venerdì 1 agosto 2008

Tempo d'estate, tempo di "Mellone" e di "Gelo"...


Il gelo di mellone è un "classico" della gastronomia palermitana, ma per molti è anche legato a memorie infantili di tempi in cui nelle stesse pasticcerie della città era difficile da trovare perchè era considerato un dolce "semplice" da farsi in casa.
Secondo alcuni, il gelo di mellone, una volta veniva preparato in occasione della festa di Santa Rosalia, la Santa patrona della città: ma questa affermazione non collima con i miei ricordi d'infanzia e con le tradizioni familiari nelle quali sono cresciuto.
Per me era lo specialissimo dolce che, a casa mia, si preparava d'estate, sì, ma nella ricorrenza della festa d'onomastico di mio fratello e del mio compleanno, a pochi giorni di distanza l'uno dall'altro, (rispettivamente il 6 e il 9 agosto).

Prima di procedere, comunque, va chiarita una peculiarità linguistica che, a volte, quando si parla con i foresti può essere causa di qualche incomprensione.
Dalle nostre parti, quando si parla di "mellone",
ci si riferisce all’anguria (come ribadisce l'estensore di un post sul "gelo" in www.cuochidicarta.blogspot.com, in cui si parla appunto del gelo di mellone e precisando che la persistenza delle due "elle" nella parola "mellone" - rispetto al puro italico - è di fondamentale importanza). A ben guardare, così recitano i cartelli scritti a mano in rozze lettere diseguali a stampatello (e di un bel colore rosso, ovviamente) dei numerosi venditori ambulanti che, per strada e sino a notte fonda, espongono grosse angurie di tutte le dimensione, da quelle con la buccia verde scura e tondi come un pallone da football a quelli ovoidali con la scorza screziata a strisce verticali di due diverse tonalità di verde (che talvolta sono davvero giganteschi).
Alcuni di essi, con un modico supplemento di prezzo, vendono anche i "Melloni agghiacciati" (l’alfa, in questo caso, non è privativa ma rafforzativa…) che dai passanti in cerca di refrigerio vanno consumati sul posto, secondo un'usanza tipicamente mediterranea,
tramandata - con dispiacere di Bossi e dei suoi seguaci - direttamente dagli Arabi che, a lungo hanno abitato in Sicilia, godendo dei suoi giardini irrigui e delle sue acque (a loro, si deve la costruzione di splendidi acquedotti sotterranei - i Qanat -, di cui oggi si possono visitare alcune vestigia, proprio qui a Palermo).


Non è inusuale, in quei paesi del Mediterraneo che tuttora mantengono forti collegamenti con il mondo musulmano, vedere gruppetti di tre o quattro persone che, avendo acquistato un anguria al mercato, si appartano in un luogo ombreggiato per consumarla e poi distendersi per una siesta ristoratrice. Anni fa, nel corso di un viaggio nella penisola balcanica, proprio nel cuore dela Macedonia, mi è capitato di osservare questo rituale senza tempo: ed era ben visibile il piacere dei quattro Macedoni nel consumare all'ombra fresca d'un albero il mellone che si erano appena procurato.
In questi paesi consumare il mellone all'aperto è come per i Francesi portarsi a casa una baguette appena sfornata, sotto l'ascella.
Da noi, si dice ancora - perdonatemi se non ricordo esattamente la versione dialettale del detto - che "con mille lire di mellone magi bevi e ti lavi la faccia" (una versione più antica, diceva, in verità: "Con due soldi..."): la fetta d'anguria acquistata dal venditore ambulante, secondo tradizione, andrebbe consumata direttamente a morsi procedendo dal cuore del polpa verso l'esterno, che poi va ripulito con attenzione, lasciando da parte il bianco della buccia con quella parte di rosso che ha una consistenza troppo zuccosa. Quest'operazione comporta che ci si spalmi una parte del viso con il succo dell'anguria e che una parte di esso scoli anche per terra: da qui, la caratteristica postura che s'è costretti ad assumere mentre se ne mangia una porzione l'anguria, con il busto livemente proteso in avanti per evitare di macchiarsi camicia, pantaloni e scarpe.
Per questo motivo,
da piccoli, la festa maggiore poteva essere consumare la fetta di mellone agghiacciato, quando si era in spiaggia ed in costume da bagno: allora sì che ci si poteva sbrodolare senza alcun ritegno...!
Il mellone (soprattutto quello rosso) racchiude l'essenza del Mediterraneo perchè all'interno della sua scorza dura - eppure così fragile: basta un urto da niente perchè si frantumi - racchiude una polpa dolcissima ricchissima d'acqua e con pochi residui fibrosi. Chi sputa i semini del mellone uno ad uno mentre mangia la sua polpa, non ha capito nulla del piacere intrinseco del divorare l'anguria: sarebbe come sputare, uno ad uno, i semini contenuti all'interno degli acini d'uva e mondarli anche della loro buccia.
E dell'anguria si possono fare autentiche scorpacciate: specie quando è buono, dolcissimo e sugoso come si deve.
Alcuni dicono: "Tanto è solo acqua! Che male mi può fare?".
Questi piaceri d'un tempo tendono a perdersi: adesso alcuni "mellonari" si sono raffinati e, accanto alle loro bancarelle, hanno predisposto - per i consumatori più pretenziosi - dei tavoli da degustazione, dove servono la fetta d'anguria "al piatto" assieme ad un coltello e, in alcuni casi, anche alla forchetta.

