sull'odio e sui guasti che produce nella mente degli individui che hanno vissuto certi fatti (costretti a cancellare e a dimenticare per continuare a vivere).
E poi, l'aver avuto tra le mani, proprio la sera prima, e aver letto alcune pagine d'un romanzo autobiografico "Apocalisse criminale" che, invece, racconta in maniera crudissima i fatti di Srebenica, altro eccidio truce nel corso di una delle guerre etniche balcaniche dello scorso decennio.
E poi, sullo sfondo di tutto, il fatto che ieri mia mamma sia stata peggio e che, a causa di ciò, io mi sia molto angosciato.
Da qui, il sentirmi all'interno di una città sotto assedio, senza scampo e minacciato di morte imminente, curdele e assassina assieme a lei, appunto.
Perchè assieme a lei?
Quando si paventa la scomparsa prossima di un genitore è come dover fronteggiare la propria stessa morte. In un certo senso, si va assieme verso una morte, diversa, eppure eguale.
Siamo vicini a veder estinguersi con il nostro genitore una parte vitale di noi stessi.
Assieme ai nostri genitori che invecchiano e poi si ammalano e più meno velomente decadono, ci si avvia alla morte.
Poi, quando loro scompaiono, anche una parte di noi è irrimediabilmente morta, anche se un'altra parte, segnata dal dolore, continua a vivere.
Ma nel sogno il colpo fatale, per fortuna, ancora non arriva e questa "sospensione" rappresenta una tregua dall'angoscia.

martedì 8 dicembre 2009

Il mare e le immersioni subacquee in un sogno: i residui diurni e l'incoscio profondo


Alcune mattine fa, poco prima del risveglio, ho fatto questo strano sogno.
Sono in un circolo nautico dove sono andato per un'immersione o per fare scuola di diving.
C'è in atto una grande mareggiata. Il livello dell'acqua si è innalzato a dismisura, cosicchè la sede a mare del circolo nautico è parzialmente sommersa: per entrare al suo interno si deve passare a guado
almeno in un metro d'acqua.
Ma la vista è bellissima: a momenti di turbolenza con sequenze di violenti marosi spumeggianti si alternano fasi di calma piatta in cui vedo il riflesso dell'edificio e del cielo rannuvolato sulla superficie tranquilla ed immota come olio.
Mi porgono un paio di occhiali da sole, dicendomi che li hanno trovati per terra e che mi appartengono.
Li indosso per provarli, sperimentando un senso di estraneità, quasi non fossero miei. Poi mi ricordo che quegli occhiali li avevo presi in affitto e mi dico con un senso di sollievo:
"E' davvero una fortuna che me li abbiano riportati!".
La scena si sposta: adesso sono nella scuola di diving e c'è in corso una riunione: siamo seduti attorno ad un tavolo rettangolare, io ad uno dei lati lunghi e accanto a me, alla mia destra c'è un posto libero.
Siamo lì per discutere di un argomento che non ricordo o forse si tratta di un briefing preliminare ad un'immersione.
Mi perdo qualche sequenza della discussione, perchè mi appisolo.
Dal sonnellino estemporaneo mi risveglio bruscamente perchè sento una voce che mi è familiare dire la sua sul punto che mi sono perso per via dell'eclisse di coscienza.
Si tratta di Jaime! Ma come! Prima, Jaime non c'era! Deve essere arrivato proprio mentre dormivo! Mi giro, pieno di imbarazzo e, in effetti, Gi è seduto ora alla mia destra, nel posto che prima era stato lasciato vuoto.
Supero l'impaccio di essermi fatto trovare addormentato dicendo qualcosa che, fortunatamente, è pertinente con l'osservazione appena mossa da Gi, anche se ignoro che cosa abbia effettivamente detto.
E così non faccio cattiva figura. Ma sono sicuro che Jaime, con la sua perspicacia, si sia accorto che stavo dormendo nel corso della riunione.
Per attenuare il mio senso di colpa, gli do il benvenuto, mettendogli un braccio attorno alle spalle.
Finito il briefing saliamo su di un'imbarcazione: non è un gommone come le altre volte, ma un grande motopeschereccio. Marc è al timone e, mentre pilota, ci suddivide in coppie, anche se a bordo non c'è l'ombra di attrezzature per fare un immersione.
Le condizioni di mare non sono buone - ci dice Marc - ma faremo lo stesso un'escursione verso il largo.
In effetti, stiamo davvero puntando verso il mare aperto e il panorama è semplicemente stupendo: la superficie è adesso tranquilla e la linea della costa si dipana con alte ed impervie scogliere...
Come sempre, il mare è l'elemento materno, l'elemento primordiale dal quale siamo siamo stati espulsi e al quale vorremo fare ritorno (minaccioso e rasserenante al tempo stesso).
Per quanto possa essere agitato, c'è l'alternanza con i momenti di sereno e, in ogni caso, è rassicurante la contemplazione della sua bellezza, sia nel momento della rabbia impetuosa dei grangenti, sia nel momento in cui assume l'aspetto di uno specchio d'acqua tranquillo.

Jaime, nel mio inconscio (ma anche un po' nella realtà) è una figura paterna: master and commander, maestro e guida per il suo carisma, comandante per la sua autorevolezza.
Per quanto la differenza in termini di anni tra me e lui non sia molta, non posso no vederlo come un padre, come una figura che fa da raccordo in un dialogo interrotto con mio padre troppo precocemente scomparso.
Nei confronti delle persone a cui riconosco carisma ed autorevolezza al tempo stesso (soprattutto figure maschili), io tendo sempre a pormi come figlio con tutti i tipici movimenti ambivalenti dell'adolescente che cerca le sue aree di individuazione ed autonomia, ma che - nello stesso tempo - aspira ad essere approvato in ciò che fa.

C'è una donna che amo che non compare direttamente nel sogno: ma siccome c'è la scuola di diving, è come se fosse presente, perchè nella mia fantansia inconscia si è attivato un legame molto forte tra lei e le attività di diving.
C'è in questo legame associativo un sottile sentimento di gelosia e quello dell'esclusione da qualcosa che rappresenta una fonte di vita, l'Eros, nel senso più generale del termine, e che, è dato in definitiva, dal contatto con il mare, sia quello puramente contemplativo sia quello "penetrativo" che si realizza con le immersioni che consentono di scendere in profondità, realizzando nello stesso tempo sensazioni simili a quelle del volo (ma, in entrambi i casi, è soddisfatta una dimensione erotica dell'essere).
Quindi, nel sogno, è presente in forma ineffabile questa imprendibile essenza femminile mescolata insieme in vari modi con elementi maschili: il femminino materno è, sicuramente, il mare, contemplato
un po' dal di fuori, nella prima parte del sogno, e solcato dalla nave, nella sua seconda parte: ed è significativo che non si tratti d'un semplice gommone, ma d'una motonave (il motopeschereccio) che, nella sua fabbrica, contiene un misto di elementi maschili e femminili: il grande scafo come rappresentazione del ventre femminile, la prua che taglia la superficie del mare (ancora il femminile) come rappresentazione d'una componente maschile.

lunedì 7 dicembre 2009

Emil Zatopek: uno dei grandissimi della corsa prolungata tra storia e leggenda

Ci sono alcuni personaggi emblematici della corsa, il cui ricordo crea immediatamente profonde emozioni. Ci sono corridori puri che sono entrati nella leggenda e nel mito e che accendono l'immaginario degli amanti del gesto puro della corsa. Emil Zatopek è appunto uno di questi personaggi-emblema che - per la sua resistenza - venne definito la "locomotiva umana" o anche "uomo-cavallo" ma non semplicemte un cavallo da tiro ma un vero "purosangue".
Di lui si diceva che si allenasse, indossando gli scarponi militari per migliorare la forza della spinta e che corresse per oltre mille ore all'anno, (con una media di circa 30 km al giorno).
Dal sito di RaiSport: "Il vero segreto di Zatopek si incarna nella capacità di soffrire, esercitata con allenamenti forsennati, eseguiti su sentieri accidentati con pesanti scarponi militari ai piedi".
Anche per questo è una figura mitica quella che scomparve definitamente dalla scena del mondo alla fine di novembre del 2000.
E' uscito da pochissimo in Italia (per i tipi di Adelphi) un libro che ripercorre la vicenda umana del grande fondista cecoslovacco, che dall'autore viene chiamato solo per nome, Emil, e vivisezionato attraverso il suo gesto atletico: correre, appunto (il titolo del libro in lingua francese è "Courir").
Il racconto di Jean Echenoz si legge con grande fluidità, quasi fosse un romanzo, perchè in poche pagine essenziali, senza troppi dettagli, crea una rappresentazione vibrante ed intensa di Emil Zatopek, uno dei grandissimi interpreti mondiali (e nella storia) del mezzofondo, del fondo e del cosiddetto fondo prolungato. Nella primissima giovinezza in epoca pre-bellica fece le sue prime esperienze di corsa che egli non amava particolarmente ma che cominciò a praticare dietro le pressioni e le suggestioni dei suoi amici, per poi diventarne appassionato, ma quasi sempre in solitaria.
Emil Zatopek fu un corridore senza maestri: fu semplicente maestro di se stesso.
Nell'allenamento seguiva soltanto il suo istinto, percorrendo in ogni seduta lunghissime distanze a strappi (alcuni dicono anche una media di 30 km al giorno): era questo il suo segreto per poter avere sempre una riserva di forze nelle gare. I suoi allenamenti erano duri, sfiancanti, resi possibile da un'insolita capacità di soffrire (e forse anche da un certo piacere per la sofferenza).
Specie in gara, praticava una corsa strana, stilisticamente orrribile. In un'epoca in cui s'affermava con la scuola finlandese (Paavo Nurmi), la teoria del ritmo costante come strategia di approccio alle gare lunghe, lui era uno che, anche nelle gare lunghissime, correva a scatti, spezzava il ritmo, disorientando gli avversari, soprattutto rivelando di possedere sempre qualche cartuccia di riserva. Si muoveva scompostamente, faceva smorfie, digrignava i denti, ancor più nel finale quando il suo volto si atteggiava in una sorta di rictus spasmodico e stravinceva.
Alcuni, studiando il suo stile "non-stile" dissero di lui che, come corridore, possedeva un potentissimo motore, su cui era montata una carrozzeria, ridotta ai minimi termini, quasi inesistente e senza nessuna concessione all'estetica.