Ma torniamo al gelo di mellone, da cui è partita questa prima nostalgica escursione.

Tecnicamente, si tratta di un dolce al cucchiaio "...molto semplice da realizzare a patto di avere dell’ottima materia prima", dicono alcuni prontuari.
Se poi viene servito con una spruzzata di briciole di pistacchio e un paio di fiori di gelsomino sopra, si realizza una perfetta combinazione di odori, colori e stimolazioni ineffabili sulle papille gustative.
Con il gelo di mellone, poi, si possono confezionare anche ottime crostate, oppure delle paste ripiene.
Però, vi avverto: è difficile degustare un buon gelo di mellone.
Il migliore, però, - credetemi - è quello fatto in casa, seguendo modalità di preparazione che vengono tramandate da una generazione all'altra.
Questa - rinvenuta in internet - è una delle possibili procedure per ottenere un buon gelo di mellone
Eliminate la scorza all’anguria, togliete i semi e tagliatela a cubetti che passerete al passaverdura. In una pentola miscelate l’amido, lo zucchero e una presa di sale. Aggiungete a filo il succo d’anguria aiutandovi con una frusta al fine di evitare la formazione di grumi. Quando il composto sarà ben omogeneo mettetelo sul fuoco a fiamma bassa e continuate a mescolare con un cucchiaio di legno finchè non si vedono le prime bolle. Continuate a far cuocere per un paio di minuti, togliete dal fuoco e aggiungete la vanillina e 3 o 4 fiori di gelsomino. Incorporate ora della zuccata tagliata a dadini. Versate la crema in un contenitore o in stampi monoporzione bagnati o spennellati con olio di mandorla. Lasciate raffreddare e mettete in frigo per almeno 24 ore. Sformate e, prima di servire, guarnite con cioccolato grattugiato, granella di pistacchio e qualche fiore di gelsomino. Ottimo anche per farcire una crostata... (www.cuochidicarta.blogspot.com)
Però, ricetta o non ricetta, quello di cui volevo parlare io era il mio ricordo dei giorni del gelo di mellone.
Per noi piccoli, la cosa veramente speciale non era tanto il gelo di mellone già pronto, ma il fatto di assistere all'intera procedura della sua preparazione che, di norma, avveniva uno o due giorni prima della ricorrenza che richiedeva come dolce il "Gelo" (consentitemi di chiamarlo così: il "Gelo" senza nessun'altra specificazione).
Prima della mia mamma, era la nonna a prepararlo in grandi quantità, perchè poi oltre a quello che si consumava tutti assieme ne mandava anche ai suoi figli.
Mia madre ha continuato la tradizione e, quindi, da un certo punto in poi è stata lei a prepararlo, seguendo la ricetta tradizionale di famiglia.
La vera festa - dicevo - era la preparazione del gelo.
Perchè?