Quando, per la prima volta, nel dopoguerra, partecipò al Campionato Militare inter-alleati di Berlino, (1946) nessuno avrebbe scommesso un soldo bucato su di lui. Si presentò da solo - lui era l'intera delegazione cecoslovacca -, vestito con abiti sportivi scalcagnati, tanto da suscitare all'ingresso nello stadio di Berlino - lo stesso dei giochi olimpici del 1936 - l'ilarità e il dileggio di tutti gli astanti. Ma quando, nella gara dei 5000, passò in testa alla gara, polverizzando tutti gli avversari, 80.000 persone si scatenarono in un delirio di applausi e ovazioni. Realizzò imprese inaudite, come quella di vincere in una stessa Olimpiade (Helsinki, 1952) l'Oro nei 5000, nei 10.000 metri piani e nella maratona, stabilendo in questo senso un record che rimase imbattuto.
I dirigenti filosovietici presto (con l'appensantirsi dei gravami della Cortina di ferro) cominciarono ad interpretare questa sua capacità straordinaria come espressione d'un deprecabile individualismo borghese e presero ad ostacolarlo nelle trasferte sportive oltrecortina.
Ma Emil Zatopek era sempre ottimista, non mollava mai e riusciva a mantenere malgrado le avversità una grandissima brillantezza, anche quando la miopia dei dirigenti di partito e dei suoi superiori (per benemerenze sportive aveva fatto carriera nell'esercito sino al grado di Colonnello) gli impediva il confronto con avversari di grandissima qualità.
E, nello stesso, fu vittima dei giornalisti del blocco dell'Est, a cui rilasciava sincere dichiarazioni su ciò che aveva visto nei paesi occidentali in occasione delle sue trasferte sportive e che essi regolarmente distorcevano, facendolo diventare agli occhi di quei paesi occidentali "ospite sgradito".
Ad un certo punto cominciò a perdere, ma sempre con dignità.
Il commento fuori campo di Echenoz, alla fine del 15° capitolo:
Non so voi, ma personalmente di tutte queste imprese, e record, e vittorie, e trofei, comincio a non poterne più. Il che cade a proposito, perchè, proprio adesso, Emil sta per mettersi a perdere. (p. 115)
Non per questo, Emil rinunciò a competere: non fece come tanti atleti di nostra conoscenza che partecipano soltanto quando sono certi che potranno vincere. Lui, il grande campione, continuò ad essere presente, riconoscendo che adesso c'erano dei giovani che si allenavano più di lui, che lui era più vecchio, dando onore e merito ai propri avversari più valenti, sino alla clamorosa "caduta" nella maratona delle Olimpiadi di Melbourne.
Terrà duro sino allo stadio ma, sconfitto, giunto sesto nell'ultimo rettilineo, Emil cade in ginocchio e affonda la testa nell'erba gialla e resta così per lunghi minuti durante i quali piange e vomita ed è finita, tutto è finito.(p. 133)
Emil Zatopek ebbe la stoffa del campione generoso, anche se timido, e con alcune stravaganze (ero noto per il fatto di indossare, quando andava all'estero, un berretto di lana rosso con ponpon) e cultore di uriosità, come quella di verificare - andando per la prima nell'emisfero opposto - se fosse vero l'effetto Coriolis.
Con Dubcek e la primavera di Praga, lui, ormai non più attivo come atleta ma sempre considerato un vero e proprio eroe nazionale e popolare, fu invitato a dire la sua in pubblico, mentre i carri armati sovietici invadevano le vie di Praga. E lui, davanti ad una folla numerosa, parlò senza paura, pur non avendo - lui così schivo e gentile - alcuna esperienza delle folle.
Al diavolo, prende la parola: sforzando la sua voce sottile, l'eroe nazionale dice la sua, denuncia, condanna l'invasione delle forze del patto: Parlando dal suo punto di vista, e dato che fra qualche settimana cominceranno a Città del Messico le prossime olimpiadi, improvvisa un discorsetto nel quale invita l'esercito a rispettare una tregua olimpica. Nel caso non fosse abbastanza chiaro, precisa ulteriormente il suo pensiero, invitando persino a boicottare, in occasione di queste olimpiadi, l'Unione Sovietica. (p. 144)
Avvenuta la restaurazione, la punizione del Regime non si fece attendere. Zatopek venne privato dei suoi gradi nell'esercito, costretto a sottoscrivere un documento nel quale rinunciava alla sua pensione di Colonello dell'esercito ed inviato a lavorare nelle miniere di uranio nel Nord Ovest del paese, dove rimase per sei lunghi anni.

Poi, venne richiamato a Praga a lavorare come spazzino, nell'intento da parte della Nomenklatura di umiliarlo ancora di più, ma qui - incredibilmente - riprese a correre, a suo modo e venne osannato come eroe.
Malgrado il tentativo di annullarne la fama, il suo volto di eroe buono era rimasto vivo nel cuore dei Praghesi, e dei Cecoslovacchi in genere i quali appena lo vedevano in strada si affaccciavano alle finestre per acclamarlo, mentre i colleghi non gli consentivano di fare il lavoro che avrebbe dovuto fare. A Zatopek, non restava altro da fare che correre a brevi falcate dietro il camion
dei rifiuti: e sicuramente nessuno spazzino al mondo è stato mai così osannato!!!

Una curiosità: nella biografia di Echenoz, in nessun
punto, ci sono date di riferimento. Alcuni avvenimenti del resto rappresentano essi stessi il riferimento temporale perchè sono ultra-noti. Echenoz tace perfino la data della morte del grande campione (2000) e non si sofferma nemmeno a raccontarci gli anni del suo declino fisico. Tuttavia, questi artifici, provocano un effetto di amplificazione della figura di "Emil" perchè sollevano di peso la sua biografia dal solco della storia e la collocano nella leggenda, dove Zatopek continuerà a vivere sempre come un eroe mitico, un eroe capace di grandi imprese ma dall'animo gentile.

Una breve nota sull'autore

Jean Echenoz, nato a Orange nel 1947, si trasferisce a Parigi dopo aver studiato sociologia e ingegneria civile ed esordisce come scrittore nel 1979. Ha ottenuto grande successo con il romanzo Me ne vado, che gli ha fatto vincere il premio Goncourt nel 1999. Ricordiamo Un anno (1997, pubblicato in Italia nel 1998), Al pianoforte (2003, in Italia nel 2008), Ravel. Un romanzo (2006, in Italia nel 2007). Di lui Einaudi ha pubblicato Un anno (nella traduzione di Andrea Canobbio), la cui vicenda s'interseca a sorpresa con quella di Me ne vado, in un gioco di rimandi inaspettati..

sabato 5 dicembre 2009

Il treno e il desiderio dell'altrove

Foto di Maurizio Crispi (inizialmente pubblicata su FB)

Il treno sfreccia lontano e porta via con sé il desiderio dell'altrove. Il treno è, tuttora, potenza e velocità perchè genera in chi sta a guardare, fermo al suo passaggio, un senso di fragilità ed impotenza, oltre che nostalgia struggente per tutto ciò che non si potrà mai raggiungere e per quello che, mettendoci su di una strada, abbiamo perso, magari ancora senza saperlo.
Specie se tu sei fermo all'alba, al passaggio a livello, sbarre abbassate e semaforo rosso acceso, mentre il treno sfreccia via veloce, in un subbuglio di cromatismi. E' un attimo ed è già passato, portando via con sé il suo carico di vite e speranze.
Tu sei immobile, stoppato da quelle sbarre calate e dal semaforo rosso che nella mezza luce del primo albeggiare brilla violento, lo guardi andare a tutta birra e ti rammarichi di non essere a bordo.
A bordo, viceversa, avvertiresti viceversa la nostalgia di ciò che ti sei lasciato alle spalle, ma anche l'eccitazione del nuovo che ti aspetta al termine della strada ferrata.
Ogni volta che ci mettiamo on the road non sappiamo mai se potremo fare ritorno al luogo che abbiamo appena lasciato.
Ogni volta che andiamo via da qualcuno che ci è caro potrebbe essere l'ultima.
Ed io lo so.

Per tanto tempo il treno (e in particolar modo la locomotiva) è stato un'icona del progresso inarrestabile e del futuro di modernizzazione che attendeva l'uomo (basti pensare alla canzone di Guccini, La locomotiva!).
E, in effetti, prima dell'aereo e dell'automobile è stato in assoluto il mezzo di trasporto più veloce creato dall'uomo.
Ma il treno ha rappresentato anche la possibilità di penetrare in terre lontane ed inesplorate. La civilizzazione procedeva, da un certo punto in poi, con lo sviluppo delle strade ferrate. Dove arrivava il treno, lì arrivavano anche la civiltà e la Legge.
Si può richiamare alla mente l'immane lavoro che fecero gli Americani per connettere la costa orientale con quella occidentale degli States, oppure all'importanza che ebbe la Transiberiana.
Il treno era anche il mezzo di contatto relativamente veloce (rispetto al viaggio per mare, unica altra alternativa) con mondi diversi ed esotici: ed ecco il fascino dell'Orient Express che, tra l'altro, faceva anche scalo a Trieste, e che connetteva l'Occidente con Instanbul, considerata la porta di acceso all'Oriente misterioso.
Il treno era venerato dai Futuristi perchè rappresentava la velocità e la potenza della tecnologia, ma anche - per tutti questi diversi motivi - è l'icona del viaggio verso terre lontane e della libertà assoluta, come ci fa ben vedere Pirandello nella sua bellissima novella "Ha fischiato Il treno"