E' presto detto:
innanzitutto, noi ragazzini facevamo da "aiutanti" e, in secondo luogo, ce ne stavamo lì come tanti cagnolini in attesa del boccone-premio.
Come avveniva ciò?
Ve lo spiego in poche parole.
Mia madre era l'operatrice principale e la regista dell'intera operazione
Nella prima fase di trattava di passare il mellone e produrre il succo filtrato. Mia mamma anziché passarlo nel passaverdura, lo "grattuggiava" in una specie di passa-pomodoro dalla superficie lievemente rugosa (questo metodo aveva il vantaggio di prendere in piccoli frammenti anche la componete fibrosa, così da assicurare alla fine un gelo più denso). Lo trattava a pezzi tenendolo ogni frammento dalla scorza, come si farebbe per grattuggiare un pezzo di parmigiano. A noi era concesso di "grattuggiare", quando c'era ancora tanta polpa. Lei faceva la parte più delicata per evitare che, nella foga, si macinassero anche parti di bianco fibroso ed insipido. Però, in base alla conformazione della fetta, rimanevano sempre frustoli di "rosso" che non potevano essere "trattati": quelli toccavano a noi che, in quattro e quattr'otto, li ripulivamo in attesa dei prossimi scarti.
Poi, passata la fase del filtraggio che portava alla raccolta d'una grossa quantità di un bel succo rosso e denso, veniva la fase della cottura in una grande pentola, assieme all'amido e allo zucchero (poco, a dire il vero).
Qui, si trattava soltanto di attendere il premio più ambito: a procedimento ultimato, dopo qualche minuto di attesa, la mamma aggiungeva la zuccata a cubetti ed il cioccolato fondente tagliato a scaglie per simulare i semini neri disseminati nella polpa dell'anguria. Quindi, cominciava a versarlo nelle ciotole che intanto aveva predisposto, di varia foggia e dimensione (alcune piccole, in cui sarebbe stato servito direttamente agli ospiti, altre più grandi da cui il gelo, una volta rappreso, sarebbe stato scodellato per essere servito come un grosso budino). Quando anche questo passaggio era ultimato,
per noi piccini, arrivava la parte più bella (finalmente!!!): rimaneva tutto per noi un pentolone tutto incrostato di buon gelo ancora caldo e, a questo punto, avevamo il permesso di scatenarci a raschiarne il fondo e la pareti con il cucchiaio.
Mmmmmmm!!!
Come era buono!
Me lo ricordo ancora adesso, proprio sulla punta della lingua e nel naso (la componente olfattiva era importantissima), se soltanto ci penso. Poi, siccome la produzione del gelo era sovrabbondante, per molti giorni dopo i festeggiamenti, a casa si continuava a mangiarne a colazione, a pranzo e a cena. E vi posso assicurare che le mie incursioni clandestine nel frigorifero erano davvero molto frequenti!!!

Oggi, la mia mamma, il gelo di mellone non lo fa più, ma una mia cugina ha raccolto il testimone, perfezionandosi di anno in anno e raggiungendo risultati sempre più di eccellenza.
Quel gelo di mellone della mia infanzia non tornerà più: il suo gusto, il suo odore, il suo aspetto erano resi particolarissimi dal rituale della preparazione, da quello stato mentale eccitato dell'attesa.
E' proprio vero che il "buono" da mangiare deriva dalle tradizioni del nucleo familiare e del gruppo umano in cui si cresce, prima ancora che dalle qualità organolettiche del cibo, in una felcie sintesi tra ciò che viene trasmesso culturalmente all'interno del proprio gruppo di riferimento (la cellula familiare, innanzitutto) e una specialisima componente di coloriture affettive e memorie d'infanzia.
Ciò che è più buono è strettamente legato con i ricordi più felici della nostra infanzia: come mostra - con fine intuito psicologico - il recente cartoon della Disney "Ratatouille", in cui la feroce misantropia del "critico" gastronomico, propenso a livide stroncature, viene spezzata, allorchè la pietanza allestita dal piccolo topo che voleva essere Chef, accende in lui memorie d'infanzia dimenticate, che lo portano ad immergersi in un'ineffabile sensazione di felicità mai più sperimentata dopo e dimenticata. E' proprio vero che quando ci si imbatte fortunosamente in pietanze cucinate in un certo modo (in cui ricorre una particolare ed unica combinazione di sapori, odori e colori) si viene prepotentemente trascinati nel proprio passato, con il risveglio di affetti sopiti e di ricordi gioiosi. Ed è soprattutto questa dimensione affettiva che rivive a rendere un certo cibo sublime.
La ricerca di piatti gustosi, che piacciano intimamente, non è altro, in fondo, che espressione del desiderio di ritrovare un ponte di collegamento con il nostro tempo perduto.
D'altra parte, proprio su questo tema, è proverbiale la famosa madeleine di Proust da cui prende le mosse il suo monumentale lavoro sulla memoria del suo "tempo perduto".

Proprio queste connessioni tra cibo e cultura ha cercato di spiegarci Marvin Harris, nel suo "Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari" (Einaudi, 1992), un vero classico dell'antropologia delle abitudini alimentari, con il supporto di molteplici, documentati (e a volte singolari) esempi.

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