mercoledì 2 dicembre 2009

Il gioco dell'oca come metafora crudele della vita

La vita è un crudele gioco dell'oca: vai avanti di casella in casella e sembra che tutto vada bene, che sia fluido.
Non temi alcun male.
Poi, capiti in quella sbagliata e, se ti va bene, ritorni al punto di partenza o quasi.
Da lì ricominci a giocare, avanzando faticosamente.
E, se invece ti va male, se hai messo ilpiede nella casella assolutamente sbagliata, allora sei espulso dal gioco e puoi soltanto rimanere a guardare gli altri giocatori. Quando stai per mettere il piede nella casella sbagliata, ancora non sai quello che sta per accaderti, ma non ci sarà mai un segnale d'allarme, un'avvisaglia.
Tutto ciò che accade ha un carattere di inelluttabilità imperscrutabile.
In un certo senso, è un dio che gioca a dadi con ciascuno di noi, senza nessuna logica: ad ogni lancio, su cui non abbiamo alcuna capacità di determinazione, noi dobbiamo fare un certo numero di passi, senza mai avere deciso quanti essi debbano essere. E' il lancio del dado ad averlo deciso.
Non sapremo mai dove siamo finiti, se non quando ci siamo già finiti dentro.
Allora, colpo di spugna sul percorso già fatto e si torna indietro.
Quello che nel frattempo è accaduto è come se non fosse mai accaduto.
E questo sino alla fine del mondo...

In un certo senso, quel che accade è come l'insensata, assurda, fatica di Sisifo.
E se non vinci non vinci. Punto.
Da piccolo, giocavamo spesso a tombola.
Io ero uno di quelli che non vinceva mai un solo premio. Ambo, terna, quaterna, cinquina, tombola...
Ero sempre di un passo indietro rispetto agli altri.
O forse ero distratto, non so.
Mio padre che, in queste circostanze, faceva il "croupier", comprendeva la mia concente delusione e ce la metteva tutta per farmi vincere un premio... Quindi, fuori dalla regola, per ogni tappa, istituiva un premio di consolazione, ma c'era sempre qualcuno che arrivava a beccarselo prima di me.
Per carità, erano premi di scarsissimo valore oggettivo: che so, una caramella oppure un cioccolattino.
Ma il loro valore simbolico era elevatissimo.
Il gioco dell'oca è molto più crudele, forse proprio perchè è una rappresentazione della vita e del suo modo di procedere, con le sue incertezze, con premi e "punizioni" che vengono dispensati in modo assoutamente casuale.
A volte, ci si illude - come nel gioco dell'oca - che gli accadimenti possano essere "reversibili" nei loro effetti ed è per questo, forse, che ci si accanisce a giocare, pensando di poter di nuovo raggiungere chi è andato avanti...

[da Wikipedia]

Il gioco dell'oca, come in sostanza tutti i giochi di percorso, si presta a una lettura simbolica, già evidente nella scelta delle decorazioni della versione di De' Medici, con i "pericoli" che rappresentano le difficoltà (fisiche e morali) della vita. Di conseguenza, il gioco viene talvolta citato con intento allegorico nella cultura e nelle arti. Un riferimento celebre al gioco si trova nel romanzo Il testamento di uno stravagante di Jules Verne (Le Testament d'un excentrique, 1899). Vi si narra di un eccentrico testamento che mette in palio una straordinaria somma fra sette contendenti, costringendoli a una spericolata gara in cui gli Stati Uniti diventano un gigantesco tabellone del gioco dell'oca. Il legame con il gioco dell'oca non è noto a chi conosce questa storia solo attraverso i numerosi adattamenti cinematografici (tra gli ultimi, Rat Race) che non ne fanno menzione.

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domenica 29 novembre 2009

La "principessa Palawan": una perla da due chili ed oltre! Cosa ce ne facciamo?

Una perla

Non ho potuto non sorprendermi nel leggere sul quotidiano locale questa notizia (in realtà, una foto-notizia collocata con grande risalto in prima pagina).

Londra, 27 novembre - La "Principessa Palawan", la seconda perla più grossa mai scoperta nel mondo e il cui valore è stimato a 250.000 sterline (275.246 euro), sarà messa all'asta la settimana prossima a Los Angeles.

Lo ha annunciato in un comunicato la casa d'aste britannica Bonhams.

La "Principessa Palawan", che pesa 2,25 chili e misura 15,24 centimetri di diametro, è accompagnata da una metà della conchiglia del più grosso mollusco bivalve del pianeta - ha precisato la casa d'aste.

Scoperta nelle Filippine, la perla gigante costituirà il pezzo forte dell'asta che si tiene il 6 dicembre al museo di Storia naturale di Los Angeles.

Caspita, com'è grossa! - ho esclamato io.

Mia madre mi ha chiesto: "Ma poi uno che se fa di una perla così grossa"?

Suppongo niente, ho pensato io. Uno non la vorrà certo per appendersela al collo! Rischierebbe di apparire come quelli che - nei tempi bui - venivano condannati al "pubblico ludibrio" e che, invece della gogna, dovevano portare incatenato al collo un grosso masso che essi - per rendere più umana la propria pena - nel corso degli anni finivano con lo scolpire pazientemente per dargli sembianze umane!

Forse, una simile perla se la contenderanno soltanto dei collezionisti sfegatati, per aggiudicaserla e poi tenerla rinchiusa per il resto della loro della loro vita nel caveau di qualche banca.

L'assurdità delle cose umane...

Marianna Guillonk, detta - per la sua bellezza - "La Perla di Labuan"

in Le Tigri di Mompracem (Emilio Salgari)

Per conto mio, se dovessi acquistare una perla preferirei procurarmi una buona edizione de Le tigri di Mompracem oppure il sobrio e delicato La ragazza con l'orecchino di perla: due casi, come altri, in cui l'acquisto di una perla è sicuramente molto più sostenibile.

giovedì 26 novembre 2009

L'alienista Cesare Lombroso: nel centenario della sua morte riapre il Museo di scienze criminali di Torino in veste rinnovata


Cesare Lombroso si può considerare uno dei "padri" della psicologia e dell'antropologia criminale moderne, per quanto la sua figura la si possa considerare - nella storia degli esordi della freniatria "scientifica" - alquanto controversa.
Imbevuto di concezioni positivistiche, fu un acceso sostenitore della teoria secondo cui l'attitudine criminale - come anche la follia - fosse forgiata dalla costituzione o, come si diceva allora, dalla "complessione" e che, quindi, nelle manifestazioni più estreme di pazzia, delinquenzialità, ma anche del genio e del temperamento artistico, e delle attigue - per lui - sregolatezza e anarchia, vi fosse una sorta di determinismo che prescindeva dalle circostanze, dall'apprendimento e dalle pressioni ambientali.
Fu un figlio del suo tempo, proprio perchè fu fortemente influenzato dalle correnti di pensiero del positivismo e dall'idea che anche l'Uomo potesse essere descritto per mezzo di misurazioni e utilizzando metodi esclusivamente oggettivi che nel suo caso furono principalmenti quelli dell'antropometria.
Il suo apporto originale - che, in definitiva, tramontò con la sua morte, seguita soltanto da alcuni deboli epigoni - fu quello di stabilire una serie di canoni per stabilire - predittivamente e quasi con matematica certezza se un individuo potesse avere in sé delle tendenze criminali, basandosi principalmente su rilievi metrici delle ossa e segnatamente del cranio, con l'utilizzazione di specifici punti di repere, oltre che di altri elementi quali la conformazioni del cranio e di altri segmenti scheletrici.
Per lui, parametri di riferimento furono le misurazioni ricavate dai crani e delle ossa di delinquenti acclarati, tra i quali uno dei primi ad attrarre il suo interesse fu il brigante calabrese Vilella (ucciso nel 1870) sul cui cadavere egli fece una serie di minuziosi rilievi.
Ovviamente, lo stesso Lombroso non mancò di mettersi nel mucchio e si considerò papabile per analoghe misurazioni, tanto che donò alla collezione di reperti cui egli stesso aveva dato vita il suo corpo, compreso di visceri e cranio.

Nel suo approccio, i conti non tornarono quando egli cercò di applicare queste sue teorie a personaggi geniali ed eccentrici, per così dire "fuori norma". Per costoro, infatti, egli si trovo nella necessità di stirare all'estremo la sua teoria, considerandoli pure essi in definitiva dei soggetti tarati che prima o poi avrebbero mostrato la loro vera natura.

Uno degli aspetti più pericolosi della sua teoria era, infatti quello secondo cui, essendo taluni segni indicativi di una "tara", se un'individuo apparentemente normale li possedeva, era destinato - prima o poi a manifestare il comportamento di cui erano indicatori ( o, per così dire, elementi di repere): la predittività, enunciata in modo forte, quasi fosse un dogma, che in un individuo così fatto si sarebbero manifestati prima o poi fenomeni di degenerazione e di caduta verso ciò da cui la cultura e l'educazione potevano soltanto riparare temporaneamente.

E' ovvio che queste teorie furono uno dei cavalli di battaglia delle concezioni - pseudo-scientifiche ed infondate - sulla razza e sui motivi per cui alcune "razze" più di altre tendessero alla degenerazione.

Un episodio poco noto della sua vita di studioso riguarda l'incontro con Lev Tolstoi che egli si recò personalmente a visitare nella sua tenuta. L'incontro tra i due non fu felice, anche perchè Lombroso guardava Tolstoj in tralice, tentando di cogliere nel grande scrittore gli aspetti patognomonici della genialità che, peraltro, secondo le sue teorie, non erano delle qualità intrinseche, ma solo un preludio alla inevitabile degenazione e alla sregolatezza. Di questo episodio ci narra Pietro Mazzarello nel suo "Il genio e l'alienista. La strana visita di Lombroso a Tolstoj" (Bollati Boringhieri, 2005).

Gran parte delle teorie di Lombroso tramontarono con lui, ma - in definitiva - hanno mantenuto nell'immaginario collettivo uno strisciante potere nel generare pregiudizi, alimentando peraltro nel campo specialistico metodi di intervento in alcune psicopatologie individuali e sociali.

Peraltro, tracce della sua impostazione teorica (fortemente ideologica) sono rimasti nella "grafologia" ma anche in alcuni aspetti della psichiatria biologica alla quale oggi, sia pure con l'opportuno mascheramento della scientificità dell'approcio neuro-psicofarmacologico, c'è un gran ritorno.

Cosa avrebbe mai detto Lombroso di Marty Feldman?

Nel 2009 ricorre il centenario della morte di Cesare Lombroso e proprio il 27 novembre, dopo anni di restauro, riaprirà al pubblico, a Torino, il Museo di scienze criminali a lui dedicato, ricco di reperti unici nel loro genere.
Questa la notizia tratta Torinoscienza.it

A cento anni dalla morte dello scienziato e criminologo, Cesare Lombroso, il 27 novembre 2009, viene riaperto, completamente rinnovato il Museo, a lui intitolato, contenente una quanto mai varia collezione di reperti di antropologia criminale.
Il coordinatore del progetto di Museo dell'Uomo, del quale il Museo Lombroso fa parte, professor Giacomo Giacobini, ci tiene a sottolineare che non si tratta di un museo dell'orrore, ma che la ricchissima collezione di crani, preparati anatomici, fotografie, corpi di reato, disegni e oggetti prodotti da carcerati, qui presentata vuole accompagnare i visitatori in un percorso storico-scientifico, in grado di fornire ai visitatori gli strumenti per comprendere il contesto nel quale il Lombroso formulò le sue teorie sull'atavismo criminale, ovvero sulla presenza di caratteristiche ancestrali e ricorrenti nei soggetti che mostrano devianze comportamentali.

Egli sviluppò infatti le sue teorie nel periodo dominato dal positivismo scientifico, movimento che si diffuse in Europa nell'Ottocento, e che influenzò sia il pensiero filosofico che quello scientifico, con un modello del sapere basato su fatti piuttosto che su intuizioni irrazionali. Seguendo il principio secondo il quale l'applicazione del metodo rigoroso delle scienze deve essere allargato anche all'analisi del comportamento umano, Lombroso dedicò gran parte della sua vita allo studio dei criminali e dei pazzi.

Genio o ciarlatano? Illuminato o razzista? Le sue teorie sono state confutate, spesso con veemenza, e sono in gran parte morte con lui. Ciò non toglie che Lombroso possa comunque considerarsi come il primo antropologo-criminale della storia, egli arrivò, infatti, a interessarsi anche al modo di esprimersi dei carcerati, raccogliendo alcuni reperti decorati con scritte e disegni dei detenuti.

Potremmo dunque definirlo un precursore della psicologia criminale.

Fin dal 1859, anno in cui inizia a lavorare come medico militare nell'esercito piemontese, Cesare Lombroso si dedica alla raccolta di crani, scheletri, cervelli e oggetti di vario tipo, dando vita al primo nucleo del museo privato inizialmente conservato nella sua abitazione torinese. La prima esposizione pubblica dei reperti raccolti nel corso della sua instancabile attività Lombroso la realizza nel 1884, nell'ambito dell'Esposizione Nazionale di Torino.

La successiva esposizione della raccolta lombrosiana al Congresso Penitenziario Internazionale di Roma nel 1885 risultò più ricca della precedente, anche per il notevole apporto di reperti fatti giungere da altri studiosi conquistati dalle teorie lombrosiane e che rispondevano entusiasti all'invito «a spedire per quell'epoca in Roma crani, cervelli, fotografie di criminali, di pazzi morali, di epilettici e lavori dei medesimi; carte grafiche e geografiche dell'andamento dei delitti in Europa.

L'esposizione venne riproposta, arricchita, nel 1889 in occasione del Secondo Congresso Internazionale di Antropologia criminale di Parigi. Il Museo Psichiatrico e Criminologico venne ufficialmente inaugurato a Torino nel 1892 con la dignità di strumento di ricerca scientifica.

Nel 1909, con la morte di Cesare Lombroso, il museo accolse alcuni resti della sua salma: lo scheletro, il volto, il cervello e le visceri.
La morte dell'antropologo, però, segnerà anche una fase di declino del museo, fino a che, superato il periodo della guerra, nel 1948 il museo venne trasferito nei locali appositamente costruiti per l'Istituto di Medicina Legale.

Tra i pezzi da non perdere nel moderno riallestimento del Museo segnaliamo il cranio del brigante calabrese Giuseppe Vilella, celebre perché proprio in questo cranio, nel 1870, lo studioso riconobbe alcune forme somatiche ancestrali che lo portarono a giungere alla conclusione che esiste la tipologia dell'"uomo delinquente", e che la si può riconoscere attraverso specifiche caratteristiche somatiche. Troviamo anche la forca di Torino, in funzione sino al 1865, data dell’ultima impiccagione, e i paramenti di Cervo Bianco, celebre impostore che incantò l’Europa raccontando d’essere una gran capo indiano.

Un museo, insomma, pieno di oggetti e di storia, che garantisce ai visitatori un arricchimento culturale con un pizzico di horror.

Il Museo di antropologia criminale Cesare Lombroso sarà aperto al pubblico dal 27 novembre 2009 a Torino, in via Pietro Giuria 15, www.museounito.it

[Articolo a cura di Redazione Torinoscienza - Barbara Girardi, aggiornato il 10.11.2009]

...per finire!

martedì 24 novembre 2009

Uno scrittore a confronto con i giovani sui temi della droga e del disagio adolescenziale

Mi è capitato di leggere con un certo interesse un libro pubblicato di recente (Ferdinando Camon, Figli perduti. La droga discussa con i ragazzi, Garzanti, 2009).
In esso, Ferdinando Camon, uno scrittore italiano molto conosciuto (e molto premiato) discute con i ragazzi di un liceo dei temi della droga e del disagio adolescenziale. Il libro è tutto qui: possiede un'unità di tempo e di luogo, anche se il dialogo è spezzato in una molteplicità di sotto-argomenti, dal momento che la conversazione va e e viene, si muove di continuo toccando i temi più vari.Evidentemente, i ragazzi erano stati preparati a questo incontro e si comprende che vi era stata una riunione preliminare in cui era stato succintamente dato, con l'aiuto dei professore, un "metodo" alla discussione, oltre che distribuito un opuscolo informativo sulle droghe, contenente notizie oggettive, dati, indirizzi, ai quali viene fatto rimando nel corso della conversazione.
Quello che piace di questo smilzo libro è l'impianto conversativo del confronto tra i ragazzi di un liceo e l'Autore che si presenta non in veste di "esperto", ma di interlocutore che sa qualcosa di diverso su argomenti cogenti nella vita di... questi adolescenti (la droga e lo svago, in primis, ma anche il modo di affrontare le relazioni con i pari e con gli adulti), ma che - nello stesso tempo - si pone nei confronti dei più giovani con un atteggiamento ricettivo e, a sua volta, di apprendimento.
Il dialogo, dunque, (da qui il sottotitolo "La droga discussa con i ragazzi") si dipana toccando gli argomenti più diversi: Camon stimola i ragazzi a parlare delle proprie esperienze, di ciò che hanno visto e sentito, dei film che conoscono e dei libri che hanno letto, insomma di tutto ciò che li ha indotti a riflettere sui temi della droga (e della condizione giovanile) e a porsi degli interrogativi.
La conversazione é lieve e profonda al tempo stesso, aperta nel senso che non propone (apparentemente) alcuna conclusione ultima. La posizione di Camone è quella di offrire all'esperienza dei giovani degli stimoli che inducano alla riflessione e alla voglia di approfondimento piuttosto che delle verità monolitiche, ingombranti e troppo difficili da accettare (soprattutto se rimarcano il divario generazionale e l'incomprensione di fondo tra la stabilità dell'adulto e la turbolenza adolescenziale).
Di quando in quando, tuttavia nelle parole di Camon, soggetto adulto e formato, con un background di base che sembra essere profondamente cattolico (a mio avviso), trapela su certe questioni il pregiudizio e, malgrado il tentativo lodevole di operare dei distinguo, si ricade nella tendenza a fare di ogni erba un fascio (ma lo sconfinamento nellaposizione ideologica è un tranello tipico di tutte le discussioni che riguardano la droga e le dipendenze in generale).
Ma si tratta solo di sfumature che solo una mente esperta nelle questioni pedagogiche e formative e nei sottili inquinamenti che l'ideologia può determinare in questi ambiti può cogliere in una cornice di confronto che programmaticamente vuole presentarsi del tutto aperto, liberale e rispettoso delle diversità di opinione.
Mi pare evidente che, dietro un modo di pensare "debole", tuttavia, in Camon si nasconda un pensiero "forte" e di monolitiche convinzioni. Sintomatico di ciò è il risalto particolare (con esplicita approvazione espresso al suo uditorio, ma con stile, senza far nomi) che Camon dà delle Comunità terapeutiche "chiuse" come unica via per risolvere radicalmente il problema della dipendenza da droghe.
Il riferimento ovvio, come modello vincente di questo approccio risolutorio, è alla comunità di San Patrignano.
Non una parola viene spesa, invece, sulla cattiva influenza educativa di una società "normalmente" tossicofila. E questo è, a mio avviso, una rave mancanza.
Il libro di Camon, tuttavia, malgrado le piccole insidie pedagogiche di cui è costellato si legge con piacere perchè nel dialogo trapela, comunque, la freschezza del di un confronto vivace ed articolato.
 
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